di Nicola d’Ugo
Una bellissima fotografia delle mani di Franz Wright su una vecchia macchina da scrivere, ripubblicata su Facebook dalla moglie e cotraduttrice Elizabeth a due giorni dalla morte del marito. Mani raffinate e vissute, unghie sporche, che danno un’idea della totalità affondata nell’humus e nella «singolarità» unica e universale della sua poetica esistenziale. Franz Wright si chiedeva e ci chiedeva su Facebook, e richiedeva a se stesso, ben prima della malattia: Quanto resisteranno i miei versi, mi sopravviveranno? E in che misura? Questa foto mi fa venire in mente, più che le antitetiche scarpe anonime da vittime della Shoah raffigurate da Andy Warhol, le scarpe da contadino di Van Gogh, su cui Fredric Jameson propose un parallelismo nel tracciare la differenza tra modernismo e postmodernismo. Mani vissute, macchina da scrivere vissuta, come le sporche, sformate e utilissime scarpe da contadino. «L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza» scriveva Martin Heidegger, con un’espressione e un concetto che utilizzò per spiegare l’usabilità così profondamente raffigurata da Van Gogh, altro che il postmodernismo. Fidatezza della macchina da scrivere, delle mani deterritorializzate, immemori di sé e concentrate nella scrittura. Il resto è in ombra. Wright di postmodernista aveva ben poco. Era un quindicenne sessantottino finito per essere un sessantottino vero fino all’ultimo, senza mai tradire l’Origine biografica. E questo lo rendeva estraneo a vezzeggiamenti e mode stilistiche. Un uomo a nudo, dionisiaco, scorbutico, raffinato, amabile, fino all’ultimo. I toni rossi della foto corroborano questo sentimento del poeta maledetto alla Van Gogh. Poiché Franz, Franz Wright, il Premio Pulitzer Franz Wright, il raro Premio Pulitzer ad esser stato anche finalista di un Pulitzer precedente per la poesia, Franz Wright, Franz o FW come alternativamente si firmò scrivendomi, unico Premio Pulitzer per la poesia ad esser figlio di un Premio Pulitzer per la poesia, non volle mai piegarsi a compromessi e vezzeggiamenti. Poteva distorcere la realtà attraverso le sue palpabili visioni, flettendo oggetti, concetti, miti e perfino parole, a nostro vantaggio, per riproporli in altra ottica intensiva, non in accomodamenti e storture della menzogna, estranee all’ottica delle sue verità e del suo continuo percorso di ricerca.
Chiunque come me lo abbia amato in vita e letto i suoi versi e le sue innumerevoli interviste, chiunque come me abbia discusso con Wright, mentirebbe se dicesse il contrario. E di testimonianze di chi lo ha incontrato di persona ne ho avute diverse negli anni. Chi lo detestava, e che lui detestava, era soprattutto l’Accademia, incapace di rapportarsi alla sua grandezza pubblica e personale da un lato e alle sue sregolatezze di sapiente poeta variamente alcolizzato e lucido dall’altro. Poiché Franz, Franz Wright, non si piegava, anzi denunciava l’appiattimento della cultura del suo paese e delle università, le stesse che avrebbero dovuto offrirgli, nell’ottica corriva americana, cattedre, sostegni finanziari e salario per la sua unicità di autore e maestro delle generazioni a venire. Non che non gli offrissero corsi di insegnamento, lo facevano, ma non riuscivano a inquadrarlo nei loro schemi, in un’America che non è più quella delle università dei grandi autori degli anni Sessanta che Franz conobbe fin da piccolo, attraverso il padre famoso e sregolato, collega, nello stesso ateneo, dell’ancor più sregolato Saul Bellow. A fronte di una lunga discussione che avemmo, Wright prese spunto per affermare che l’università italiana era dimolto superiore a quella americana, indicandomi come esempio di quello che in America non si riesce a raggiungere in ambito critico e culturale in genere.
Era generoso Franz Wright. Non lo smentii nel merito, o forse lo feci, ma gli feci altresì notare che l’università italiana soffriva delle stesse pecche, se non maggiori, di quella americana. Personalmente, pensavo e penso, come lui, che le università italiane siano leggermente superiori a quelle americane (dieci anni fa lo erano ancor di più, venti anni fa lo erano di certo), nonostante i finanziamenti statali forniti a iosa agli atenei pubblici statunitensi e centellinati da noi (un nostro paradosso costituzionale, oserei dire) e nonostante il fatto, anch’esso paradossale per il sistema Italia, che i laureati americani di una triennale, e vieppiù magistrali, trovino collocazioni dirigenziali in uno due anni, mentre gli italiani fanno i commessi, gli spazzini, i bidelli e i disoccupati per anni o la vita intera, a fronte di diplomati che, attraverso canali opachi, arrivano a rivestire ruoli direttivi con quel che ne consegue in termini di qualità gestionale e di realizzazione efficiente dei progetti. Tralasciamo. Era una delle questioni.
Colgo invece l’occasione per ricordare quali fossero le raccolte preferite di Wright, quelle che voleva che leggessi, quando, nel 2011, me le fece spedire a Lerici, insieme ad altre, dalla sua curatrice Deborah Garrison: ”Earlier Poems” (Poesie precedenti), “Walking to Martha’s Vineyard” (A passeggio verso Martha’s Vineyard), “The Beforelife” (L’antevita), le prove di stampa di “Kindertotenwald” e “Wheeling Motel” (Motel di Wheeling), che allora riteneva il suo libro migliore.
Foto splendida. Macchina da scrivere come utensile; mani vissute che trasmettono nella scrittura la propria esistenza in vita. Per ricopiare appunti, poesie, rispondere a interviste, regalare ai lettori anglofoni le sue splendide traduzioni di Rilke. Una delle mie più importanti esperienze di vita è stata essermi imbattuto in Franz, Franz Wright, su Facebook. E anche uno dei problemi maggiori di questi anni nel cercare di realizzare un progetto, piccolo ma per me importante, con lui. Progetto cui ho rimandato di anno in anno, esigendo da me stesso quello stesso rigore che lui mi aveva richiesto ed esigeva soprattutto da sé nel suo lavoro. Wright scriveva di getto, con correzioni in corso d’opera, ma poteva capitare che riscrivesse una poesia fino a cento duecento volte. Mi auguro che i suoi splendidi libri, come ho ripetuto in questi anni ad amici, vengano presto degnamente tradotti in italiano, al pari di quelli da noi ampiamente fruibili di Simic (che egli mi spinse a leggere), di Hughes, Heaney e Harrison. Non sillogi: libri interi. Periodi della vita, fasi profonde. Poiché ogni libro di Franz Wright, di Franz, non costituisce un unico grande libro: ogni raccolta di versi raffigura una fase intensa della sua vita, per forma, stile e argomento, dalla rivisitazione postuma del suo rapporto col padre all’esperienza del ricovero in manicomio, dall’alcolismo all’amore, dal sentimento del viaggio a quello del paesaggio e della natura, all’impermeabile e interrogativo colloquio con Dio. Per questo quelle mani vissute su una macchina da scrivere, anch’essa vissuta e segnata dal logorio del tempo, fissano un momento dell’uso e dono di sé, del proprio corpo e degli utensili della scrittura nel qui ed ora concentrato e privato, senza volto, di un lavoratore che pieghi tutto se stesso nell’atto della composizione. Visto da vicino, questo era, è Franz colto dallo sguardo sintetico della moglie, già sua allieva e collega, Elizabeth Oehlkers Wright, la quale ha rappresentato l’amata e ideale compagna della svolta «spirituale», evidentemente cattolica, del 1999 nella vita e nella poesia di lui, una svolta che coincide con il quindicennio di grazia della sua più acclamata produzione letteraria, che neppure la malattia è riuscita a frenare.
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Franz Wright (Austria, 18 marzo 1953 – Stati Uniti, 14 maggio 2015) è stato un poeta Americano.
… E in Italia esistono suoi libri tradotti?
Un saluto e grazie,
Giampaolo