Edizione a cura di Fabrizio Cavallaro, Massimo Raffaeli e Francesco Scarabicchi con uno scritto di Enzo Siciliano (LietoColle 2015)
Foto di Dino Ignani
Dalla prefazione di Fabrizio Cavallaro
“Era da tempo che cullavo privatamente l’idea di pubblicare queste poesie, trovate casualmente alla biblioteca universitaria della mia città, in un numero di “Nuovi Argomenti” del 1968, durante le ricerche che andavo facendo, a quel tempo, per la ia tesi di laurea su Pier Paolo Pasolini. Ricordo che fu, per me, una vera folgorazione: addirittura un’intera seppur breve, plaquette, che – chissà come- lo stesso Bellezza non ha, successivamente, mai inserito per intero in una vera raccolta. Ne avevo parlato con Dario stesso, al telefono, e lui m’aveva pregato di occuparmene. Si tratta di poesie “datate”, nell’accezione migliore del termine: testimonianza di un periodo “caldo” di apparenti rivolgimenti sociali, durante il quale il giovane Bellezza faceva i conti con la speranza d’una palingenesi possibile solo se vissuta sul terreno strettamente personale, di coscienza, ma anche di subconscio, in ciò, disperatamente polemico con le rivendicazioni sociali del tempo ( come lo fu lo stesso Pasolini). Bellezza era per un impasto radicale della coscienza collettiva, filtrata da un forte spirito luterano. Aveva già intuito, allora, che la poesia è un’arma che non dà consolazioni: giunge dal rimorso ( più che dal rimpianto) per un bene perduto, una purezza dissacrata. Dario gettava il proprio corpo nella lotta, sfidando l’etica borghese, ipocrita e manichea, fatta di perbenismo, famiglia, rispettabilità sociale, rampismo. Era un “uomo morale” che si opponeva., istintivamente, ad ogni forma di moralismo degradato.
Ricordo le ultime conversazioni telefoniche. Era già malato. S’aggrappava a poco, ormai.
Ricordo anche la sua disincantata allegria, quando, per esempio, mi comunicò la vittoria al premio Montale per la sua ultima raccolta di poesie da vivo: L’avversario.
Sono versi disperati, questi de La vita idiota, della lucente disperazione ch’è appannaggio urgente solo della “meglio gioventù”. Poi, la vita ordinaria ha sempre il sopravvento. Ed un poeta come Dario Bellezza sentiva il morso raggelante dell’omologazione, da buon allievo di Pasolini, di Elsa Morante. Il mondo di Bellezza era popolato di “coatti”, angeliche figure pronte ad impartirti la santa benedizione prima del colpo di grazia. Ma la disperazione di un poeta non è mai gratuita, seppur imbastita di recitazione. In questo, Bellezza era un fedele wildiano.
Rimane stringente, quasi assillante, il dialogo con Pasolini, anche dopo l’assassinio del regista. Bellezza si sentiva un figlio degenere, che ha imparato bene la lezione paterna: divorare il genitore per non esserne, a sua volta, divorato…..”
A un poeta
Ora lo so: quel figlio a te non nato,
paradosso, scherzo della natura, ero io;
e tu dunque mi fosti più che fratello, iddio,
ladro di cuori, maestro, mi fosti padre.
La gente non capirà, dirà la solita mania
di esibire il proprio spampanato self
di giovinetto in progress; non mi addolora
tutto ciò, mi esalta, se non fosse l’atroce
sgomento di sapere che neppure tu capirai.
Ti spiego. Era il tempo del modello su cui costruirsi
dell’Imitazione; nell’irrealtà in cui vivevo
unica, maledetta realtà eri tu. La spina della carne
la giocai a carte, puntai sulla tua dolce
violenza tutto ciò che avevo, ed eccomi qui
perso ad ogni altro destino che non sia il tuo.
Ma come per ogni altro padre è giusto che il figlio
anche il più amoroso e fedele si ribelli – in una
lunga rivolta che pecca contro la speranza
di essere padre di sé stesso, una volta per sempre,
così a me si richiedeva la dolorosa prova:
fare scempio del mio amore per te, appena figlio
già degenere figlio, prodigo figlio che non tornerà
mai alla casa del padre.
Ma tu non mi hai voluto. Non ti sei prestato alla manovra.
Come antivedendo tutto, nella tua disperata saggezza.
E dunque ora non ti posso rinnegare.
Rimani a confondere i miei piani.
Eppure mi ti accostai pallido e vergognoso
come un infante a cui non resta da fare
che prenderlo per mano, ma tu, la tua superbia
mista ad amarezza, assai mesta di tanti
rompiscatole intorno, mi evitasti sia pur
dolcemente come fossi il solito questuante.
Non hai capito, o hai finto prudente e misericordioso
e ti ho per questo odiato tanto da non voler essere
veramente quel tuo figlio non nato.
Mi hai rinnegato due volte, poeta
dolceardente non fatto per la paternità. Ma io
resto inchiodato alla tua immagine struggente
in un transfert diabolico della mia ansia
alla tua poesia.
1963