Corrado Bagnoli, “Casa di vetro”

corrado-bagnoli-casa-di-vetro-prefazione-di-davide-rondoni-7Dalla prefazione di Davide Rondoni

La poesia che racconta è in Italia, e non da oggi, una presenza importante. Il raccontare della poesia naturalmente è diverso da quello della prosa. Ma come il poetare fa parte della natura umana – con la lingua che si movimenta e accende per mettere a fuoco la vita – così il narrare fa parte del nostro essere, come custodia del vivente nelle parole. E dunque da una grande tradizione di poesia narrante – lo è la Commedia e lo sono più esplicitamente gli Ariosto, i Tasso, i Foscolo, ma anche in vari momenti, Leopardi, Manzoni, Pascoli, D’Annunzio su fino al Novecento di tanti poemi integri o lampeggianti, da Campana a Rebora, da Bertolucci a Testori, dalle narrazioni frante di Caproni a quelle di tanti contemporanei – vengono anche questi versi di Bagnoli, che di poesia narrante ha fatto compito e destino.

Nel suo poema, che inizia come ogni vera storia da un trauma, da una ferita che trova forza poetica d’espressione, come in quell’emblema nitido e violentissimo e pur dolce del “titanio” nelle gambe del prete, Bagnoli traccia sì una storia “milanese” ma con aperture sui mondi della carità (don Orione) e dell’arte (Fontana e gli altri pittori) che consentono alla storia di uscire subito dal colorismo di una narrazione locale e nostalgica. Tale rischio del resto non corre la sua poesia narrante, essendo la nostalgia e i luoghi e i personaggi dati con tratto asciutto e ficcante. Poesia che nella pazienza di tessere anche le immagini del quotidiano trovo sempre tesa a un punto di fuga, a una conquista. E se una tensione dunque esiste in questo procedere regolare del verso, in questo fluire, è quella di chi sta cercando di conquistare qualcosa nel controluce degli eventi. Come se nelle vicende che si svolgono, nel protagonista e in quella “luce di Milano” che è anch’essa una cangiante protagonista, Bagnoli cercasse con la pazienza della scrittura di dare corpo lui stesso alla virtù che a un certo punto del racconto stesso emerge, come parola del racconto, parola chiave, cesto e corona del racconto medesimo: accogliere. E cosa è questa poesia che narra e va all’osso, fermando e mettendo genialmente a fuoco il gesto di Fontana di fronte alle tele per essere tagliate, o curvandosi sui gesti intimi di una madre addolorata, o dando il senso del febbrile lavoro e della ancor più febbrile carità ? Non è forse accogliere, ancora accogliere ? Nell’età della dissipazione cosa fanno i poeti ? Fanno il gesto contrario, che non è l’archiviazione della storia, la infinita e inutile wikipedizzazione del mondo, o la futile riduzione delle storie a numeri, a tendenze. No, i poeti fanno come Bagnoli, curvi e oscuri ai più, mettono le parole il più possibile meglio le une accanto alle altre perché la vita in questo strano nido o cesto o forse intreccio di fiato e supplica e canto trovi ricovero e messa a fuoco, e dunque altra vita. […]

UN ESTRATTO

QUADRO UNO

 

E’ un francobollo incollato al lenzuolo,
una macchia raggrinzita, un gomitolo
di carne che si sta asciugando dentro
il mondo bianco che è il suo mondo;
che ci navigano dentro gli anni che non sa
più nemmeno. Solo lui che la gira di lato,
sollevandola come una cosa che gli si può
rompere in mano, come una carta secca
di tempo e di niente, solo lui le scorge
giù il fondo, nel poco colore scuro rimasto
dentro quel lago di dimenticanza, di vivere
respirando soltanto le parole che non sa dire,
la faccia che aveva quando era nel campo,
il gramo odore d’estate e l’umido inverno
che le aveva cominciato a strappare le fibre,
a farla già piccola quando doveva crescere
ancora, ma non le aveva tolto nemmeno
un filo della sua bellezza, della sua voglia
di andarsene via, di qualcuno che la venisse
a rubare tra i pioppi ed il grano, che la portasse
a conoscere cos’era davvero quella parola
– lontano – che aveva sempre ascoltato la sera
e che pensava con un odore più buono.
Adesso è lui che va via, il corridoio come
una strada di anni che si porta incollati
alla schiena, negli occhi attaccati alle mani
che la sentono ancora nel suo venire
meno, eppure nel suo essere ancora.
.
La bicicletta gialla gliela aveva regalata
suo padre, ci andava a scuola e nel campo
a giocare. Gli altri avevano in mente Rivera,
si tiravano giù i calzettoni e si lasciavano
andare a qualche dribbling di troppo; lui,
che non aveva nemmeno il fisico giusto,
si portava dei guanti e tirava col piede
una riga tra i due pali di legno, una specie
di tic che aveva imparato da quelli più grandi,
una magia per dire che non si passava,
forse qualcosa di più, una solitudine segnata
in terra, dentro il groviglio di gambe
che avevano solo l’idea di tirare la palla
oltre quella linea che lui custodiva,
una specie di confine del mondo, muro
che si alzava di mani e di scatti, di ginocchia
spellate la sera che sua madre, già piegata
della secca parola che l’asciugava dentro,
si piegava a lavare via, a guardare come
si guarda un sacrilegio: «Come, te che c’hai   
le gambe buone te le massacri apposta?».
Poi gli chiedeva se aveva vinto, se almeno
quel sangue lì era servito a qualcosa,
se aveva portato la bicicletta nel portico,
se doveva fare ancora quel compito, che la scuola
non era mica meno del pallone. E di andare
a salutare suo padre, gli diceva, che stava
sui conti dei ricchi, che li faceva tornare.
Quella sera lì, però, lei non si era piegata
davanti alle sue gambe, che lui quasi, adesso,
ne provava anche vergogna, che era grande
e non era il caso che lei continuasse così.
Quella sera lì suo padre non c’era. Dov’era?
Lei sembrava ancora più piccola, la voce
non le usciva neanche. Lo prese lì, tenendo
le mani di polvere e sangue nelle sue, secche,
dure e ancora più nodose di sempre.
Non voleva, aveva pensato tutto il giorno
a come non tirargli quel tiro maligno
tra i pali, a come non lasciarsi andare
davanti al suo bambino che aveva ancora
bisogno di tutto, a come non buttargli
addosso una croce che era già troppo
pesante per lei. Ma gli occhi non obbedivano
mica, viaggiavano tra le parole allagati:
«L’ospedale, chissà se ritorna». Lui
rimase lì, tra quelle mani che si scioglievano
per la prima volta, sopra quel dolore
che la faceva ancora più piccola. Non aveva
vergogna, piangeva; non sapeva nemmeno
cosa avesse suo padre, piangeva con lei,
gli sembrava che questo bastasse.
 

___

Corrado Bagnoli è laureato in Filosofia ed è attualmente insegnante di Lettere nella scuola media. Dal 2004 è curatore della collana di libri d’arte “Fiori di Torchio” editi dal Circolo Culturale “Seregn de la Memoria” per il quale ha scritto e curato i libri fotografici della collana Pomm Granà Inventario quotidiano, 2005; Brianza, un paese in viaggio, 2006; Brianza, un paese in piazza. Tra memoria e desiderio, 2007.
È redattore della rivista «La Mosca di Milano» e della collana di poesia, saggi e traduzioni “Sguardi” delle edizioni La Vita Felice. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo Uichendtuttoattaccato, Edizioni Joker, 2003; le raccolte poetiche Terra bianca, Book Editore, 2000 (premio Caput Gauri 2001); Nel vero delle cose, Book Editore, 2003 (finalista premio S. Domenichino 2003, finalista premio Contini Bonacossi 2003); La scatola dei chiodi, La Vita Felice, 2008 (selezionato premio Pascoli 2009); In tasca e dentro gli occhi, Raffaelli Editore (premio Clandestino 2009). Sue poesie e suoi saggi compaiono in numerose riviste e in varie opere antologiche tra cui ricordiamo qui La poesia e la carne a cura di Mario Fresa e Tiziano Salari, La Vita Felice, 2009.

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