Claudio Pasi

claudio_pasiA cura di
Luigia Sorrentino
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Nota di Alessandro Fo  

Tutta la lirica di Claudio Pasi è un’articolazione musicale di una profonda pietas. È segnata cioè da un costante e innamorato rispetto di un passato che corre dall’antichità classica al cerchio dei luoghi in cui è cresciuto l’autore. Il ‘narratore onnisciente’ – che però conquista spesso la sua scienza con un paziente lavoro d’archivio su sperdute fonti – guarda a oggetti anche piccoli o storie molto ‘minori’ del passato con una proiezione nostalgica che chiama tutto a nuova vita, in un concerto di melodie per lo più regolate su elegantissimo endecasillabo. Lo si coglie bene in queste ‘fughe’ su ricordi di guerra. Nulla di eclatante sul piano della grande Storia che travolse il Mondo: ma minimi, delicati frammenti di quello stesso mondo travolto, studiati con infinita partecipazione, e consegnati, nel loro breve respiro, alla universale, commossa memoria della poesia.

 

TEMPO DI GUERRA

La 17ª giornata del campionato di serie B, 1939-40

 

È vero, è nevicato, ma una torma
di spalatori ha liberato il campo
e la temperatura, scesa a meno
dieci la notte scorsa, ora indurisce
il terreno di gioco che risuona
sotto i tacchetti delle scarpe come
un vaso vuoto. I due portieri sembrano
neri corvi che saltino tra i pali.
Le squadre si riscaldano, sciamando.
Soffia sopra le dita intirizzite
il mediano Calanchi, poi disperso
nelle steppe ucraine, e insieme agli altri
corre incontro alla sorte anche Gaiani,
il più giovane – lo ritroveranno
fra le macerie di un bombardamento.
Ma adesso tutti fissano il pallone
immobile: la folla tace, mentre
Lupi va a battere il calcio d’inizio.

 

È la risposta ad alcuni versi di una poesia di Alberto Bertoni (ora in Ricordi di Alzheimer, Book Editore, 2008, p. 27) che qui riporto: «Eppure, campionato ’39 – ’40 / addirittura in serie b / ha militato il Molinella calcio / una meteora sennò / me ne avresti come minimo parlato / per quanto quell’inverno è nevicato». Le notizie sono tratte da A. Martelli, Una squadra che tintinna, Molinella, Edizione Omnibus, 1991.

 

Affondamento di una biblioteca nel 1940

 

Il lungo viaggio della biblioteca
che appartenne a un poeta, attraversati
molti mari, rinchiusa nella stiva
del mercantile assieme alle derrate,
finisce qui, sul molo di Massaua.
Forse per un errore di manovra,
forse centrata da una cannoniera
inglese, ora la nave cola a picco.
Il carico s’inclina e da uno squarcio
della carena scivola sottacqua.
Dalle casse schiodate fuoriescono
i classici Barbèra, le edizioni
commentate di Tasso e di Petrarca.
Nelle onde si sfogliano i volumi
simili ad alghe o a ombrelli di meduse
e le ali delle pagine sorvolano
le corolle chiomate delle attinie,
fluttuando verso il fondo. Le brossure
rimangono impigliate tra le fronde
taglienti dei coralli mentre guizzano,
sopra le dorature degli in quarto
del Tommaseo-Bellini o intorno ai Canti
popolari in San Pietro Capofiume,
frotte di pesci variopinti. In questo
cimitero sommerso di conchiglie
e sabbia e nafta e scafi arrugginiti
riposano le carte dei poeti.

 

In mancanza di notizie più precise, faccio riferimento all’articolo di C. Masotti, Sull’opera letteraria e storico-filologica di Severino Ferrari, in «Italianistica», ix, n. 2, 1980, pp. 298-299: «La biblioteca privata di Severino Ferrari [passata in eredità all’avvocato bolognese Fabio Roversi Monaco senior] è andata perduta nel 1940, probabilmente affondata sul molo di Massaua mentre compiva il viaggio dall’Italia ad Addis Abeba ove avrebbe dovuto costituire la prima pietra per la costruzione di un impero culturale italiano in suolo africano». Tra il 1888 e il 1891 il Ferrari pubblicò nell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» i Canti popolari in San Pietro Capofiume, suo paese nativo.

 

 

La madre di un caduto al fronte nel 1942

 

Incù a i ho avért la pórta dla tô stanzia,
a i ho tólt vi al tlarè da la lumira,
la pòlvar dal cumò, a i ho antè i vidar,
a i ho arsintè i linzù, svultè la cuérta
e i tamaràz, pighè la tô camisa
(quèla col sulén dur) e al ftièri blu
ch’al pèr anch nóv, a i ho lustrè la mdaia
e la curnìs dla tô fotografî,
e pò am sòn méssa a sédar dnanz a l’óss
dla cusìna, in casòn, par mód ch’a psés
vèdar la strè ch’la vén da la zitè
e, a l’impruvìs, a i ho srè i ucc’, cardand
ch’at fóss turnè dabòn, ch’at fóss anch viv.

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Nel dialetto della Bassa bolognese. Trad.: «Oggi ho aperto la porta della tua stanza, / ho tolto le ragnatele dalla lampada, / la polvere dal comò, ho pulito i vetri, / ho sciacquato le lenzuola, rivoltato la coperta / e i materassi, piegato la tua camicia / (quella con il colletto duro) e il vestito blu / che sembra ancora nuovo, ho lucidato la medaglia / e la cornice della tua fotografia, / e poi mi sono messa a sedere davanti all’uscio / della cucina, socchiuso, in modo che potessi / vedere la strada che viene dalla città / e, all’improvviso, ho chiuso gli occhi, credendo / che tu fossi tornato davvero, che fossi ancora vivo.»

 

Un aeroplano abbattuto il 14 maggio 1944

 

 

La scia di fumo che attraversa il cielo
terso di primavera è un aereo Macchi
205 «Veltro», decollato
da Reggio Emilia per intercettare
la rotta di uno stormo di fortezze
volanti provenienti da sud-est,
ma, colpito dalle mitragliatrici
della caccia nemica oppure a causa
di un’avaria al motore o arrampicando
sulle nubi salito troppo in alto
e andato in stallo, adesso perde quota
e fende l’aria con la fusoliera
maculata. Ormai senza controllo,
entra in vite e precipita in picchiata.
Sussultano i quadranti e le lancette
del cruscotto. Il pilota, con la mano
stretta intorno alla cloche come un artiglio,
inutilmente tenta di cabrare.
Forse intravede, prima dello schianto,
un campanile storto ed una torre,
pendenti dalla terra rovesciata.
Il serbatoio esplode. Una ragazza,
mentre raccoglie erbaggi lungo i fossi,
osserva di lontano l’apparecchio,
simile a una farfalla che sfarina,
cadere in mezzo ai campi. Allora lascia
la sporta piena di radicchi e corre
nel punto in cui si levano le fiamme.
Sparsi all’intorno appaiono i frammenti
della carlinga, un alettone, l’elica,
la ruota del carrello e, tra le spighe
ancora verdi, un fazzoletto bianco
con sopra un’iniziale ricamata.

 

Notizia e dettagli sono desunti dal volume L’aereo Macchi 205 “Veltro” caduto a Guarda di Molinella il 14 maggio 1944. Storia di un episodio di guerra e del suo pilota recuperato il 5 agosto 2000, a cura di G. C. Stella, Bagnacavallo, Tipografia Zattoni, 2000.

 

Due episodi dell’inverno 1944-45

 

1.

 

Dopo le strida acute della vittima
e le lame lucenti dei coltelli,
una chiazza di sangue sulla neve
rappresa di dicembre è quanto resta
del sacrificio. Sopra lunghi tavoli
hanno disposto cumuli di carne,
il sale triturato, il pepe, il vino
rosso, le erbe aromatiche cresciute
alla rinfusa negli orti di guerra.
Dietro il fienile gli uomini sollevano
lentamente lo sguardo dai paioli
dove bolle lo strutto e tra i vapori
del loro fiato in lontananza vedono,
oltre le rame incrostate di ghiaccio,
le vampe e il fumo dei bombardamenti.

 

 

2.

 

Pochi giorni più tardi, nella stessa
casa, due soldati della Wehrmacht
ormai consueti al desco contadino,
appena di vent’anni, inapparenti
effimere comparse della storia,
mentre stanno mangiando, di sorpresa
vengono massacrati a colpi d’ascia
e durante la notte sotterrati
da qualche parte dentro la golena.

 

 

Hound’s head, 1945

 

 

E così, ritornati verso i primi
di maggio dal paese di campagna
dove erano sfollati per fuggire
dalle incursioni aeree e dal mercato
nero, ma poi finiti proprio sulla
linea del fronte – l’ultima – attestata
lungo il corso del Senio, ritornati
dunque mio padre ragazzo ed i suoi
genitori in città, già liberata
dai fanti della IV divisione
britannica l’autunno precedente,
videro che la loro casa era
stata in quei mesi un alloggiamento
per i soldati. Avevano, partendo,
abbandonato nel giardino mucchi
di scatole e gamelle di alluminio,
pacchetti vuoti, taniche, bottiglie…
Dentro, le porte scardinate, i vetri
in frantumi, scomparsi argenti e arredi.
Dimenticato sopra il pianoforte,
o forse lì lasciato di proposito
come una sorta di indennizzo, un quadro
dipinto ad olio da uno degli inglesi
per ingannare il tempo. Era la testa
di un setter con il pelo rosso mogano,
la lingua penzolante, le narici
mobili, l’occhio vivo, sulle tracce
dell’usta della selvaggina o in ferma
tra le brughiere, ritratto a memoria
nella tela che ancora conserviamo.

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Le poesie di Claudio Pasi sono uscite in «Girasoli», Periodico letterario a cura dell’Associazione Amici di Romano Bilenchi, n. 6, giugno 2014, pp. 9-14, presentate da Alessandro Fo. La poesia sul calcio e quella in dialetto bolognese sono uscite anche in «Il Monte Analogo», anno 1, n. 1, febbraio 2004, pp. 32-33

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Claudio Pasi è nato a Molinella (Bologna) nel 1958. Vive e lavora a Camposampiero, in provincia di Padova. Ha pubblicato la plaquette di versi In linea d’ombra (Niemandswort 1982) e la raccolta La casa che brucia (Book 1993). Altre poesie sono successivamente apparse su varie riviste e giornali. Ha collaborato a «Poesia» e a «Testo a fronte» con traduzioni da poeti antichi e moderni. Ha scritto di poeti contemporanei e di lirici minori dell’Ottocento, e si è occupato, occasionalmente, di critica d’arte.

1 pensiero su “Claudio Pasi

  1. Oggi ho aperto la porta…
    Ciò che ho intravisto non era invitante.
    Pasi mi ha preso per mano e mi ha guidato
    nella pazienza della poesia, parlandomi sottovoce
    mi ha fatto vedere la verità senza annunciarla
    me l’ha lasciata dentro, in dono.

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