Mount Olympus – To glorify the cult of Tragedy
di Jean Fabre
Teatro Argentina
Roma
17 ottobre-18 ottobre 2015
24 ore di performance
Nota di Mario De Santis
Dilatazione del tempo. Un tempo che supera i suoi limiti, rompe gli schemi. E’ la forma è il contenuto del progetto Mount Olympus di Jan Fabre.
La forma – perché l’opera tutta e molte scene al suo interno – costringe lo spettatore ad una tensione fisica che impone una resistenza passiva nella percezione, al pari degli attori che sul palcoscenico spingono fino all’estremo certe prove fisiche.
La performance di Fabre, ha la durata di 24 ore, senza alcuna interruzione, dalle 19 del 17 ottobre, alle 19 del 18 ottobre, una sfida per il pubblico costretto a rimanere in sala fino allo sfinimento. E chi resta, sfugge per un giorno, a ciò a cui è stato abituato: la fruizione immediata, la brevità, la velocità. Un tempo che mangia tutto il tempo, che costringe a rinunciare al sonno, alle nostre attività diurne, ci tiene lì, in un rito in forma di spettacolo o, all’opposto, in uno spettacolo che ha la consistenza di un rito.
Il tempo, che per lo spettatore è allungato oltre il limite della sopportazione, genera la rottura di ogni limite, innanzitutto quello dello stesso Fabre (e riandando simbolicamente anche alle “sue” origini, quando realizzò “Theatter geschreven meteen Kiseen kater” , una performance in forma di spettacolo della durata di 8 ore, che nel 1980 lo consacrò al successo) si comprende che il suo obiettivo è quello di superare il limite.
L’artista, quindi, per Fabre, deve misurarsi continuamente con quello che ci ha mostrato da subito: un “eccesso di successo”.
Questa considerazione ci fa comprendere che la sua necessità è quella di non ridurre la sua espressione d’arte a un cliché, ma ciò che persegue oltre ogni possibile limite, è l’invenzione di figure di superamento che ingabbiano sempre l’artista in se stesso, catturandolo come una farfalla sotto vetro.
Anche La tragedia da sempre narra di limiti non superati o da superare. L’eroe sta su quel confine. Muore tragicamente perché ha tentato il superamento.
La 24 ore di spettacolo-evento in cui scorrono, rilette secondo la personale reinvenzione di Fabre, quindici tragedie classiche in circa diciassette quadri e altrettanti piccoli quadri, o scene, quindi va letto dunque come un Polittico di un’unica grande “glorificazione della tragedia”. O meglio: un tentativo di riandare al nucleo di quale sia il pensiero tragico, ancora una volta.
Glorificazione significa non esaltare un testo, ma al contrario: spazzare via ogni gloria per individuarne l’enigma sotterraneo per toccarlo con la mano. Quindi, non rappresentarlo, semmai, riprodurlo, riprodurne la stessa energia.
Non tutti i momenti della performance raggiungono lo stesso livello di vigore, in Mount Olympus, a volte ci sono ripetizioni – forse nella consapevolezza che gli spettatori che vedono i frammenti sono di più di quelli che resisteranno eroicamente in sala per 24 ore – e la sfida della dilatazione temporale non sempre è vinta.
Inoltre, c’è una ragnatela di rimandi criptici, non espliciti, a partire dall’individuazione di personaggi e riferimenti al testo classico.
Inevitabilmente un’opera come “Mount Olympus” si trascina dietro tutto ciò che è stato detto sul mito e sulla tragedia. Potrebbe essere un’opera meta-letteraria, meta-artistica e meta-culturale – ogni volta si affronta il mito e si rilegge, a ritroso, tutto quello che sul mito è stato detto.
In realtà la qualità dell’operazione è un’altra: Fabre, supera la rilettura del mito nella sua forma classica, lo fa dimenticare e se ne dimentica, lo usa soltanto per mostrare come superarlo e, al tempo stesso, come andare a riprenderselo direttamente, per stabilire un contatto diretto con la materia del tragico che ci riguarda.
Cosa il mito può dirci oggi, direttamente, cosa era, il mitico e cosa è, “mitico” per noi, di quale materia è fatta l’energia che produce il mito, qual è il nucleo del vigore scatenante che originò la “Nascita della tragedia” dentro la quale oggi, nella contemporaneità, si inscrive la visione di una rinascita.
Fabre costruisce la sua opera-mondo, come la definirebbe Franco Moretti, ribadisce e ridefinisce il suo canone. Qui mettendo in connessione esperienza dell’arte figurativa, con la danza, la musica e il testo ( per questi ultimi servendosi del fidato Miet Martens e aggiungendo l’enfant prodige della letteratura benelux, ovvero Jeroen Olyslagers.)
E qual è quel nucleo del tragico? Eccolo, subito messo in esposizione come verità rivelata e non commentata. Più di un rito, certo oltre ogni “rappresentazione” dove l’energia, la vitalità, cancella ogni paradosso della rappresentazione realistica nella massima finzione: il nucleo è il desiderio. Superare il limite dentro il confine del corpo, dei suoi desideri, della relazioni uomo-donna che diventano generi superati (spesso ricorrono presenze androgine, uomini senza fallo o donne con il fallo).
La sessualità, i corpi, sono l’oggetto e sono, al tempo stesso, lo strumento per dirlo. La cosa coincide con il segno. L’Eros, ovvero il principio di creazione e riproduzione che rompe ogni immagine di sé, ogni pornografia: ecco allora che Fabre prosegue nella sua ricerca costruendo la rappresentazione dell’irrappresentabile, l’oscenità, come spesso ha fatto in molte sue opere.
In Mount Olympus Fabre è in cerca della verità inimitabile: lo si comprende già nei primi minuti, nel primo quadro degli “inizi” che sembra introdurre lo spettatore a ciò che sta ancora prima il tempo che poi sarà raccontato e mentre altre figure percorrono il palco, un uomo si toglie il panno bianco attorno alla vita e resta nudo.
Il membro, inizialmente floscio, pian piano raggiunge un’erezione, potente, senza artifici, senza sollecitazioni.
Senza finzione. Un cazzo o si drizza o non si drizza, eretto è la pura verità della sua erezione. Non la parola o la maschera, il trucco, ma la verità. “Ecce”.
Poi lo spettacolo prosegue in un concatenamento di racconto in racconto, ma il nucleo è posto là, all’inizio, in una sorta di “evento” che dà senso a tutto il rituale: la verità è ciò che non ha mediazioni per esser detta, la verità è ciò che è. La cosa in sé.
L’erezione reale di un pene non si interpreta con un attore. In scena c’è un maschio vero, non è riproducibile come finzione, può essere solo un vero evento che accade (si può fingere anche di piangere, ma l’erezione è vera, bisogna almeno essere eccitati, ma “essere” appunto, non è apparenza – anche al netto della chimica o (uso di un attore porno, forse ha preso il Viagra?)
Qui Fabre già impone un marchio allo spettacolo. Alla fine il gesto si ripeterà, in modo allegorico: quattro ragazze nude lasciano uscire dalla vagina un uovo.
L’erezione è vera, l’uovo è un gesto teatrale, simbolico, per quanto la nudità renda tutto molto diretto, in ogni caso restano anche come due elementi di resa dell’evidenza di ciò che è. Ciò che è, e non è un “segno” ( del resto i suoi quadri di molti anni fa erano dipinti con sangue e sperma veri).
Altre scene chiave sono quelle in cui agli attori è chiesto il gesto atletico estremo. Quelle in cui fanno salti, oppure quando Ifigenia danza, e tra tutte, quella in cui gli attori saltano con la corda (che in realtà è una catena) fino allo stremo della forza fisica, che spinge danzatori e pubblico, a un superamento di se stessi, trascinandoli repentinamente, a qualcosa che vive, che è reale non (solo) una rappresentazione, qualcosa che riconduce al contatto con l’energia pura della volontà.
Anche in questo caso, come nell’erezione, a chi è in scena viene chiesto di superare il limite del suo essere attore-danzatore, e di essere corpo vero che si sottopone a uno sforzo. Lo sforzo fisico e l’orgasmo, sono verità.
Tra l’erezione maschile iniziale e l’uovo partorito dalle ragazze c’è “Mount Olympus”.
Uno spettacolo che abbiamo visto dopo aver pagato il biglietto, come per salire su di un treno che ci ha portato continuamente al deragliamento, all’ uscita dai binari. A farsi mito (teatrale) esso stesso. Così lo ricorderà chi lo ha visto.
Scorrono i quadri, ed ecco Ecuba che protesta contro la decisione di Ulisse di uccidere la figlia, in un intenso monologo di rabbia femminile che sarà il tratto di unione di tutti i personaggi femminili. Lo si ritroverà in altre scene, ad esempio in Clitemnestra, in Antigone, fortissimo e sprezzante in Medea. Ma non mancherà mai la risposta maschile, energica, razionale, affilata: come le ragioni di Odisseo, di Agamennone e Giasone.
Reinvenzione delle ragioni senza tempo che mettono in conflitto, maschile-femminile nei loro ruoli storici, scritti con una grande forza narrativa, immaginativa e a tratti, da poema denso di sottile riflessione concettuale.
L’operazione di Fabre è tuttavia quel che c’è prima, le forze profonde che agitano l’umano cercando il più possibile di abbattere, eliminare i confini tra ciò che è rappresentazione e ciò che non lo è, come da sempre fa l’arte di avanguardia.
La carne viva dell’umano – non è un caso che di carne viva lo spettacolo sia pieno -innanzitutto per i corpi degli attori sempre plasticamente naturali e spesso nudi a manifestare anche nella scena di una coreografia una passione e una partecipazione che abolisca il loro ruolo di interpreti.
Poi ci sono a più riprese, pezzi di carne macellata che macchia di rosso sangue le tuniche bianche usate – a volte gli attori portano cuori o altri pezzi di carne sotto le vesti.
Danze sfrenate, oniriche, gesti, a volte riconoscibili altre volte no. E’ volutamente – per un teatro che sicuramente ne avrà moltissime, tutte catalogate – che si schiera contro l’interpretazione. Anzi, Fabre usa il registro onirico e simbolico ma non cerca una rete razionale di senso, sembra invitarci ad abbandonarci all’enigma che si produce sulla scena.
Corpi in lotta, un Edipo che usa una catena per frustare l’aria, presenze, azioni, figure: sulla scena si susseguono azioni a volte non chiare, oniriche, o impenetrabili, il mito sembra di nuovo parlare con una lingua di tempesta e incerta, fatta di silenzio, sonagli, vomito, grido, un incaglio gutturale che strozza.
E così il significato preciso non c’è: non vi aspettate – forse Fabre sa che il pubblico normale non riuscirà, a meno di non essere un filologo greco – a comprendere e riconoscere tutto.
Il senso è anche quello: il riconoscimento non deve necessariamente arrivare, come non arrivava agli spettatori delle tragedie greche. Dominavano le tenebre e alla loro essenza, l’enigma da decifrare ma incomprensibile, che si manifesta negli elementi primari: violenza pura, amore folle. Molti dei quadri di Mount Olympus sono rappresentazioni di sogni che fanno gli eroi stessi.
La potenza visionaria dell’onirico è fatto della stessa materia del desiderio. La stessa energia.
Lo spettacolo tende a non fare domande, è una celebrazione della nostra capacità di immaginare, un invito al coraggio, all’utopia che manda all’aria le consuete regole del teatro, anche le interpretazioni, la catena dei significati.
Supera la letteratura e la psicoanalisi, cerca di innescare semplicemente un contatto diretto con quel nucleo profondo in cui oggi, per noi, si manifesta il tragico.
Tale nucleo è la sessualità, soprattutto. La relazione dei corpi col genere, e la relazione tra loro, come poi si incastra – o scontra – con il vivere storico. Il suo limite.
Significativo, da questo punto di vista, il ballo delle Baccanti, vero rito dionisiaco in cui si comprende come a chi è in scena, le bravissime danzatrici e attrici, sia stato chiesto di andare oltre la performance e provare farlo diventare evento reale, rito – e come per altre prove “fisiche” in cui le ballerine esprimono una potenza perturbante, misterica e erotica, una vera e propria trance, raramente vista in scena se non nelle esperienze più autenticamente appassionate del teatro di ricerca o nella Body art, quando è il corpo reale dell’artista che sanguina, si modifica.
Questo perché da Duchamp in poi – o dalla psicanalisi e dalla filosofia del primo Novecento – ogni volta che un sapere o una pratica della liberazione dalle catene di qualsiasi cosa ( che siano quelle dell’ideologia dominante, della società come anche dall’arte esistente, dal sapere esistente, o altro) possano essere a loro volta, nuove catene, nuovo manierismo. Ed è per questo che l’arte continuamente si sottrae ai linguaggi artistici per poi reinventarli.
Quel che interessa a Fabre è continuare a percorre il lato dell’ebbrezza e del sogno di un Novecento che si è chiuso lasciando un piano di macerie e di incubi.
(Viene in mente una digressione: “Fontana del mondo” l’opera che nel 2009 Fabre portò alla Biennale di Venezia: una scultura di formalina autoritratto dell’artista, ma più giovane, a grandezza naturale col fallo eretto mentre eiacula. Sdraiato su una montagna di lapidi, con sopra nomi di insetti (l’ossesisoe artistica di Fabre, uno dei fondatori dell’entomologia moderna, per molti anni, collegata alla influenza che ebbe su di lui Henri Fabre – indipendentemente dal fatto che fu veramente suo nonno).
In quel caso, in “Fontana” – come l’opera di Duchamp che apre il Novecento e lo dissacra – Fabre in qualche modo cerca di chiudere con un gioco ironico che porti al corpo dell’artista e al corpo di tutti noi.
Il vero nucleo del rito al quale punta Fabre con Mount Olympus è appunto il sesso e i desideri. Il fuoco sacro del tragico è nei desideri e nei corpi.
“Guarda la tua immagine allo specchio che ti urla dietro, mentre un cane caca nel fiume lunare della tua logica infranta” dice Dioniso ad Apollo.
La volontà di vivere, produce bisogno e desideri, il principale è quello dell’ossessione del sesso. Il sesso va liberto dalla sua ossessione, dalla sua gabbia di rappresentazione, e va vissuto, esperito, senza seduzione: teatro e finzione.
La vera forza rivoluzionaria del sesso è questa, se lo si pratica liberamente, altrimenti diventa “ruolo” di generi, il maschile e il femminile, come nella moda o come nelle infinite discussioni sociali sulle relazioni di coppia.
Fabre in qualche modo, cerca per 24 ore di portarci alla cosa, lasciati fuori dal cerchio sacro tutti i vincoli. Liberandoci dalle false liberazioni. E’ l’energia dell’Eros (che poi si collega a potere e conoscenza, le altre questioni chiave di ogni condizione tragica) che da sempre fa superare i limiti, supera le regole, supera le convenzioni.
L’eros e l’oltreumano, sono per Fabre sempre legati alla bellezza. La scrittura di scena, i corpi, le armonie dei movimenti. La potenza non è solo la sua volontà, ma deve trovare anche la sua forma. Anche in questo caso, l’uso della bellezza e la citazione, nelle scene ginniche, del “body building” ossessione del nostro tempo – ma pure ossessione dell’epoca classica – rimandano ad una pratica che da sempre contraddistingue Fabre: l’uso del corpo nudo e del sesso esibito come codice artistico e antiartistico, al tempo stesso.
Non è un dejavu, se sul piano del corpo e dell’osceno del resto la battaglia continua a combattersi (censura, diritti civili, rapporti di forza uomo-donna, riconoscimento di gender ecc) . Fabre è un artista a suo modo civile e politico. L’oscenità tuttavia ci riporta anche ai codici delle tragedie classiche. Strumento per mostrare da un lato la caduta dall’altro ciò che può opporsi alla caduta.
Ecco allora anche in Mount Olympus compare citato il rito dello sparagmos, che apparteneva ai rituali ellenici Dionisiaci, con animali fatti a brandelli ( in realtà Fabre è già stato perseguitato dagli estremisti animalisti per altri suoi spettacoli, qui si è risparmiato c’è carne, tanta carne, fresca, macellata).
Carne, sangue. Violenza, catarsi, opposizione alla paura della violenza praticandola, essendo capaci, forza uguale e contraria.
Mount Olympus è l’omaggio al grande utero della civiltà, la tragedia greca che aveva la fortuna di poter gettare lo sguardo al tempo prima dei tabù.
La rielaborazione dai classici, riscritti e miscelati in un flusso unico, onirico, senza nomi dei personaggi usati tutto come simboli della natura umana e del sesso e sangue che fluiscono intorno a noi, ancora oggi: la pornografia del corpo commerciale, e il sangue degli sgozzati dell’Isis.
La materia primaria di sperma e sangue, sesso e violenza, sono sul palco perché sono intorno a noi. la carne vera così come l’oscenità della carne del corpo nudo, del sesso esibito ci interrogano sui nostri reali desideri e paure, ce li presenta davanti, ci richiama alla potenza necessaria per generare la vita.
Non è tanto, infatti, quel che si vede in scena – nudo piuttosto contenuto, a dire il vero e assolutamente nomale, e pezzi di carne quasi una citazione ormai dell’avanguardia – ma quanto, tuttavia, viene evocato dalla drammaturgia esasperata, dilatata, fisiologica di Mount Olympus, per la continua evocazione dentro le figure dei corpi, a superare i limiti.
Alla fine il sesso e il corpo sono ostentati quasi ad essere invito a superare la barriera settatore/spettacolo.
Il finale, per certi versi del tutto slegato di Mount Olympus, senza molto senso, a dire il vero, può rientrare come forma della ritualità contemporanea e anche come invito a far saltare i limiti – come stava per accadere a Berlino e in parte a Roma – con il pubblico portato all’eccitazione a all’entusiasmo, un finale fatto prima di cori nudi che si intrecciano in una lotta erotica, e poi la trance del rave finale, coloratissimo come la festa Holi induista, molto alla moda, quasi presupponevano una conclusione teorica che forse prima o poi Fabre potrebbe tentare come passo ulteriore) ovvero, che gli attori potessero scendere dal palco – o gli spettatori salire – per fondersi in un’orgia finale.
Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy A 24h performance di Jan Fabre. Inizio 17 ottobre h.19 – Fine 18 ottobre h19 | Teatro Argentina di Roma (Foto di Mario De Santis)