Giorgio Caproni, Il «Terzo libro» e altre cose

caproni_il terzo_libroANTICIPAZIONE

E’appena uscito con Einaudi Il “Terzo libro” e altre cose, di Giorgio Caproni, con la presentazione di Enrico Testa e un saggio di Luigi Surdich.

«Questa mia scelta di versi è quasi per intero tratta dal Terzo libro del Passaggio d’Enea. Vuol essere la ricostituzione d’un libro – il mio terzo libro, appunto – che già incorporato nel folto Passaggio d’Enea, mancò tuttavia d’uscire al netto nella sua propria e precisa fisionomia, e che isolato e riorganizzato nella sua intima struttura, e infine tutto in sé concluso, mi piace oggi riconsiderare, con sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione – credo rimasta determinante – della mia ricerca negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal 1944 al 1954».

Giorgio Caproni

Con questa spiegazione Caproni accompagnava l’edizione einaudiana del 1968.

Quell’edizione fu, in realtà, l’occasione per trasformare il suo «terzo libro» in una sorta di autoantologia inserendo nel volume poesie tratte dal Seme del piangere (1959) e dal recente, allora, Congedo di un viaggiatore cerimonioso (1965), nonché alcuni testi inediti. Dunque un’idea di recupero archeologico si era trasformata in una nuova raccolta organica che voleva rappresentare la continuità della poesia di Caproni nel tempo, nonostante modalità stilistiche diverse fossero giunte a maturazione (e altre, qui preannunciate, sarebbero arrivate piú avanti). L’edizione Einaudi 1968 era il punto sulla poesia di Caproni alla fine degli anni Sessanta fatto dall’autore medesimo, e la sua proiezione nel futuro. Questa nuova edizione è l’occasione per riconsiderare lo snodo fondamentale di quel libro nel percorso poetico di Caproni, autore che ormai molti critici ritengono vada considerato, insieme a Montale, il maggiore poeta italiano del Novecento.

Da: Il «Terzo libro» e altre cose, di Giorgio Caproni, Einaudi, 2016 (11,00 euro)

DUE SONETTI

ALBA

Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brividi attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte? … Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte!

1945

* * *

STRASCICO

Dov’hai lasciato le ariose collane,
e i brividi, ed il sangue? Nel lamento
vasto che un pianoforte da lontane
stanze nel novilunio gronda, io sento
la tua voce distrutta – odo le trame
in rovina, e l’amore morto. Il vento
preme profondo un portone – d’un cane
entro la notte, il gemitìo un accento
pone di gelo nel petto. E tu i fini
denti, perché non riaccendi, amore,
qui dove alzava di brace i suoi vini
sul selciato ogni giovane? Un madore
di brina, ora il giornale dove i primi
crimini urlano copre, e il tuo cuore.

1945

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