Paolo Valesio raccoglie in Il Servo Rosso/The Red Servant” Poesie scelte 1979-2002, a cura di Gabriella Sidoli , Prefazione di Piero Sanavìo (Format Punto a Capo, 2016) poesie scelte dalle opere principali della sua quarantennale attività poetica. Si tratta di un libro bilingue in cui le poesie originariamente scritte in italiano sono accompagnate dalle loro versioni in inglese.
Prefazione di Piero Sanavìo
In un’intelligente notazione di poco più di cinquant’anni or sono, Elémire Zolla indicava le difficoltà interpretative dei Vangeli prendendo spunto da una frase di Matteo (5,3) del cui testo greco, normalmente tradotto come «Beati i poveri di spirito», dava diverse, per quanto tutte formalmente legittime, letture. Interessante appariva la versione di Giovanni Crisostomo: «Beati coloro che sono umili non per forzata rassegnazione ma con spirito di elezione».
Ho l’impressione che da un analogo punto di vista si muova Paolo Valesio nel viaggio mistico di cui la presente silloge ci restituisce convincente geografia. Il cammino verso l’Inconoscibile comincerà nel solco delle esperienze di Teresa di Avila per raggiungere alla fine l’ombra di Meister Eckhart quando esortava i fedeli a pregare Dio di liberarli da dio, quest’ultimo inteso come frutto di una religiosità naturale e al quale l’uomo si rivolge per chiedere consolazione. Per il mistico renano l’Altro è Colui Che È, totale e indefinibile Se Stesso. Tracce del misticismo teresiano sono evidenti in Pregando a Manhattan che apre la raccolta. Nei versi che seguono Valesio traduce poeticamente l’incipit di un famoso sonetto di John Donne:
Tripersonato Iddio, sbreccia il mio cuore;
fino ad oggi hai tentato di emendarmi
ma ora abbattimi e piega, per alzarmi,
la forza tua a rinnovarmi in ardore.
Non mancano tracce di un altro mistico, il neoinglese Thomas Hooker, là dove, parlando della presenza di Dio accanto agli uomini nelle loro miserie (ma non nel peccato) ricordava che «Egli è nella prigione con Giuseppe, nella fornace con i tre giovani, con Lazzaro quando giace con i cani, […] ancor più con Giobbe sul mucchio di sterco». Sempre in Pregando a Manhattan Valesio, forse resuscitando anche memorie
paleoromane (quel “deus stercorarius” che fecondava i campi), ci assicura che la presenza dell’Ineffabile è percepibile dovunque sia l’uomo, né lui soltanto; perché è anche sulla sua fisica ignominia (io la leggo come autoimposta umiltà), che si può costruire il tempio all’Assoluto:
Quale luogo più adatto che una fogna per erigervi sopra la propria chiesa? Si potrebbe persino dire che le chiese sono fatte apposta per le fognature.
Ma solitamente questo risultato è raggiunto ponendo tutto l’accento sull’ecclesia e sulla sua bellezza.
[…]
La cloaca non è luogo né più vile né più alto di ogni altro.
Teologia dovere sociale di chi è irremeabilmente solitario.
Non sarà questo, naturalmente, il solo luogo dove innalzare la casa di Dio e in Dardo 31 più tradizionale apparirà il misticismo del poeta:
Bel torace di Cristo, fa’ da scudo
al tronco della croce bruto e nudo;
o bella architettura costolare,
erigi la tua minicattedrale.
Il controllo dello stato dell’anima, meglio, della presenza di Dio nel cuore di essa, è tema cruciale nelle predicazioni dei mistici e, analogamente, ne troviamo accenno in Il servo rosso, la composizione eponima della raccolta, che è insieme l’asse del libro e del progresso del poeta:
Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
(se non si desta nel vibrar del buio
perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?
Attorno a questo perno, nel quale l’agente si sdoppia in medico e paziente, confessore e penitente, giudice e imputato, Valesio articola i suoi dialoghi con l’Inconoscibile. Un rapporto doloroso per la nebbia che informa quella esperienza e che l’Evangelium Veritatis riconosceva come figlia del Terrore e l’Angoscia, nati questi ultimi a loro volta dall’irraggiungibilità dell’Essere. Oscurando la visione, precisa il testo antico, la nebbia fa sì che «nulla possa essere visto [con chiarezza]» sicché «si afferma l’errore». E questo, «elabora[ndo] la propria materia nel vuoto» rende impossibile «la conoscenza del Vero». Soltanto nell’autonomia del dolore, nell’autonegazione, si dissipa quella calìgo.
Valesio, facendo eco alle speculazioni di Eckhart, ribadirà che soltanto liberandosi da dio è possibile l’accesso a Dio:
è in quel momento
che io non sono più figlio-creatura,
non più animale debole che possa
venire in traccia d’un suo genitore
per rifugiarsi, per succhiare aiuto;
è solamente, dunque, in quel momento
quando io non sono più figlio
che io posso pensare a cominciare.
Dio, insomma, deve essere cercato (inventato) dentro di noi quando noi stessi ci siamo cancellati. Nella cecità di questa navigazione, mare aperto senza linee di costa, vana è la speranza di identificare punti cospicui: strumento e bussola sarà la lingua. L’esperienza è traslata da Valesio nella banalità/ volgarità del quotidiano – nell’accenno a una scena descritta nell’ambiguità di una camera da letto e dove il poeta, sdoppiatosi questa volta in soggetto e oggetto, due volte soffre l’avvenimento: attraverso la descrizione di esso e nell’invenzione dello strumento descrittivo con il quale egli ci traduce questo avvenimento:
Mattutino:
Nerio sta allo spiraglio della stanza da letto
Viso d’acqua… Ehi, viso di fumo…
O viso incorniciato dal guanciale
di nebbia,
tu ti lasci scoprire dall’alba;
che batte cauta ai vetri delle palpebre
con il suo anello
e passa. Ma si arresta alla serranda
fatta d’osso templare
che protegge l’assenza dell’anima
fino a quando la vagabonda torni
stanca di strade notturne
alonata di viola
per via del rosso per le labbra sparso
agli angoli della bocca
come una ferita
fredda e vecchia e richiusa e disseccata
che però ad un istante si riapre –
fulmine che strizza l’occhio –
quando quella svagata
scocca un sorriso di stanchezza pallida
un sogghigno smangiato
sghembo come il suo scialle sfrangiato
e il cuore le restituisce un ghigno
malato, ribattendo
a sue labbra ribalde, e le chiede:
« Dove sei stata? A fare la puttana?”
Ma nulla di questo traspare
per la bella facciata del suo volto
con riposata mente composto
e chiuso, in calma attesa
di vedere i propri occhi.
L’obiezione, che può insorgere anche nel critico per la sua proposta di lettura, è acquietata dalla voce del poeta in Versi scritti sulla pagina di guardia di un libro raro dove ci parla del «libro di poesie / d’un monaco innamorato / che però qui non parla / del suo amore per Dio». Subito l’affermazione è corretta: in «sì invece che ne parla», sosterrà adesso Valesio:
Ne scrive
dentro le fenditure che si aprono
tra le libere offerte della vita.
Dice: «una scintilla»
parla d’una scintilla
«perduta nel castello
di Eckhart».
Presto, la correzione sarà a sua volta corretta e il poeta, assunta la maschera del lettore delle poesie, cioè di un nuovo se stesso, negherà legittimità a quanto ha appena affermato:
ma questo lettore
che si aggiusta sull’osso
gli occhiali scivolanti,
che con la palma fabbrica un riparo
agli occhi stanchi,
della rocca di Eckhart
soltanto il vestibolo ha visto.
Soltanto apparenti, le contraddizioni; si tratta semmai di un dibattito in piena “ortodossia” eckhartiana, per la quale chi ha realizzato Dio «sente il gusto di tutte le cose non al di fuori di Dio ma in Dio».
Secondo il mistico tedesco non è l’amore per l’uomo che conduce all’amore per Dio, e Dio in noi non è ritrovabile attraverso una sua omologazione al contingente. L’operazione necessaria è opposta: essa implica la pratica dell’Abgeschiedenheit, il “distacco”, vale a dire la rimozione di ogni elemento che, pur se nobile e puro, si configuri all’interno delle convenzioni spazio-tempo e in quanto tale risulti inevitabilmente “finito”. Il “finito”, già Tommaso lo ribadiva nel suo compendio teologico, non può contenere l’Ineffabile in quanto, per definizione, questo è Infinito, Assoluto. L’analogia con speculazioni nate in Oriente non sfuggirà a Valesio sicché, in Preghiera al Buddha:
O Signore turchino,
aiutami a esser più che sobrio:
a perdere il senso del « mio»,
la sontuosa avarizia dell’ «io» .
O Signore azzurro,
aiutami a imparare l’arte ingrata
di offrire attenzione alla vita –
tutta, nei suoi mille e mille
occhi e angoli e pori e granelli
e poveri sorrisi.
Si tratta di un abbandono delle radici europee della “ricerca”, sulla
scia delle grandi migrazioni giovanili degli anni Sessanta-Settanta? Per
nulla, e infatti il poeta seguiterà:
O Signore celeste
aiutami a trascorrere di fianco
alla tua stessa dottrina:
restando nel mio solco,
senza riconvertirmi.
Non una emotiva negazione del Sé, quindi; bensì, ancora con Eckhart, un’uscita dalle convenzioni spazio-tempo nella certezza che l’approccio all’Inconoscibile avviene attraverso un intelletto che accetta l’umiltà di negare le proprie canoniche categorie. «L’anima che sta nella luce dell’intelletto» sosteneva il mistico, «non sa più nulla dei contrari». Già in Erto nel “despertar” Valesio aveva espresso qualcosa di analogo, dichiarando la propria distanza dal «gioco diabolistico dei contrari»; era un rifiuto della dialettica come gradus ad regem mundi; tutt’altre (l’abbiamo visto) le vie d’accesso a Dio. E tuttavia persiste la coscienza “storica” di certe analogie. Così, in una descrizione della crocifissione che sembra ispirata all’opera di Antonello conservata nel museo di Anversa, il Cristo, in Avventure dell’uomo e del figlio, apparirà dotato della «dignità melanconica / del principe Gautama». Altrove, quasi a chiarire il persistere di una interdipendenza formale tra Oriente e Occidente, ci verrà ricordato che «la nuda vita è
stretta al legno e all’osso». Echi di testi sanscriti, leggibili (anche) come prescrizioni comportamentali per sottrarre le pulsioni della carne alla coscienza della morte? Anticipazioni delle macerazioni dei romiti e le scelte dei santoni vaganti dell’estremo Est?
Di momenti mistici parlano anche i cento Dardi, o giaculatorie, ispirati anche a Juan de la Cruz. Per la loro icastica drammaticità, queste poesie ricordano al critico certi canti religiosi spagnoli improvvisati dai fedeli durante la Settimana Santa, le “saetas”, o quegli oscuri, tragici “palos flamencos” che sono le “seguiriyas”. Basterà il Dardo 97 come
esempio, dove la passione diventa presenza e insieme memoria:
La umiltà invisibile per esser percepita
è costretta a scoscendere un gradino
e adottare il passo claudicante
e i panni-stracci dell’umiliazione.
Chiunque poi l’abbracci
discende un’altra china:
è subito accusato di arroganza.
Chiudono il libro i sonetti di Ogni meriggio può arrestare il mondo (1987- 2000), sulla vita e gli amici, viventi o perduti, e su quell’amore inesausto che sono i libri come fonti di saggezza e inganno e memoria. Impareggiabili questi altri versi sul “dispregio” della vecchiaia dove è il tempo, come sempre, a vincere:
Irrimandabile
Il tempo invecchia, e io sono dispregiato;
questo è forse il modo a me lasciato
per riscaldarmi alle faville estreme
di quelle ch’eran mie giovani vene.
Perché il disprezzo è il marchio rosso in viso
al popolo del sottoparadiso:
che resta in infinita giovinezza,
dovuta alla sua vita di scarsezza.
Cammino ancora in fretta, ma la mia
ombra è curva e sghemba è la sua via
e fonda è la stanchezza del cammino
di cui disprezzo è il primo gradino.
Guardo la terra attento a non cadere
ma lei mi attrae: «Giù; giaci in mio potere».
Il libro, lo si è detto, è una silloge delimitata nel tempo – una scelta dell’opera poetica di Paolo Valesio dal 1979 al 2002. Ciò che subito colpisce è la coerenza della scrittura, pur nei diversi registri formali, e anche nella proposta di una cultura che, pure alquanto in disuso in questi anni, perlomeno da noi, ostinatamente egli riporta in vita. È probabile
che con questi versi Valesio stia aprendo un cammino – anticipando tendenze che, esauritosi l’impulso del positivismo e la scia dei molti “realismi”, potrebbero essere quelle del secolo da poco iniziato.
La poesia religiosa non annovera, in Italia, nell’epoca moderna, gli equivalenti di un Donne, un Herrick, giù fino a Dickinson, Hopkins, Eliot, lo stesso Dylan Thomas. Quasi che i temi della trascendenza non possedessero più alcuna legittimazione a essere trattati al di fuori dei Seminari e le Chiese, legati in quel caso a una specifica ortodossia.
La novità, nel caso di Valesio, è che, pure se il progresso non può sottrarsi alle diverse stazioni della ricerca, l’esperienza mistica non obbedisce a strutture ideologiche preordinate; essa è autonoma. Così nei Dardi 25 e 26, dove personalissima è la percezione dell’insinuarsi del dubbio sulla consistenza dell’esperienza mistica (25), quando il corpo, per l’urgenza del sangue, sembra sopraffare l’astrattezza del pensiero
(26):
In quei momenti quando
cavalco la preghiera,
quando diventa un ritmo naturale
e si egualizza a una pulsione lieve
di sangue dietro i timpani –
in quei momenti la preghiera
può perdere la sua anima e dissolversi
in meccanica brutalizzazione.
Scrivo sulla preghiera – e un timore ondeggia
sopra ogni strisciata di penna;
e se fosse una fina blasfemìa
o anche solo un’oziosa disfemìa?
Vale a dire che in Valesio, alla fine, è sempre il dato personale a imporsi, la “vittoria” condotta attraverso la “forma” che costituisce l’unica “ortodossia”, come deve essere: anche al rischio di rendere legittime molteplici, alternative, letture del testo. Si tratti dei Vangeli o di una pagina del XXI secolo, condizioni inevitabili, se l’approccio è
all’Assoluto, non possono essere che la sincerità e consistenza della “traduzione” dell’esperienza – qualunque siano questo Assoluto e questa esperienza.
Volontariamente costretto nella “camicia di forza” del sonetto, o lasciato all’apparente libertà del vers libre, il ritmo non possiede nessuna meccanicità, obbedendo semmai al “tempo” del respiro. È una delle esperienze di scrittura che, ormai circa un secolo fa, suggeriva ai poeti un ancora giovane Ezra Pound.
ESTRATTI
Da: Il Servo Rosso/The Red Servant” Poesie scelte 1979-2002, di Paolo Valesio, a cura di Gabriella Sidoli, Format Punto a Capo, 2016
Da AVVENTURE DELL’UOMO E DEL FIGLIO
Il Figlio dell’Uomo sull’albero
È seduto
sulla forcella di un albero
giusto prima dei rami che si irraggiano
con il capo appoggiato alla destra
e col gomito destro posato
di traverso sul braccio sinistro
e lo sguardo
(triste? pensoso?)
volto in basso
verso un campo di grano alla sinistra.
Questo Figlio dell’Uomo non è orante
(il suo sguardo non è rivolto al cielo)
questo Figlio dell’Uomo non è
contemplativo
(i suoi occhi non sono rivolti
a un punto indefinito all’orizzonte).
Questo Figlio del’Uomo è un pensatore
e la sua posa ha la snella
dignità melancolica
del principe Gautama.
Appese ai rami dell’albero
ristanno cose mute che gli narrano
una storia che è densa di minaccia
(come una tempesta
che si abbatterà a incanutire
il biondo di quel frumento).
Uno scudiscio irsuto di più nodi
*
From ADVENTURES OF THE SON AND THE MAN
The Son of Man on the Tree
He is seated
at the fork of a tree
where the branches spread out
his head resting on his right hand
and his right elbow leaning
sideways on his left arm
and his glance
(sad? or musing?)
looking down
towards a wheat field on his left.
This Son of Man is not prayerful
(his eyes do not gaze at the heavens)
this Son of Man is not
contemplative
(his sight is not set
on an undefined point on the horizon).
This Son of Man is a thinker
and his posture has the lean
melancholic nobility
of Prince Gautama.
Hanging on the branches of the trees
voiceless things repose and tell a story
crammed with peril
(like a storm
ready to erupt to whiten
the blondness of that field).
Hanging from a branch.
**
Dardo 97: Discesa
La umiltà invisibile per esser percepita
è costretta a scoscendere un gradino
e adottare il passo claudicante
e i panni-stracci dell’umiliazione.
Chiunque poi l’abbracci
discende un’altra china:
è subito accusato di arroganza.
*
Dardo 97: Descent
Humbleness invisible is forced
to descend a lower step to be perceived
and it must learn to limp
and wear the ragged cloth of humiliation.
Whoever then will embrace it
descends further down another slope,
and is suddenly accused of arrogance.
**
Dardo 100
Non vi avevo finora veduti,
né con gli occhi mortali
né con i polpastrelli
delle preghiere,
sorgere dai detriti
e dai rottami di voi stessi –
fino a questa mattina nella metro
sulla linea “Molino Dorino”.
Ero in piedi accanto alla porta
tenendomi alla barra laterale
e vi ho visti riflessi nel vetro
vi ho sentiti accanto ai gomiti:
composti e pazienti
ma anche opacizzati
dalla fatica attraversata
prima della fatica quotidiana.
“Comunità”…“Fratelli”…
Queste sono orribili parole
perché esse si impongono soltanto
dopo i massacri.
Vi chiedo perdono
di essere qui a dirle
mentre voi nel frattempo –
attraverso i vetri e lungo i muri
liquidi e neri della galleria –
vi risolvete.
Milano-Roma-Spoleto, 18-20 settembre 2001
*
Dardo 100
I had not seen you
either with mortal eyes
or with the fingertips
of prayers,
rising from the debris
and from your own rubble –
until this morning in the subway
on the “Molino Dorino” line.
I was standing by the door
holding on to the side bar,
and I saw your reflection on the glass
I felt you brush against my elbows:
composed and patient
yet also opaque
after the fatigue experienced
before your workday exhaustion.
“Community…” “Brothers…”
Ghastly words
for they become necessary
only after the massacres.
I beg you, forgive me
for being here and for saying them
as you – through the glass
and along the fluid
black walls of the gallery –
become resolved.
Milano-Roma-Spoleto, September 18-20, 2001
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Paolo Valesio, nato e formatosi a Bologna, è Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York – dove ha concluso la sua carriera accademica dopo gli insegnamenti a New York University e a Yale University – ed è (dal 2013) presidente del Centro Studi Sara Valesio a Bologna. A Yale, Valesio ha fondato e diretto il “Yale Poetry Group”, riunione bisettimanale di discussioni e letture poetiche (1993-2003). Ha inoltre fondato e diretto la rivista Yale Italian Poetry — YIP (1997-2005), che dal 2006 a Columbia è divenuta Italian Poetry Review — IPR e opera fra New York, Bologna e Firenze. Egli tiene un blog (www.paolovalesio.wordpress.com), collabora con un quotidiano online (www.ilsussidiario.net) ed è presidente della giuria del Premio Internazionale di Poesia Piero Alinari a Firenze.
Valesio ha pubblicato vari libri di critica letteraria, di critica narrativa e curatele (fra cui l’edizione critica, in collaborazione con Patrizio Ceccagnoli, di un romanzo inedito di F. T. Marinetti, Venezianella e Studentaccio – Oscar Mondadori 2013), numerosi saggi in riviste e volumi collettivi, e vari articoli in periodici; ha pubblicato inoltre due romanzi: L’ospedale di Manhattan (1978) e Il regno doloroso (1983); una raccolta di racconti, S’incontrano gli amanti (1993), e una novella, Tradimenti (1994); e ha scritto un poema drammatico in nove scene, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato (1993) e a Salerno (1997).
In particolare, Paolo Valesio ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Prose in poesia (1979), La rosa verde (1987), Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987), Le isole del lago (1990), La campagna dell’Ottantasette (1990), Analogia del mondo (1992, Premio di poesia “Città di San Vito al Tagliamento”), Nightchant (1995), Sonetos profanos y sacros (originale italiano e traduzione spagnola, 1996), Avventure dell’Uomo e del Figlio (1996), Anniversari (1999), Piazza delle preghiere massacrate (1999, Premio “DeltaPOesia” – rappresentato in versione teatrale a Roma e a New York), Dardi (2000), Every Afternoon Can Make the World Stand Still / Ogni meriggio può arrestare il mondo (originale italiano e traduzione inglese, 2002, seconda edizione 2005 – rappresentato in versione teatrale a Forlì e a Venezia), Volano in cento (originale italiano, traduzione spagnola e traduzione inglese, 2002), Il cuore del girasole (2006, Premio “Colli del Tronto”, 2007), Il volto quasi umano (2009), La mezzanotte di Spoleto (2013); e recentemente, la raccolta bilingue (originale italiano e traduzione inglese) a c. di Graziella Sidoli, di una scelta di varie poesie, e di due intere raccolte, dalla prima fase (i primi 11 libri) della sua produzione poetica: Il Servo rosso / The Red Servant (2016).
Da anni Paolo Valesio è impegnato nella scrittura di quattro romanzi diarii ovvero romanzi quotidiani, paralleli ma distinti, i quali costituiscono una quadrilogia narrativa che comprende finora circa venticinquemila fogli manoscritti, ed è ancora per la maggior parte inedita.