Somiglia più all’urlo di un animale (Italic, 2014) di Alessio Alessandrini è una poesia del dolore, del mondo che duole dentro di noi, pesante e bello e che non riusciamo più a sopportare. Leggere questa poesia è come camminare sui percorsi del proprio inconscio, rosso e buio, avvolto in un assordante silenzio. L’autore ci costringe a tornare nella terra che abbiamo abbandonato anni fa – la terra dove le cose coincidono con se stessi – quella terra che, purtroppo, abbiamo sostituito con delle mezze verità. E questo ritorno forzato verso quello che c’era e non c’è più, fa male, fa male leggerlo ma fa anche venire la voglia di ritrovare la propria terra perduta.
Alessandrini organizza il suo libro in diversi cicli, tre dei quali principali, sottodivisi in varie entità tematiche. Il primo ciclo, “Meteorologie”, oscilla tra la meteorologia esterna e quella emotiva, e in entrambi casi quello che prevale è l’inverno e la solitudine desolata della neve:
la neve è tornata a colmare
distanze nel bianco:
un lenzuolo sui tanti cadaveri neri
dello stanco continente cristiano. (“Meteorologia“)
La neve nella sua indifferenza ha il doppio valore, è colei che copre con calma l’aspetto crudo del mondo, lo copre con la leggerezza e la freddezza della negazione di ogni speranza. Le poesie di Alessandrini cercano di catturare la vita, quella che poteva essere, sotto il lenzuolo del tempo freddo e indifferente. Come nel “Deserto dei tartari”, così anche qui c’è la segreta speranza che qualcosa possa accadere, ma – lo sappiamo bene – non accadrà mai, e quindi è meglio non illudersi. La speranza sembra quasi una esagerazione kitch:
Da dove questo senso di colpa
che portiamo dentro nel confessare
ogni sottile felicità come barocca?
(“Colazione al caffè Soriano. Piccola poesia calvinista”).
Ma, nel descrivere un mondo vecchio e metafisico, Alessandrini allo stesso tempo costringe il suo lettore a coltivare un desiderio, o meglio, un’aspettativa, l’attesa dell’arrivo di qualcosa che possa rompere la struttura. Un ciclo intero viene intitolato “Bianco” ed è lì che, non a caso, troviamo la lirica che ha l’emblematico titolo di “Aspettando Van Gogh”. Alessandrini è in attesa della bellezza, dell’urlo dei colori sopra il bianco; il bianco della neve e delle parole che si polverizzano in lettere come in “Preghiera”, oppure, per dare un’altro esempio attuale, come nel “Love is just a four letter word”, come cantavano Dylan e Baez. L’amore non è che una parola che si decompone in singole lettere. Ma l’attesa che Alessio Alessandrini nutre è anche carica di paura, perché prevede già la rivincita del bianco onnipotente, il rischio dell’indistinto, della tabula rasa.
Alessandrini rinuncia alla bellezza, al timore e al tremore che la vita porta, ai colori e persino all’amore, ma rinuncia con tale risoluzione, con tale forza che esplode dall’interno delle parole. L’energia che sorge delle descrizioni sia della desolazione che degli istanti d’amore, prorompe, da dentro, per infrangere il ghiaccio invernale. Perché, chi, alla fine, può credere nella vittoria della bianca mancanza di senso, se poi le parole poetiche martellano, esuberano, cercano di uscire fuori dalla loro forma e dal loro contesto:
Anche le parole vengono
A sporcare questa identità bianca
Intrufolata tardivamente nella mente
Come il fango che viene dopo
la neve, che era così candida. (“Semplicità”)
E alla fine l’arroganza del fango, del sudore, della cellulite, tutti sintomi della bellezza negata che appaiono nelle sue poesie, dei baci, dei calzini sul termosifone e l’assurda panchina azzurra, non sembrano più qualcosa di inelegante o impoetico. Sono loro quello che ci salva. Sono loro quello che somiglia più a un urlo di un animale, selvatico, forte.
Un animale, alla fine, giusto, come nella poesia finale del ciclo poetico di Alessio Alessandrini. Un’animale, l’urlo nel quale risiede l’esplosione originaria di un nuovo mondo:
Da dove questa voce sottilissima, frontale.
Intessuta da un fondale marino o dall’altissimo cielo.
Emargina il nero intorno nel suo inarrivabile arrivo.
Giusto ora una galassia ha acceso il suo lume
Originale. Risale il suo passo da un milione di scale
e noi la accogliamo. (“L’animale giusto”)
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Evelina Miteva è nata nel 1981 a Vilnius, in Lituania, vive e lavora presso l’Università di Colonia (Germania). Ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia e storia della filosofia presso l’Università di Bari e di Colonia. Ha pubblicato traduzioni in bulgaro dal latino, inglese, tedesco e italiano. Ha quattro figli. Legge.