di Fabio Pusterla
Nervoso nella lingua e nello stile, nervoso nello sguardo che getta sulle cose, il Transito all’ombra di Gianluca D’Andrea procede lungo uno stretto crinale, uno spartiacque tra io e mondo, destino individuale e storia collettiva, estrema possibilità di rappresentare o narrare e verosimile impossibilità di trovare un senso, luce e buio, dovere di memoria e dimenticanza.
Il Transito è movimento, divenire, talvolta persino epico, o pura caparbia vita che insiste e non vuole finire; ma l’ombra in cui avviene è quella di un acquario in cui «Passano le figure, inseguono gli eventi» e «la giustizia si sposta nello stesso / luogo, si sgrana in tempi impercettibili». Lo spazio e il tempo della raccolta hanno nomi e confini: l’Italia, tra Messina e Treviglio, il secondo Novecento e le sue crudeltà sottaciute; e tuttavia queste coordinate sfumano a tratti in altri tempi e in altri spazi più immani, biologici e geologici, se «la terra è statica in milioni di anni senza noi, ci raggiunge e vomita». È in un simile contesto, tra disperazione e speranza, che la vicenda umana dantescamente «s’immilla».
ESTRATTI
La storia, i ricordi
VII.
Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo
il passaggio del millennio e il livello
si ridusse in esplosioni nere,
i grattacieli, gli uccelli, figure
disegnate come rondini nel cielo cupo,
fissi a un dislivello in cui le frontiere
e gli impatti ebbero il dissapore
del dubbio. Da allora niente,
una scomparsa, idee allusive:
mura tra virtù fibrose,
connesse all’impaccio di un’agricoltura di ritorno.
Il campo è coperto di residui,
la polvere aspetta l’acqua che la copre.
Poi, un po’ di sopravvivenza della luce
senza il coraggio della presa,
volte e architravi e solchi
e tranci di cielo rosa.
Parlavamo minimale o tronco,
in astratto, di traiettorie interstellari,
membrane, lacci e buchi,
quante soluzioni per le mani,
proteggemmo persino i liquami
che intanto scorrevano nei parchi,
nei campi.
Per anni osservammo le nuvole
accompagnando ai pronostici
le previsioni meteo e uscivamo
cercando di portare a casa la pappa;
un padre torna con un sacchetto,
nell’altra mano la figlia
stringe (o è stretta),
accanto un’auto calpesta le foglie.
Ci accampammo per alcuni giorni
tra le macerie, ai margini di altre dimensioni.
Aspettavo la storia di un quadro millenario
Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente;
per un istante le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, in un parco
bambini e famiglie, madri in maggioranza,
compiono le loro azioni.
In un pomeriggio di aprile –
dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo si ricordi
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi non ne sa parlare.
La resa
Sul viso queste linee perfette
che la luce bagna appena.
Linee dall’alto che sfaldano la luce
ricadendo sulla bambina che dorme,
sui lineamenti dritti, dolci, verticali;
il viso della bambina è diverso
cambia come il giorno
come ogni giorno cambia
per somigliare a se stessa, diversa,
al diverso che cederà nel nulla
che già l’accompagna, rendendo
possibile la sua presenza attuale,
eterna.
Sul viso quelle linee perfette
ogni giorno perfette nella loro incoerenza
col perfetto che è sempre visione.
La visione è qualcosa che si arrende;
ancora, ogni tanto, combatto
con la mia resa,
la lingua diventa l’eco di un campo,
una lancia sospesa nel lancio,
non cade, salta.
La resa non ha obiettivi,
non sa definirsi, si bagna appena
rendendo.
L’altra immagine
Dalle finestre della sala da pranzo fasci di
luce dorata si allungavano sul prato, fino
al roseto.
Friedrich Dürrenmatt
Mi ripeto la vita della luce
è la legge da noi non preparata,
un monito che si può accompagnare
ai gesti quotidiani. Da quest’homo
che emerge dalle vene di una soglia,
l’esistere nudo, la debolezza
di tutti i momenti, di alcuni luoghi
che nel ricordo,
quando il flusso di luce copre i volti,
imprimono ai lineamenti un ultimo colore,
l’appartenenza incalcolata, cancellabile
VII. Ritorno (?)
Ancora oggi? Per questo mi disoriento, ogni statistica giornaliera si azzera, grandine, muoiono i tempi nelle ore di transito e perdo ogni giorno.
Nessuna foto? un poeta che legge alla festa del libro, oh liberazione, mentre la nazione festeggia per festeggiare, a passeggio, sono lette cose per gioco, per nessuno.
Le statistiche incombono su idee illusorie di crescita e nuovo sviluppo, quantità da ridistribuire in reti, in collegamenti da spedire attraverso contenitori automatici, numerosi.
La virtù è un ritorno continuo, un rimando, una crepa, mentre salgo (nello spazio, fuori del tempo), ah, la Verna (sull’Adda)! Che sia la fine di ogni pellegrinaggio è escluso nonostante le cataratte deflagrino in mani che emergono dai mari – ma il racconto, qui, finge la sua apocalissi.
Eppure la terra è statica in milioni di anni senza noi, ci raggiunge e vomita.
Sibilo della fine e resistenza, un filo che passa e non cuce questi laghi, la Val d’Aosta, il cammino che si sposta un po’ più in alto dei suoi passi, non reggo l’impercettibile inaderenza alle origini che chiama e frulla i ricordi.
O ritorno, o Beatrice che spieghi le lune al pellegrino, la mia navicella percepisce, ma alla lontana, il piccolo fruscio – sarà un boato? – della cascata.
Salgo.
Notturni
V.
Sarà buio, ondate
fuori il capovolgimento, penso
ragazzi in balia, non posso ridire
le nubi accerchiano stretture.
Nel nero trasparente avverto,
non ci sarei,
la possibilità di dire il buio
non
la sua necessità.
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Gianluca D’Andrea, è nato a Messina nel 1976. Vive a Treviglio (Bergamo), e insegna nelle scuole medie. È tra i fondatori della rivista Carteggi Letterari (in rete da febbraio 2014) ed responsabile della collana di poesia della omonima casa editrice. Ha pubblicato: Il Laboratorio (Lietocolle, 2004); Distanze (2007); Chiusure (Manni, 2008); Canzoniere I (L’arcolaio, 2008); Evosistemi (Edizioni L’Arca Felice, 2010); [Ecosistemi] (L’arcolaio, 2013); Transito all’ombra (Marcos y Marcos, 2016).