Nota di Bianca Sorrentino
«Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere»: così recita l’aforisma di Ennio Flaiano cui si ispira il titolo del ciclo di incontri sulla poesia italiana del ’900 che si terrà a Bari, a partire da gennaio, presso la Libreria Zaum, piccolo scrigno di bellezza, terreno fecondo in cui germogliano iniziative originali e di spessore.
Gli eventi, curati da Bianca Sorrentino e fissati con cadenza mensile, saranno dedicati ciascuno ad un poeta, alla sua opera, alla sua visione del mondo: si comincerà il 18 gennaio alle 18.30 con la disperata vitalità di Pier Paolo Pasolini, per proseguire il 15 febbraio con Cristina Campo e le assenze feroci che paiono tigri; il 15 marzo l’appuntamento è con la fragilità di cristallo di Amelia Rosselli.
La scelta di questi autori – citatissimi, ma poco letti o, al contrario, addirittura sconosciuti a un pubblico di non specialisti – lascia intuire l’intento programmatico del progetto: porre al centro degli incontri i versi dei poeti, leggendo le loro pagine per riconoscersi, per prenderne le distanze, per misurare la propria idea di poesia. La scrittura risponde senz’altro a un’urgenza innegabile, ma rischia di risultare un inutile esercizio narcisistico se non tiene conto della lezione dei grandi, se respinge o rimanda l’opportunità dell’incontro coi testi. Senza alcuna pretesa di esaustività, verranno proposti degli attraversamenti tematici che siano in grado di seminare suggestioni nella mente di chi ascolta e di suscitare il desiderio, una volta tornati a casa, di scoprire quanto ancora resta inesplorato o riscoprire ciò che riposa dimenticato in qualche luogo della memoria.
‘Credo soltanto nelle parole’ è un modo per dire ad alta voce che, soprattutto quando l’uso le svilisce e l’abuso le mercifica, è tempo di restituire loro quell’aura di sacralità che i versi sanno conferire. È vero dunque che la poesia salva? E, se sì, da chi? Dagli altri o, piuttosto, da se stessi? Da Zaum abita la convinzione che non ci si debba prender troppo sul serio e che l’arte delle Muse non sia appannaggio di pochi eletti: per questo motivo si inizierà con un gioco. A chi vorrà partecipare verrà donata una parola; gli si chiederà di sentirla propria, di caricarla di un senso che ancora forse non ha, di provare rispetto per le parole degli altri – subendone magari il fascino e la seduzione, accettando però che siano altrui. Con l’ardore di chi ama e il pudore di chi sa di non poter possedere, sarà stimolante provare a ricomporre questo collage poetico, prestando attenzione ai significanti senza perdere di vista i significati: le relazioni che si instaureranno a questo punto tra le parole modificheranno il valore che inizialmente era stato attribuito loro? La vicinanza determina inevitabilmente un cambiamento, sia esso una ferita o uno sbocciare: se si sceglie di farsi parola, si dice di sì a questa strana metamorfosi. Il gioco potrà dirsi compiuto quando i contributi individuali saranno diventati condivisione profonda di un senso che riguarda tutti.
«Alle volte è dentro di noi qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia) / qualcosa di buio in cui si fa luminosa // la vita: un pianto interno, una nostalgia / gonfia di asciutte, pure lacrime»: Pasolini non è stato solo l’intellettuale corsaro, l’opinionista scomodo, il regista sprovvisto di tecnica cinematografica, il romanziere blasfemo; egli è stato soprattutto e in ogni cosa un poeta, per quanto le vicende biografiche e il carattere proteiforme e complesso della sua arte abbiano contribuito a metterne in luce gli scandali più che la dolente sensibilità. Quello a lui dedicato sarà un viaggio sulle tracce del suo «folle amore» per la vita, dalle Poesie a Casarsa (custodi di autenticità, sebbene composte in un dialetto costruito a tavolino), passando per i componimenti che celebrano Roma («Stupenda e misera / città che mi hai fatto fare / esperienza di quella vita / ignota»), in una corsa disperata e disperante verso sud, in questa sua ansia di meridione (come a ragione osserva Gabriella Sica in un saggio prezioso in cui accosta Pasolini a Caravaggio – cfr. G. S., L’artista e la croce, in Sia dato credito all’invisibile, Marsilio 2000); uno spazio particolare sarà poi riservato alla sua visione dei miti (non solo e non tanto quelli classici, ma soprattutto quelli a lui contemporanei, di cui coglie fragilità e decadente splendore) e al rapporto viscerale con la madre cui ci si avvicinerà in punta di piedi. «Solo detto questo, o urlato, la mia sorte / si potrà liberare: e cominciare / il mio discorso sopra la realtà»: il lascito di Pasolini è tutto in quest’urlo da altri soffocato, nella tensione mai ricomposta tra la consapevolezza del degrado e gli attimi stupiti di contemplazione della bellezza, nella presa di coscienza che il passato non va esibito come una medaglia perché non costituisce un merito, nell’insegnamento supremo che conta solo l’amare, solo il conoscere.