Il modo migliore per parlare oggi in forma narrativa non è raccontare le cosiddette «storie vere», né ambientarle qui ed ora. Il ‘trucco’ della veridicità letteraria non poggia sulla semplice raffigurazione della vita quotidiana che ci circonda, se non nella grande poesia, non certo nel romanzo e nel suo logoramento. I grandi romanzi poggiano invece su ciò che non invecchia, lasciando alla cronaca e alla diaristica il compito di assolvere al mero valore «documentale» e «testimoniale» (questi sono i termini della differenza in questione) di situazioni della propria epoca. Sono i romanzi storici, le storie alternative, i romanzi fantastici, speculativi e fantascientifici, le narrazioni proiettate più indietro e più avanti, che assumono un grande valore per chiunque sappia leggerli con profitto. Leggere con profitto significa far propria un’opera letteraria, avocare a sé il ruolo di critico e pensatore, senza fare banale ‘uso’ del racconto, ma offrire a sé prima, ed eventualmente agli altri poi, un’attenta interpretazione scevra da passioni personalistiche atte a mettere in bocca a un autore cose che egli non abbia mai enunciato nella raffigurazione del suo mito messo su carta o in scena.
I grandi romanzi sanno parlare del tempo in cui vive e opera il romanziere e dei tempi a venire, a prescindere dall’ambientazione contemporanea di un’opera letteraria. Perfino i capolavori classici della narrativa epica non sono ambientati se non per alcuni tratti nel tempo in cui visse l’autore: si pensi ai poemi omerici, alle Metamorfosi di Ovidio, alla Commedia dantesca. È così che le opere di Scott, Stendhal, Manzoni, Puškin, su su fino a Zamjatin, Platonov, Huxley e Orwell, fino a Heinlein e Philip K. Dick, Doris Lessing, Philip Roth, Atwood, Smiley, Murakami, Modiano e Houellebecq continuano a svolgere la loro funzione di rilettura della storia da altre angolazioni, facendo da specchio criticamente doppio del tempo in cui viviamo oggi e del tempo ulteriore: passato, futuro e ipotizzato. Questi tipi di romanzo, un po’ o dimolto ‘spostati cronologicamente’ dall’orizzonte della stesura autoriale, assolvono al potenziale che ha la letteratura di farsi strumento critico a 360°. La scelta di Giancarlo Micheli di ambientare il suo penultimo romanzo Il fine del mondo (Ladolfi, Novara 2016) alcuni decenni oltre i nostri giorni rientra nella necessità di tenere la narrazione nel suo alveo letterario maggiore: l’ambientazione gli offre uno strumento critico e speculativo, in cui appunto i lettori possano rispecchiarsi, oggi così come domani, con un distanziamento scevro dai troppi orpelli della stringente quotidianità di chi legga. Col suo autoreferenziale presidente americano Wu e l’altezzosa e sadica first lady Zenobia, con il suo impettito generale golpista Hyppolitus Words, la coppia idealista di antropologi Mark e Sophie, i novelli sposi Huang e Kuei Fei, gli infervorati esponenti politici di provincia cinesi, presi, quest’ultimi, a trascinar le masse tra plateali proclami pacchiani e autobiografismo nostalgico lungo gli altipiani di un ideologismo ormai vieto, e con tant’altra umanità su cui l’autore indugia meno, l’ironia nera di Micheli dà corpo al suo romanzo. Eccoli lì, ognuno a badare ai fatti propri, chiusi nelle bolle di sapone dei propri problemi ed incapaci di guardare oltre il proprio naso. Come il comico giornalista del New York Times Anthony Wittie e il suo assistente Winston Slender, vagole macchiette newyorkesi dei ben più consistenti Sherlock Holmes e John Watson.
Poiché non disponevano di alcun indizio sulla base del quale improntare l’indagine, nell’espressione accigliata di Mr Wittie un’indolente perplessità si fece presto palese e, laddove indugiava sull’eteroclito traffico di clienti e valletti d’albergo che intralciò le porte girevoli vomitandone fuori in quantità proporzionata a quanti ne ingeriva, egli parve trarre drastiche conclusioni: «Come era logico prevedere, mio buon Winston, si è trattato di un caso di pura e semplice mitomania. La crisi economica evoca nelle menti fragili i fantasmi più bizzarri e commiserandi, il disagio psichico dilaga a macchia d’olio, tantoché le industrie farmaceutiche sono tra le poche a poter presentare bilanci in attivo ai loro azionisti. Quel povero mentecatto sarà là, dietro una colonna o una pianta di gerani, a leccarsi i baffi godendo di chissà che inutile e patetica perversione.[»] (p. 75)
Le storie parallele confezionate in capitoli estensivi, talvolta brevi, talaltra fluviali, stan lì ad indicare lo scollamento di un senso comune, di una visione d’insieme del mondo. Si tratti di raffigurare eminenti o piccoli personaggi politici, professionisti della carta stampata e delle forze armate, intellettuali o mistici: essi appaiono parimenti svincolati dal ‘senso’ del mondo il cui orientamento è necessario nell’epoca della globalizzazione postindustriale. Vale a dire dal suo «fine» e dalla sua «fine», teleologicamente intesi:
Dall’interno degli organismi di donne e uomini, vecchi e bambini, il disfacimento accampava sui sensi il proprio dominio, compiva la rivalsa dell’inorganico sul vivente; nelle spaventose metastasi degli organi e degli apparati, la materia biologica si faceva beffe degli istinti quanto della ragione, con sardonico ingegno prefigurava parti e componenti di assurdi meccanismi fisiologici, dei quali il fine e il significato apparvero trascendere senza deroga le virtù umane della misericordia e della compassione. Ovunque, nessuno poté più offrirsi da specchio all’altro, tra ciascuno e tutti la repulsione affiorò alla superficie del visibile; dissidio ed orrore ebbero potere sull’umanità e sulla natura. (p. 97)
Micheli opera un’intensificazione di ciascun momento della vita dei protagonisti attraverso l’uso molto raffinato dell’ipotassi, con lunghe frasi fatte di coordinate e subordinate e una scelta lessicale variegata e ricercatissima. Questo ad esprimere l’idea che, se la consapevolezza delle vicende globali è carente, non altrettanto poco sentita è, sulla propria pelle, l’intensità dell’esistenza individuale e ambientale quale coscienza della singolarità soggettiva. Il guaio è che l’intensità della propria esistenza non basta a salvare quest’ultima se non si abbia contezza delle problematiche nella loro globalità per farvi fronte con adeguatezza. In questo senso del dentro e del fuori, del sottopelle e del mondo che circonda l’involucro umano, parlo di motile raffigurazione estensiva:
Mentre reggeva la cavezza degli yak o degli dzo sui cui dorsi erano caricate le poche suppellettili dei profughi, tra le quali la brocca modellata sul tornio di Xuelian giaceva come un oggetto dimenticato affinché meglio se ne conservassero le proprietà magiche, mentre gli animali obbedivano alle parche sollecitazioni della sua mano sulla correggia di cuoio, Kuei Fei sentiva aprirlesi sulla fronte un fiore i cui petali mutavano in ali di farfalla, plananti su circonferenze di arcobaleni dal culmine delle quali ricadevano in una pioggia iridata che suonava sopra le chiome di larici e querce la melodia del desiderio di lei. (p. 59)
La vicenda narrata da Micheli è presto detta. Il presidente americano Wu non è nelle condizioni di sottomettere al grado del proprio mandato popolare gli apparati finanziario e militare, e i vertici di quest’ultimo lo ingabbiano nella loro appiccicosa ragnatela di potere, inducendolo ad aggredire la Cina con un attacco nucleare, il quale, lungi dall’essere un’orribile, rapida e conclusiva azione, si traduce in un conflitto che si ritorce contro gli aggressori, con meno robusti ma bastevolmente efficaci (se così si può dire) bombardamenti atomici cinesi sul territorio americano e sulle sue zone di interesse: attacchi cinesi che i sistemi di difesa statunitensi hanno, con scarsa perizia e apocalittica tracotanza, sottovalutato.
Del resto, le guerre non le si possono fare a tavolino, come la storia e la cronaca ci insegnano: perché ciò avvenga ce lo ha spiegato magistralmente Tolstoj nel suo «Epilogo» di Guerra e pace e nelle copiose incarnazioni degli eventi che lo precedono, ossia che vi sono talmente tanti e tali minuti fattori in gioco per cui chi sia ai vertici del potere si limita a muoversi in spazi d’azione ristretti, trascurando i fattori umani più profondi. Proprio citatissime narrazioni distopiche come 1984 di George Orwell (1949) e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985), dopo aver narrato di un totalitarismo asfissiante che sorveglia capillarmente e punisce i propri cittadini con i metodi delle società disciplinari indicati da Michel Foucault, si concludono con la fine di tali regimi, con la loro implosione prodotta da illusorie ideologie che posson reggere storicamente attraverso una razionalizzazione solo temporanea del dominio. Fatto sta che, ne Il fine del mondo, l’azione militare autorizzata dal presidente Wu finisce in uno sfacelo generale per gran parte dell’umanità, coinvolgendo miserevolmente le vite, a lui ignote, di miliardi di esseri umani (oltre a quelli di altre specie), inclusi i protagonisti «paralleli» che si trovano in Cina e in Nigeria:
Deflagrò allora la guerra dei morti con i non nati ancora. (p. 83)
Ho notato che Micheli non ha incluso nella catastrofe nucleare il Vecchio Continente, come se l’Europa, Russia inclusa, ne sia in qualche modo risparmiata. Di fatto i luoghi su cui gli effetti atomici non tardano a farsi visibilmente apocalittici sono nel Nordamerica, nell’Estremo Oriente asiatico e nell’Africa subsahariania, non da noi. Forse che la ‘civiltà’ debba fare passi indietro, ripartendo dalla culla del Mediterraneo, dal suo magico humus celtico e dalla ‘barbarie’ germanica e slava? Non so: Micheli, se non erro, suggerisce solo in absentia che il Vecchio Continente resti intatto dalla subdola e rapida foga degli elementi i cui atomi impazziti sciolgono e fossilizzano tutto e tutti, tranne alcuni dei protagonisti e il presidente Wu. Oppure l’Europa deve essersi già disintegrata da sé. Questo nel romanzo non è detto. V’è molta teatralità ne Il fine del mondo. Veri e propri spaccati, con ambientazioni caratterizzanti e avvolgenti (vere e proprie scenografie abilmente descritte nel dettaglio), ed un uso di mimica e dialogo che crea contesti chiusi, a fronte dell’ossimoro ironico per cui essi sono anche permeabili dalla reazione a catena di incontenibile instabilità atomica. A parte la breve «Appendice» che fa da chiusa, la narrazione termina in effetti con un lungo «Epilogo» ambientato in una buia spelonca, all’interno di una montagna, dove alcuni dei sopravvissuti vengono condotti coattivamente al pari del sequestrato capo di stato americano:
I quattro, sottoposti all’atto di sequestro, vengono accompagnati dentro alle infrastrutture scavate nel sottosuolo attraverso corridoi e porte, finché un’ultima si apre e si richiude al loro passaggio. Così, infine, essi sono fatti sedere in cerchio e lasciati soli in una stanza priva di arredi e suppellettili, inondata da una luce uniforme, che spegne ogni traccia d’ombra e riflette all’infinito contro le levigate pannellature delle pareti e del soffitto. L’ultimo uomo in uniforme ha abbandonato la stanza da pochi secondi, quando il presidente Wu vi viene introdotto per le spicce: con i modi acconci a chi l’esperienza abbia assuefatto ad intendere ogni atto di linguaggio nella severa fattispecie del comando, cui conviene la risposta automatica e rassicurante di un’esecuzione, egli viene spintonato al di là del varco d’ingresso, cosicché le gambe di lui vacillano e stentano assai a conservarlo nella postura eretta, appropriata all’uomo padrone di se stesso non meno che al primo cittadino, colui che è designato a non essere mai preso come il primo che capita. La porta è stata richiusa alle spalle del presidente ed egli fa giusto in tempo a compiere un giro perlustrativo attorno alle quattro sedie, presso ciascuna delle quali quattro sguardi distinti hanno appena riconosciuto il sembiante reso universalmente familiare da innumerabili riproduzioni tecniche, ed ecco che tutte le lampade si smorzano d’un botto e la stanza ne riesce totalmente oscurata. Pertanto, mosso ad indulgenza dalla cornice ambientale che è stata tracciata a margine della sua libera interpretazione, il lettore vorrà accettare di buon grado che, da adesso in avanti, la conversazione tenutasi tra i cinque superstiti protagonisti venga riportata nei precisi termini in cui avvenne, senza omettere né aggiungere ad arbitrio frasi né singole parole, ma sprovvista di esplicite indicazioni delle identità di chi le enunci. (p. 99)
Micheli ci conduce in spazi differenziati, da quello del plateale discorso pubblico di Wu a quelli di amorevoli amplessi in riva al mare, in cui la natura avvolge e asseconda in armonia i vivi salubri corpi nel loro godimento mondano e spirituale. Il rapporto con la natura è essenziale nella filosofia di Micheli: la natura è il tutto, l’intero mutevole che è poco comprensibile alla limitatezza umana e alla sua coscienza, la quale si traduce piuttosto che no in coscienza ristretta o cattiva coscienza, come è evidenziato dalle elaborate giustificazioni che Wu, nel finale del romanzo, adduce ai suoi sconosciuti astanti, che altri non sono che i vari sopravvissuti protagonisti con cui viene a trovarsi in una stessa chiusa stanza.
Egli chiede loro di spiegargli il proprio sogno, un articolato incubo affioratogli nel suo isolamento di leader degli Stati Uniti imprigionato e sotto effetto farmacologico; ma, di fatto, accampa egli stesso, di fronte a spiegazioni che non gli garbano, filosofeggianti giustificazioni della propria condotta. Spazio teatrale buio, quello della camera oscura, come per il dramma di Maeterlinck I ciechi e i radiodrammi Sotto il bosco di latte di Thomas e Ceneri di Beckett. Spazio che diventa per Wu una sorta di hortus conclusus di un rispecchiamento negli abissi ancestrali del senso, quasi voglia egli sviluppare una fotografia apollinea di ciò che lo ha portato a produrre lo sfacelo totale dell’umanità, o di gran parte di essa. Del resto, il nome Wu, in cinese, significa «il nulla», l’«assenza», il «non esistente», la negazione. La sua risposta ai quattro sopravvissuti che gli raccontano il proprio sogno più volte nel lungo dialogo dell’«Epilogo» è caratterizzata dal diniego della veridicità delle versioni offertegli, da Wu che nega che tale o tal altro sia il suo sogno.
«Questo non è il mio sogno.»
«E come puoi dirlo se sei il solo ad averlo dimenticato?»
«Se fosse davvero il mio sogno, lo ricorderei nel momento in cui mi viene esposto.»
«Dunque, finché non lo ricordi non puoi affermare che esso non sia quello che ti è stato ora descritto, non più di quanto tu possa sostenere che non sia un altro qualsiasi che ti venisse raccontato in seguito.»
«Per questo vi ho radunati qua. Voglio che mi raccontiate altri sogni finché non avrò riconosciuto quale sia il mio.»
«Ecco qual è il tuo sogno: esso è il sogno degli altri. Poiché tu ignori quale sia, comandi a noi di sognarlo in tua vece. È questa volontà di fare proprio ciò che è altrui che ha reso il mondo un sepolcro. Tale discorso è concluso, le labbra che avrebbero potuto proseguirlo hanno già esalato l’ultimo respiro. Questo discorso pronunciato da cadaveri, in ossequio a ciò che di umano è morto nel tempo e doveva morire, esso ha avuto epilogo là fuori, nel mondo.»
«Questo sarà forse il vostro di sogno.»
«È il nostro solamente in quanto tu lo hai fatto tuo.»
«Basta! Riconosco di aver avuto torto a chiamarvi qua. Non desidero proseguire oltre questo colloquio.»
«Non è rimasto nessuno là fuori con cui se ne possa iniziare uno diverso.» (p. 103)
Negazione, Wu appunto, del guardare in faccia le proprie responsabilità, negandole continuamente. Al contempo, l’uso dell’antefatto raccontato posteriormente è un’altra caratteristica del dramma greco antico, così come di tante sue nobili derivazioni che giungono ai nostri giorni. Le giustificazioni che Wu adduce anzitutto a se stesso aprono scenari suadenti e fiabeschi riaffioranti dalla memoria della sua infanzia cinese, tra rocciosi anfratti, piante rigogliose, luci incantevoli e le gigantesche leggendarie cascate della paesaggistica storica cinese, come nella rievocazione della gita alle cascate di Huangguoshu coi genitori e la sorella:
[«]Nostro padre stentava a tenerle dietro; io e mia sorella, che trovavamo la situazione assai spassosa, seguivamo di conserva, ridendo allegramente. Allorché ci apparve, maestosa, la parete verticale delle spume ribollenti, sotto le fronde dei salici che costeggiavano le ripe l’oscurità era ancora totale; solo in alto, dove le acque del fiume spiccavano il loro bianco salto nell’abisso, solo lassù il cielo prendeva a tingersi d’indaco e zaffiro. Qualche minuto dopo stavamo tutti, immobili e a bocca spalancata, a contemplare l’arco perfetto dei colori dell’iride, splendente, al suo vertice, contro lo sfondo delle spume, mentre le estremità svanivano nel buio sulle due rive opposte. […] Desiderai una vita felice per me e per chi sarei stato capace di amare, desiderai che, quand’anche posto di fronte alle prove più ardue, i miei sentimenti crescessero saldi, come un albero robusto e rigoglioso, le cui chiome potessero abbracciare e dare riparo a tutto ciò che di bello e di buono mi sarebbe stato possibile contemplare e sognare. L’emozione che accompagnò nei miei sensi tali pensieri era di un’intensità mai prima conosciuta e, mentre i colori dell’iride vibravano davanti ai nostri occhi e trasparivano nell’aria ancora fosca come diafani messaggi che avessero atteso quel preciso momento per unire due realtà fino ad allora intangibili, affinché si rivelassero l’una nel senso dell’altra in quell’unica volta, durante quegli attimi, che mi parvero rifulgere al di là di ogni termine ed esito, fui felice quanto ad un uomo è dato di esserlo. Seppi che una parte della felicità che provavo, identica al tutto nella perfetta simmetria dello spirito infinito, veniva dall’amore che mi portavano coloro che avevo accanto, gli sguardi dei quali si univano al mio sull’impronta luminosa dell’arcobaleno mentre emergeva nitida dagli estremi vapori della notte. Poi, con pari meraviglia a quella con cui la visione ci aveva rapiti in estasi, i raggi del sole frusciarono nelle foglie, e fu giorno: l’intreccio dei salici e dei bambù, i volti dei genitori e della sorella, il flutto vorticante delle rapide, tutto fu avvolto di nuovo nella patina opaca della verosimiglianza. […] Gli idoli caddero dalla mia testa e si infransero ai miei piedi, rovinarono tra le pietre sul greto del fiume, dove si dispersero in frantumi, a ciascuno dei quali, nella mia cognizione, corrispondeva un aspetto o un attributo che, fino ad allora, era rimasto allo stato larvale, sospeso nell’amalgama di un ottuso sentimento di continuità e di appartenenza. Per la prima volta mi sentii un uomo indipendente e capace di libera scelta.[»] (p. 111)
Vale l’ironia di Micheli nell’aver raffigurato un presidente e una first lady americana cinesi, nati e cresciuti nell’apparato comunista del proprio paese d’origine: come a dire che lo «scontro di civiltà» non ha alcuna consistenza nei grandi conflitti mondiali, i quali sono guidati da «interessi» degli apparati di potere delle nazioni, al punto che persino il presidente americano non è, come si ripete da più parti da tempo, che un capo di stato e di governo fantoccio, tema che ha peraltro caratterizzato le primarie e presidenziali americane dell’ultimo anno. Certo, se quest’ultime non hanno esercitato alcuna influenza su Il fine del mondo, lo stesso non può dirsi degli ultimi quindici anni di espansione forsennata degli Stati Uniti in forma violentissima e della Cina in forma pervasiva sui mercati internazionali.
Dal punto di vista stilistico, Il fine del mondo fa uso di un’accurata e precisa scelta lessicale. Quando ho evidenziato una certa robusta teatralità di questo romanzo, ho inteso mettere in luce un aspetto che non riguarda la mimetica del dialogo in sé, ma le sue maschere, come se Micheli, pur nella forma diegetica del romanzo, intendesse mantenere un tono comune nella voce dei personaggi, soprattutto un tono classico da romanzo, dramma e film epico, così come lo intendevano soprattutto Döblin, Benjamin, Brecht, Godard e Deleuze, in antitesi a certo dialogismo bivoco su cui si sono incentrati gli studi di Bachtin. Ciò cui rifugge Micheli in questo romanzo è il romanzesco, al pari di come lo rifuggono altri grandi romanzieri militanti di oggi, quali, tra gli altri, gli splendidi Ōe e Handke.
Nel linguaggio di Micheli, quantomeno in questa opera, la parola è sempre greve, pesante come una massa che prenda colore e forma a contatto con gli elementi con cui interagisca. Il fine del mondo, coi suoi momenti elegiaci, comici, di una crudezza distaccata e viscerale, col suo lasciar che i personaggi dibattano, nelle loro cellule di miele in deriva nello spazio storico, sui drammi dei propri intrecci, offre uno spaccato attuale e condivisibile della società in cui viviamo, della vita reale di persone di ogni specie, di decisioni che cadono dall’alto in modo goffo e devastante: e dell’affabulazione falsificante e spiazzante dei media, di cui gli uomini tutti, me e voi compresi, siamo infine le vittime predestinate. Se non fosse che, nelle società di massa, chi ordisca progetti dall’alto cada sovente a piè pari nelle proprie trappole.