di Loretto Rafanelli
Lettura ardua, orfana di nomi, di indicazioni, di vie collaudate dalla storia e nella storia, poesia infine collocata nella ricerca di una identità impossibile. In A questa vertigine (Italic), Pietro Russo ci situa in una ‘palude’ esistenziale e storica, dove il lettore brancola tra un Io invadente e una ricerca di senso rispetto le cose del mondo. Ma non è questa la poesia acerba che deborda nel personale, nell’eccesso di una introspezione, perché comunque Russo ha occhi attenti per guardare il guardabile, ma soprattutto ha occhi attenti per tentare di guardare l’inguardabile. Da lì, da quella via intransitabile, nasce la poesia di Russo, che peraltro per quanto affascinato dalla tradizione è nel contempo nel pieno di un tentativo che porti oltre di essa, seppure non si possa parlare di cesura, come in effetti sarebbe difficile ipotizzare, in quanto il poeta siciliano è un attento studioso della letteratura contemporanea, da Sereni (di cui ha scritto nel 2013 il bel saggio La memoria e lo specchio. Parole del Petrarca nella poesia di Sereni) a Verga, richiamato in una poesia e nel ‘clima’ di una sezione, oltre che per un’intensa attività critica su riviste e blog. Certamente la voce esatta, il tono alto, valori riconoscibili nella poesia del poeta, discendono dalla ricca storia poetica nazionale, e appunto il linguaggio è pieno e compiuto, e si confronta con la sostanza di una vertigine, quell’apertura sul vuoto o sul definito, quell’attimo cioè, come richiama la nota in seconda di copertina, dove “lo spazio e il tempo percepiti collassano”, o, aggiungo, proprio in quell’istante in cui tutto si ridesta, si ripresenta nel suo infinito, pauroso o gioioso senso. Credo che Russo abbia scritto un libro significativo proprio perché sa entrare in questa vertigine (“Non si muore a questa vertigine. La meta/ per non sbagliare è stata strappata dagli occhi”), tentando di avvicinarsi alla complessità delle vicende della vita, alle verità e ai segreti e alla completezza del mondo. Interrogando se stesso e confrontandosi con i gorghi, gli anfratti, le storie e gli amori, o l’amore di una unica figura richiamata nella sua delicata e partecipe dolcezza (“… o cercare l’ordine di qualche ora tra i capelli/ ancora assonnata nello specchio/ prima del primo autobus/ Lo inventi/ un po‘ esorcismo un po‘
preghiera”). Investigare brancolando, forse pensando che solo la poesia dica la verità sul mondo, come succedeva a Campana nella sua disperata corsa verso (o contro) il senso delle cose, verso (o contro) il comune principio del vivere. E come Russo richiama in questi versi dedicati al poeta di Marradi: “E deve aprirsi il petto con le mani/ per mostrare il principio, quello delle stelle, il varco/ che va sfamato con cieli vuoti e sangue; è qui che vi precedo/ scrive/ con il mio passo tempestato”. E questa ci pare una dichiarazione di poetica, nel dire che la poesia deve precedere, anticipare, svelare, far conoscere, mostrare nel suo velarsi, cioè il compito della poesia è sempre quello di intravedere un lume, far intendere qualcosa della vita, e il poeta è chiamato a un lavoro sovrumano, con il suo alfabeto stentato, con il suo debole respiro, col suo tentativo di “darne una nuova immagine” come dice Adonis. Magari, come fa Russo, senza fare voli enormi. Neppure fuggendo dalla propria terra, come alcuni amici hanno fatto, e stare lì fermo con la lingua di sempre, magari il dialetto parlato in famiglia, mentre gli altri sono lontani ma fraternamente vicini, tanto che possono “… vedere anche noi da questa parte”, in quella comunità ideale che non può finire, quando “agitiamo una mano, attenti/ a non staccare i piedi da terra, non/ prendere il volo per nessuna ragione”. Perché il compito del poeta è anche quello di esprimere una fedeltà alla propria terra, per quanto difficile e traviata come Catania, quella fedeltà che diviene pelle e fa dire: “Con questa distanza, certo, è un’altra cosa/ che un’idea sommaria oppure un nome/ e neanche rotonde, balconi, apnee di cemento/ se dicono Catania il profilo laggiù/ a salire verso la montagna. Per fede// chiameremo questo madre e padre insieme/ o ventre. E quando scende più lenta/ la sera e non sono comignoli a fumare ma l’Etna/ da lontano la chiameremo casa/ comunque, per non dimenticare.”
La prima prova in poesia di Pietro Russo è un intarsio assai riuscito, pare una vita che interroga la vita, versi che denotano un pensiero, una matura apertura al dunque di un mondo che deve sempre essere interrogato, annusato con sospetto, guardato con la diffidenza dell’osservatore coinvolto in tanti sguardi, eppure tuffato nella complessità necessaria del vivere, nell’esigenza di saper dire le cose che è necessario dire, in una società complessa e difficile, ma sempre con la curiosità e lo slancio che fanno della parola un argine, una diga alla rovina. Comunque avvertendo, in un moto di apertura e di contenuta serenità, che “quando la sera/ sembra più lontana e invece in qualche modo,/ ogni volta ci sorprende”.
TRE ESTRATTI DAL LIBRO
LA LUNGA FUGA
E’ cambiata sotto gli occhi di cataratta
di chi ci vive dentro un’abitudine,
di istantanea in istantanea
come un neonato. Eppure
sono gli stessi balconi nel bianco e nero
di storie ascoltate tante volte, incorniciati
alle pareti di qualche bar e la stessa
è la lunga via di fuga barocca
dal Duomo alla montagna che è facile
immaginarsi turisti un sabato mattina di sole
a novembre, sessant’anni fa come ora.
CON QUESTA DISTANZA
Con questa distanza, certo, è un’altra cosa
che un’idea sommaria oppure un nome
e neanche rotonde, balconi, apnee di cemento
se dicono Catania il profilo laggiù
e salire verso la montagna. Per fede
chiameremo questo madre e padre insieme
o ventre. E quando scende più lenta
la sera e non sono comignoli a fumare ma l’Etna
da lontano la chiameremo casa
comunque, per non dimenticare.
SULLE CASE
Qui dove viene a incurvarsi un’estate – questa
mediterranea di nomi antichi, storie
a pelo sull’acqua da millenni
fino a vent’anni – il giorno amaranto
si dà uguale a ieri sulle case. Nessun rimpianto
o nostalgia. Bastava leggerlo nei cieli
con parole vecchie e devozione di auspici:
chi va in queste albe
è per aprire ai venti, contendere
uno scoglio, la sua parte di margine. E non si dica
giovane o vocazione naturale,
cuore randagio, occhio che più non vede
il mare tra la pula e il grano.