Un verso randagio vagabonda nella materia oscura della carta. Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato in balìa del destino. Orfano di parole.
A volte i versi sono come cani abbandonati che abbaiano alla poesia.
Vincitrice di numerosi premi letterari nazionali e internazionali, Ewa Lipska è considerata la più grande poetessa polacca vivente. Tradotta in oltre venti lingue, tra le quali inglese, francese, tedesco, russo, danese, ebraico e spagnolo, è autrice anche di testi in prosa, canzoni e opere teatrali. Questa raccolta affronta un tema molto caro alla poetessa, il paradosso degli esseri umani, condannati all’impossibilità di comprendere loro stessi e il mondo enigmatico in cui vivono. La solitudine dell’individuo diventa ancora più evidente nell’era di internet, nella quale una rete sembra unire «i nostri file virtuali di corpi», dove «ci baciamo con miliardi di bocche», mentre in realtà emerge drammaticamente l’impossibilità di un incontro tangibile e autentico. La realtà virtuale è una metafora eccellente della nostra condizione esistenziale, poiché simula una realtà effettiva che è dato conoscere solo in minima parte e nella quale l’unico modo per avere certezza di ciò che siamo è rappresentato dalle nostre impronte digitali. Anche l’amore, inteso come «luogo che non c’è, ma che sento», è un frammento sfuggente di una vita che sembra essere una «forte misura preventiva contro la morte», scorrendo lungo l’asse temporale del ricordo e della memoria.
La caducità e l’inafferrabilità della vita corrispondono all’impossibilità di rispondere alle domande pregnanti dell’esistenza, perché non sappiamo neanche «se è la storia che ha creato noi/ o se abbiamo creato noi la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui». Il paradosso e la metafora sono gli strumenti retorici con cui la Lipska costruisce il proprio corpo poetico, creando un universo complesso nel quale gli elementi scavalcano le usuali categorie di tempo e di modo e dove il tempo diventa dilatato e reversibile. I versi della poetessa «come cani che abbaiano alla poesia», in maniera straziante pongono il lettore, «orfano di parole», di fronte all’assurdità dell’esistenza umana e lo accompagnano in un viaggio di consapevolezza la cui meta finale è guardare se stessi, «dritti nell’abisso».
DUE ESTRATTI
da: Ewa Lipska, Il lettore di impronte digitali, A cura di Marina Ceccarini, Donzelli Poesia, 2017
REBUS
Forse era un sogno.
Il motore della sofferenza ululava
sempre alla stessa ora.
In mezzo al nostro amore.
Qualcuno usciva.
Qualcuno entrava.
Cene cifrate.
Segreti sotto il tavolo.
Il rompicapo non finiva
con la luna piena.
Ci stupivano
i puzzle delle città
e l’enigma del mare
che sputava una bottiglia
con un grido d’aiuto.
Sempre alla stessa ora
tornava la sciarada.
Con una ciarliera combinazione di lettere.
Ci interrompevamo a vicenda
parlando
degli stessi argomenti.
Il mondo
in cui vivevamo
si chiamava Rebus
e se ne infischiava delle nostre domande.
REBUS
Może to był sen.
Silnik cierpienia wył
zawsze o tej samej porze.
Między naszą miłością.
Ktoś wychodził.
Ktoś wchodził.
Zaszyfrowane kolacje.
Sekrety pod stołem.
Zagadka
nie kończyła się
na pełni Księżyca.
Zaskakiwały nas
łamigłówki miast
i enigma morza
wypluwająca butelkę
z wołaniem o pomoc.
Zawsze o tej samej porze
wracała szarada.
Z rozgadaną kombinacją liter.
Wpadaliśmy sobie
w zdania
na te same tematy.
Świat
w którym żyliśmy
nazywał się Rebus
i gwizdał na nasze pytania.
**
IL BANCHETTO
Dopo tutti questi anni ambiziosi
finalmente ci incontriamo
a un veglione di Capodanno.
Fuori dalla finestra
un panorama indispensabile:
una radura di felicità.
Con il bel tempo
una vista sulle cime dei monti.
Una panchina immortale
discreta come legno.
Nella clinica della folla
ci sentiamo più sicuri.
Innocenti inezie di ricordi.
Ostriche. Vino. Risate.
Per fortuna
c’è sempre un rumore.
Un chiasso pulsante di vita.
E quando inizia ad abbaiare
una catena insensata
all’istante
l’annienta la musica.
Rade al suolo
il guaito.
BANKIET
Po tylu ambitnych latach
spotykamy się wreszcie
na zabawie sylwestrowej.
Za oknem
niezbędny krajobraz:
polana szczęścia.
Przy dobrej pogodzie
widok na szczyty gór.
Nieśmiertelna ławeczka
dyskretna jak drewno.
W klinice tłumu
czujemy się bezpieczniej.
Niewinne błahostki wspomnień.
Ostrygi. Wino. Śmiech.
Na szczęście
jest coraz głośniej.
Tętniący życiem gwar.
A kiedy zaczyna szczekać
niepoczytalny łańcuch
natychmiast
miażdży go muzyka.
Zrównuje z ziemią
skowyt.
Ewa Lipska è nata nel 1945 a Cracovia, dove risiede. Le sue raccolte poetiche, molto note in patria e all’estero, sono tradotte in numerose lingue. Ha iniziato a pubblicare versi nel 1967 e da allora la sua attività non si è mai interrotta, neppure negli anni più difficili della storia polacca. È autrice di testi di canzoni famose, di un romanzo (Sefer), di feuilleton, di prose poetiche e poesie in prosa. Nel 2016 ha debuttato come sceneggiatrice e, nello stesso anno, Il lettore di impronte digitali è stato tra i finalisti del prestigioso premio letterario Nike.