Maria Borio, “L’altro limite” (con una poesia inedita)

Maria Borio, Credits ph. Dino Ignani

Alcune poesie da L’altro limite, collana Gialla pordeneonelegge-lietocolle, 2017. L’altro limite è il primo momento di un lavoro più ampio suddiviso in tre tempi: Il puro, L’impuro, Il trasparente. Il trasparente è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’uomo e la tecnologia senza ruoli, l’io e il tu senza ruoli, la velocità e la prospettiva senza ruoli. L’uno altro limite dell’altro. Il luogo di Isola è l’omonimo quartiere di Milano. Segue un inedito.

Settima scena

 

Stendevamo le mani contando

i bordi di pelle incrinati.

Questa è una scena visibile

dietro una parte di me che indietreggia,

si sorregge la luce insieme

la carta e il digitale, ti sorreggi

consegnato alla portafinestra

e mi apri uscendo sopra il gelo.

Questa è una seconda scena

che mi lascia creatura tra gli uomini,

tu uomo tra le creature che degradano –

il balcone, la condotta di rame, i grovigli delle nuvole,

una sagoma parlante.

Nella terza scena parliamo immobili

attraverso uno schermo nell’etere

particelle o nella sottospecie di materia,

gli atti che chiamano linguaggio

o il linguaggio vero, sinuoso, incosciente.

Posso dirti

il tempo reale, nel tempo reale puoi

dirmi, accecati dalla luce digitale,

la fortuna di saper aprire

una quarta scena

dove entrano i frammenti degli altri

e noi ricomponiamo barricandoci

a un orario e a una parola –

le notizie rosse e irreali

sono scese dietro l’orizzonte,

un attimo al mondo per diventare –

quando nella quinta, sesta, settima scena saranno

il postino o l’uomo del pub

o tuo padre persino e mia madre

sempre più in sé sprofondati.

Così alla quinta scena ero tornata nel segreto

e l’avevi cancellato per un mondo

che entrava nella stanza allontanandosi.

Poi alla sesta scena eravamo in una semplice fila

alla stazione, con gli occhi e una banconota

piegati tra la mano e il tavolo –

un affidarsi, un rispettare.

Alla settima scena torno e respiro

nell’irrealtà prodotta dello schermo dei colori

del viso e della voce,

lontani e accesi, collisioni, temperature, frenetici

mentre il puro pensiero di me

non è più me

ma lo conservi, e i famelici ostacoli

di una lotta per il nostro posto

sono accidenti,

tempeste.

Un suono di gola, primitivo:

la trasmissione del niente è all’altrui niente –

la settima scena di noi è il settimo giorno,

la vita che vogliono rubare

bianca è nuda.

 

*

 

Osservate, chiedete non alla forma

ma fuori a tutto il resto cosa sia,

questa scrittura o le unghie esili,

le biografie anonime o le parole anonime.

Mi dicono che può essere forma questo libro a schermo

dove vedi vite in frammento o luce stupita.

 

La forma è lo schermo come una casa azzurra,

statistica e figure, un ritmo che lega gli uomini

nella mia mente. La forma è, non è ciò che volete

io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.

 

L’altro limite, solo l’immagine, mi hai detto, ma lo cancello

e lo riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera

guardate una parola come un piede di bambino

appoggiato alla mano della madre, quella mano

alla pancia e la pancia a un pensiero.

 

A volte seguo questo percorso perché una scena accada

e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede

che non vedete, anche nelle immagini

disordinate nell’etere sempre vi seguo,

un aereo silenzioso che rientra nell’hangar

o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.

 

Mi hanno detto di nuovo di fermarmi sulla forma,

la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso.

Con i pensieri come unghie lego vite

disunite a schermo.

 

*

 

La linea dell’orizzonte sembrava il confine del mondo

fermato tra il tuo polo e il mare. Il mare si curva

 

perché la terra è un globo, le mani sospese tra naso e orizzonte

danno pugni, spingono contro l’orizzonte immagini di incoerenza.

 

Adesso in un viaggio di due ore taglio a metà il paese

passando a fil di lama la nebbia al nord e l’azzurro al centro

 

quattrocentesco come l’affresco di Piero della Francesca

che vorrei trasparente, sopra al mondo la sua prospettiva.

 

Ma oggi nel vulcano sgranate le persone rincorrono un punto

di fuga interiore, dalla cornea alla pupilla, e le scie rosse sottili

 

schizzano elettriche; ma un bisogno di verità deve pur correre

come la lama aguzza del Freccia Rossa ci toglie soli da noi stessi

 

(io, noi?) e mentre corre ti vedo in una casa vuota ancora

con i pugni paralleli spingendo immagini che fanno sciami

 

di insetti e polveri. Dietro il vetro della finestra l’alba ha tagliato

il cortile: le ombre dei vestiti asciutti corrono sui muri, i confini

 

invecchiando invertono la prospettiva l’uno nell’altro come i poli

antipodi e uniti del pianeta strappano l’orizzonte l’uno all’altro.

 

Nel vetro tagliente dell’alba la lama del treno è una prospettiva aerea.

Esseri fragili hanno occhi che si toccano.

 

*

 

E’ quasi pronto, sta per passare

la vita nell’aumento

della proprietà con un distacco, una ricompensa

fedele a sé, solo il giglio viola dal prato

non vale perché dura un giorno.

Potrebbero vederlo dalle finestre di notte,

se volesse potrebbe

consumarlo, riaffilarlo la gente

come la punta di una matita.

Questo essere soli è essere di tutti,

il corpo ha odore, la proprietà ha odore,

l’affezione per una donna

che non ha odore, non ha proprietà

rientra nel cliché.

Lo descrivono come si racconta

la vita degli altri o si immagina

inesistente.

La storia dei prodotti

così viva nel minuto

che milioni cercano

la stessa parola, non lo sanno, lo fanno,

lui è il blog, il vlog, il tube

della proprietà isolata di sesso

maschile su cui appoggerebbe la testa

una donna di sesso femminile.

La casa senza io gli altri l’accumulo

degli anni e solo

la felicità del processo, non del fine.

Potrebbe vederlo la gente

nella stanza a volte con il suo odore

e anche lei

che gli è madre vicino

abitualmente avendo speso insieme

una vita.

Si dorme in due.

Si stava immaginando nelle case

degli altri.

 

*

 

Stesa sul letto a volte vedi forme,

curve che entrano e spirali che evadono.

Organi trasparenti in alto si aprono

e diventano una linea morbida che insegue se stessa,

pulisce dai colori scuri – il colore del sangue

o quello denso della carne dove nascono le api.

 

Nulla si rigenera, ma è prolungato, infinito

nella linea che separa gli oggetti e fa cose

per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio,

si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade

gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta

tra i continenti.

 

Tra il cielo e l’acqua questo edificio

splende in una luce illimitata:

puoi aprirlo, aprirti

a una lingua di toni aspri,

tornare nel suono rotondo di un’altra

riprendendo quei toni come finestre sul mare

o il ponte sospeso per il parco

dove le persone stese sull’erba sono api

e il sole sembra impedire la morte

anche se tra anni, milioni, un giorno

esplodendo.

 

Segui poi altre linee, quelle della specie,

forse come sapere che nascere

non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo,

e dal letto lasci il sesso arrampicarsi

attorno ai contorni di questo edificio

nel suo bianco, la stella nell’attimo prima

di esplodere.

 

La vita è ovunque, in una linea curva

ognuno abita come pensare.

Le api ora lasciano la bocca perché le penso.

*

                                   Namenbuch, Normandia

 

Del male

 

incagliato e invisibile:

 

l’ombra, la macchia vicino al polso, la macchia nell’odore, il vestito come il corpo, lo spettro che sale sulla chiazza di benzina, sulla calce, sull’erba, sugli escrementi degli uccelli e nei voli la migrazione che dispone schieramenti e collidono come asteroidi.

 

Del male che invece

brucia per cecità:

 

l’uomo diviso per se stesso, come capire che qualsiasi numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero. Ma questo non è la fine del mondo, perché la vita è propria di divisioni infinite. Ma l’uomo ha iniziato a pensarsi eterno dividendo: ogni uomo come un centimetro di spazio. Lo spazio si satura a mosaico, verità individuali spingono le une contro le altre, asteroidi dentro ogni cellula.

 

Del male che guardandoci

facciamo bruciando:

 

l’incandescenza fonde i ricordi, fondono la vita avanti un passo.

 

Del male che la polvere

secca può coprire:

 

il cimitero con il nido delle rondini sopra la trave e il libro dei nomi, le date di nascita, le date di morte, l’ostinazione a dividere lo spazio in quadrati di nomi, ogni centimetro un centimetro, una voce probabilmente eterna vicino al mare che arriva di notte e divide tutto per zero, morti di guerra e vivi.

 

Del male che la rondine del nord

non riconosce:

 

il suo petto bianco brucia nell’angolo d’ombra, nel verso che assottiglia lo spazio dei nomi trasformandoli in sassi e pagliuzze, cose di materia dura, prove, nell’inerzia e nella lotta, prove nel becco vive.

 

Del male che dividi per zero

e mai zero diventa:

 

la volontà si prolunga – sul libro dei nomi in un cimitero di guerra; del male che raccontano e del male che esiste, del male che non si fa invisibile – in zero.

 

Piantato nel midollo di una donna che vuole essere uomo, di un uomo che vuole essere donna, di identità che sarà quando potremo dividere tutto per zero, zero per zero, le rondini nello zero quando dalla costa migrano

 

all’altro zero incorruttibile.

 

*

Isola

 

Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola

sembra una faglia sull’orizzonte,

il semicerchio della struttura che dice

il potere di rendere solida l’acqua

e liquefarsi al momento

che hai finito di circoscrivere.

 

Qui le ore distinguono

il silenzio netto, il rullio dei treni,

le gocce nell’aria, le fibre –

ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:

 

le curve del tempo vuoto

la fuga nel sottopassaggio

l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo decongelato

gli artefici di questa pulizia di vetro

o una prova molto umana per fermare un azzurro fragilissimo.

 

Seduti al limite della fontana

ecco il sorpasso: il freddo incorruttibile

si restringe e una folla normale

scala i tratti del volto. Al bar mi dici

che è metafora del mondo

oggi trattenendo il cibo nella bocca

il grande vetro di questi edifici

e il cibo profondo negli organi:

 

meccanica e carne invisibili

e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro

entrando uscendo dal grande vetro

come l’arte afona e oscura di Duchamp

taglia a sezioni.

 

Nel caso premi la mano, può frangersi

 

o resistere come l’etere resiste,

 

e lì coscienti o da noi separati

 

puro e impuro,

 

il grande schermo di Isola

 

o un continente.

 

 

 

 

 

(inedito)

 

Sapersi avvicinare.

Così vediamo l’enigma della distanza

dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato.

Inizio chiamando le isole d’erica e ghiaccio

l’alba atlantica

un aereo al decollo

versi crudi di gabbiani come sottili catene.

 

Chiedete nudità. Le scogliere si aprono

più a sud in un prato piatto

e gli animali sono immobili

come una sinfonia che si avvolge su se stessa:

pensavo alla loro bicromia

stordita di sidro trovando in qualche angolo

della lingua il barniolino

mele acide, bacche rosse

la pianura emiliana premuta dalla nebbia

che si incastra nei movimenti.

 

Affacciati, dall’alto sul mare,

ripeti la vertigine

nel basso della pianura

in contrappeso.

 

Mi sono affacciata ed era spazio più ampio

una meridiana arsa di capperi e lava

tesa a lande calcaree, dorsali.

Gli uomini sdraiati sul fondo dell’Europa

forse mi hanno guardato, e chiedo

sarete intrecciati nei posti che ho visto

in uno solo breve come poter dire

cosa sono i miei anni minuscoli

attraverso lo scontro di sud e nord.

 

Ogni luogo appartiene ad altri.

Li appoggio senza genealogia,

gli do odore, ricevo umido e arido.

Ci bagnano o uccidono.

 

Ero nel punto più alto della scogliera

nel vento del nord affilato, lunare.

 

Voi li abitate adesso. Avvicinatevi.

Mi affaccio, salto –

da roccia a roccia sopra un resto.

Maria Borio è nata a Perugia nel 1985. E’ dottore di ricerca in Letteratura italiana. Una silloge di sue poesie, Vite unite, è presente nel XII Quadreno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2015). Ha scritto i saggi “Satura”. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2017).

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *