Alcune poesie da L’altro limite, collana Gialla pordeneonelegge-lietocolle, 2017. L’altro limite è il primo momento di un lavoro più ampio suddiviso in tre tempi: Il puro, L’impuro, Il trasparente. Il trasparente è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’uomo e la tecnologia senza ruoli, l’io e il tu senza ruoli, la velocità e la prospettiva senza ruoli. L’uno altro limite dell’altro. Il luogo di Isola è l’omonimo quartiere di Milano. Segue un inedito.
Settima scena
Stendevamo le mani contando
i bordi di pelle incrinati.
Questa è una scena visibile
dietro una parte di me che indietreggia,
si sorregge la luce insieme
la carta e il digitale, ti sorreggi
consegnato alla portafinestra
e mi apri uscendo sopra il gelo.
Questa è una seconda scena
che mi lascia creatura tra gli uomini,
tu uomo tra le creature che degradano –
il balcone, la condotta di rame, i grovigli delle nuvole,
una sagoma parlante.
Nella terza scena parliamo immobili
attraverso uno schermo nell’etere
particelle o nella sottospecie di materia,
gli atti che chiamano linguaggio
o il linguaggio vero, sinuoso, incosciente.
Posso dirti
il tempo reale, nel tempo reale puoi
dirmi, accecati dalla luce digitale,
la fortuna di saper aprire
una quarta scena
dove entrano i frammenti degli altri
e noi ricomponiamo barricandoci
a un orario e a una parola –
le notizie rosse e irreali
sono scese dietro l’orizzonte,
un attimo al mondo per diventare –
quando nella quinta, sesta, settima scena saranno
il postino o l’uomo del pub
o tuo padre persino e mia madre
sempre più in sé sprofondati.
Così alla quinta scena ero tornata nel segreto
e l’avevi cancellato per un mondo
che entrava nella stanza allontanandosi.
Poi alla sesta scena eravamo in una semplice fila
alla stazione, con gli occhi e una banconota
piegati tra la mano e il tavolo –
un affidarsi, un rispettare.
Alla settima scena torno e respiro
nell’irrealtà prodotta dello schermo dei colori
del viso e della voce,
lontani e accesi, collisioni, temperature, frenetici
mentre il puro pensiero di me
non è più me
ma lo conservi, e i famelici ostacoli
di una lotta per il nostro posto
sono accidenti,
tempeste.
Un suono di gola, primitivo:
la trasmissione del niente è all’altrui niente –
la settima scena di noi è il settimo giorno,
la vita che vogliono rubare
bianca è nuda.
*
Osservate, chiedete non alla forma
ma fuori a tutto il resto cosa sia,
questa scrittura o le unghie esili,
le biografie anonime o le parole anonime.
Mi dicono che può essere forma questo libro a schermo
dove vedi vite in frammento o luce stupita.
La forma è lo schermo come una casa azzurra,
statistica e figure, un ritmo che lega gli uomini
nella mia mente. La forma è, non è ciò che volete
io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.
L’altro limite, solo l’immagine, mi hai detto, ma lo cancello
e lo riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera
guardate una parola come un piede di bambino
appoggiato alla mano della madre, quella mano
alla pancia e la pancia a un pensiero.
A volte seguo questo percorso perché una scena accada
e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede
che non vedete, anche nelle immagini
disordinate nell’etere sempre vi seguo,
un aereo silenzioso che rientra nell’hangar
o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.
Mi hanno detto di nuovo di fermarmi sulla forma,
la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso.
Con i pensieri come unghie lego vite
disunite a schermo.
*
La linea dell’orizzonte sembrava il confine del mondo
fermato tra il tuo polo e il mare. Il mare si curva
perché la terra è un globo, le mani sospese tra naso e orizzonte
danno pugni, spingono contro l’orizzonte immagini di incoerenza.
Adesso in un viaggio di due ore taglio a metà il paese
passando a fil di lama la nebbia al nord e l’azzurro al centro
quattrocentesco come l’affresco di Piero della Francesca
che vorrei trasparente, sopra al mondo la sua prospettiva.
Ma oggi nel vulcano sgranate le persone rincorrono un punto
di fuga interiore, dalla cornea alla pupilla, e le scie rosse sottili
schizzano elettriche; ma un bisogno di verità deve pur correre
come la lama aguzza del Freccia Rossa ci toglie soli da noi stessi
(io, noi?) e mentre corre ti vedo in una casa vuota ancora
con i pugni paralleli spingendo immagini che fanno sciami
di insetti e polveri. Dietro il vetro della finestra l’alba ha tagliato
il cortile: le ombre dei vestiti asciutti corrono sui muri, i confini
invecchiando invertono la prospettiva l’uno nell’altro come i poli
antipodi e uniti del pianeta strappano l’orizzonte l’uno all’altro.
Nel vetro tagliente dell’alba la lama del treno è una prospettiva aerea.
Esseri fragili hanno occhi che si toccano.
*
E’ quasi pronto, sta per passare
la vita nell’aumento
della proprietà con un distacco, una ricompensa
fedele a sé, solo il giglio viola dal prato
non vale perché dura un giorno.
Potrebbero vederlo dalle finestre di notte,
se volesse potrebbe
consumarlo, riaffilarlo la gente
come la punta di una matita.
Questo essere soli è essere di tutti,
il corpo ha odore, la proprietà ha odore,
l’affezione per una donna
che non ha odore, non ha proprietà
rientra nel cliché.
Lo descrivono come si racconta
la vita degli altri o si immagina
inesistente.
La storia dei prodotti
così viva nel minuto
che milioni cercano
la stessa parola, non lo sanno, lo fanno,
lui è il blog, il vlog, il tube
della proprietà isolata di sesso
maschile su cui appoggerebbe la testa
una donna di sesso femminile.
La casa senza io gli altri l’accumulo
degli anni e solo
la felicità del processo, non del fine.
Potrebbe vederlo la gente
nella stanza a volte con il suo odore
e anche lei
che gli è madre vicino
abitualmente avendo speso insieme
una vita.
Si dorme in due.
Si stava immaginando nelle case
degli altri.
*
Stesa sul letto a volte vedi forme,
curve che entrano e spirali che evadono.
Organi trasparenti in alto si aprono
e diventano una linea morbida che insegue se stessa,
pulisce dai colori scuri – il colore del sangue
o quello denso della carne dove nascono le api.
Nulla si rigenera, ma è prolungato, infinito
nella linea che separa gli oggetti e fa cose
per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio,
si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade
gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta
tra i continenti.
Tra il cielo e l’acqua questo edificio
splende in una luce illimitata:
puoi aprirlo, aprirti
a una lingua di toni aspri,
tornare nel suono rotondo di un’altra
riprendendo quei toni come finestre sul mare
o il ponte sospeso per il parco
dove le persone stese sull’erba sono api
e il sole sembra impedire la morte
anche se tra anni, milioni, un giorno
esplodendo.
Segui poi altre linee, quelle della specie,
forse come sapere che nascere
non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo,
e dal letto lasci il sesso arrampicarsi
attorno ai contorni di questo edificio
nel suo bianco, la stella nell’attimo prima
di esplodere.
La vita è ovunque, in una linea curva
ognuno abita come pensare.
Le api ora lasciano la bocca perché le penso.
*
Namenbuch, Normandia
Del male
incagliato e invisibile:
l’ombra, la macchia vicino al polso, la macchia nell’odore, il vestito come il corpo, lo spettro che sale sulla chiazza di benzina, sulla calce, sull’erba, sugli escrementi degli uccelli e nei voli la migrazione che dispone schieramenti e collidono come asteroidi.
Del male che invece
brucia per cecità:
l’uomo diviso per se stesso, come capire che qualsiasi numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero. Ma questo non è la fine del mondo, perché la vita è propria di divisioni infinite. Ma l’uomo ha iniziato a pensarsi eterno dividendo: ogni uomo come un centimetro di spazio. Lo spazio si satura a mosaico, verità individuali spingono le une contro le altre, asteroidi dentro ogni cellula.
Del male che guardandoci
facciamo bruciando:
l’incandescenza fonde i ricordi, fondono la vita avanti un passo.
Del male che la polvere
secca può coprire:
il cimitero con il nido delle rondini sopra la trave e il libro dei nomi, le date di nascita, le date di morte, l’ostinazione a dividere lo spazio in quadrati di nomi, ogni centimetro un centimetro, una voce probabilmente eterna vicino al mare che arriva di notte e divide tutto per zero, morti di guerra e vivi.
Del male che la rondine del nord
non riconosce:
il suo petto bianco brucia nell’angolo d’ombra, nel verso che assottiglia lo spazio dei nomi trasformandoli in sassi e pagliuzze, cose di materia dura, prove, nell’inerzia e nella lotta, prove nel becco vive.
Del male che dividi per zero
e mai zero diventa:
la volontà si prolunga – sul libro dei nomi in un cimitero di guerra; del male che raccontano e del male che esiste, del male che non si fa invisibile – in zero.
Piantato nel midollo di una donna che vuole essere uomo, di un uomo che vuole essere donna, di identità che sarà quando potremo dividere tutto per zero, zero per zero, le rondini nello zero quando dalla costa migrano
all’altro zero incorruttibile.
*
Isola
Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola
sembra una faglia sull’orizzonte,
il semicerchio della struttura che dice
il potere di rendere solida l’acqua
e liquefarsi al momento
che hai finito di circoscrivere.
Qui le ore distinguono
il silenzio netto, il rullio dei treni,
le gocce nell’aria, le fibre –
ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:
le curve del tempo vuoto
la fuga nel sottopassaggio
l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo decongelato
gli artefici di questa pulizia di vetro
o una prova molto umana per fermare un azzurro fragilissimo.
Seduti al limite della fontana
ecco il sorpasso: il freddo incorruttibile
si restringe e una folla normale
scala i tratti del volto. Al bar mi dici
che è metafora del mondo
oggi trattenendo il cibo nella bocca
il grande vetro di questi edifici
e il cibo profondo negli organi:
meccanica e carne invisibili
e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro
entrando uscendo dal grande vetro
come l’arte afona e oscura di Duchamp
taglia a sezioni.
Nel caso premi la mano, può frangersi
o resistere come l’etere resiste,
e lì coscienti o da noi separati
puro e impuro,
il grande schermo di Isola
o un continente.
(inedito)
Sapersi avvicinare.
Così vediamo l’enigma della distanza
dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato.
Inizio chiamando le isole d’erica e ghiaccio
l’alba atlantica
un aereo al decollo
versi crudi di gabbiani come sottili catene.
Chiedete nudità. Le scogliere si aprono
più a sud in un prato piatto
e gli animali sono immobili
come una sinfonia che si avvolge su se stessa:
pensavo alla loro bicromia
stordita di sidro trovando in qualche angolo
della lingua il barniolino
mele acide, bacche rosse
la pianura emiliana premuta dalla nebbia
che si incastra nei movimenti.
Affacciati, dall’alto sul mare,
ripeti la vertigine
nel basso della pianura
in contrappeso.
Mi sono affacciata ed era spazio più ampio
una meridiana arsa di capperi e lava
tesa a lande calcaree, dorsali.
Gli uomini sdraiati sul fondo dell’Europa
forse mi hanno guardato, e chiedo
sarete intrecciati nei posti che ho visto
in uno solo breve come poter dire
cosa sono i miei anni minuscoli
attraverso lo scontro di sud e nord.
Ogni luogo appartiene ad altri.
Li appoggio senza genealogia,
gli do odore, ricevo umido e arido.
Ci bagnano o uccidono.
Ero nel punto più alto della scogliera
nel vento del nord affilato, lunare.
Voi li abitate adesso. Avvicinatevi.
Mi affaccio, salto –
da roccia a roccia sopra un resto.
Maria Borio è nata a Perugia nel 1985. E’ dottore di ricerca in Letteratura italiana. Una silloge di sue poesie, Vite unite, è presente nel XII Quadreno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2015). Ha scritto i saggi “Satura”. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2017).