di Eledonora Rimolo
Piero Bigongiari (Navacchio, Pisa, 1914 – Firenze, 1997) fu esponente dell’ermetismo fiorentino che, sviluppatosi attorno alle riviste «Il Frontespizio», «Campo di Marte» e «Letteratura» tra la metà degli anni Trenta e gli anni Quaranta, rese alte prove poetiche anche con Mario Luzi e Alessandro Parronchi. Antimateria di Bigongiari è, in particolare, un’opera di notevole rigore, sia spirituale che stilistico: l’unione di suono e significato mira a scardinare una verità che in effetti non è data, mai. L’uomo e l’Oggetto si scrutano, dunque, si scoprono simili ma lontanissimi, e gridano l’uno l’assenza dell’altro: “Io non so quel che è stato”, afferma il poeta, afflitto da uno stato di profonda angoscia, da un sentimento del dramma privo di linguaggio (“Non oso, amore, non oso/chiamarti” – “Le antiparole del dramma”). La voce che all’uomo novecentesco gradualmente viene a mancare, soppressa dall’urlo della guerra, Bigongiari la ritrova attraverso un’astrazione concettuale che tutto concede alla forza evocativa delle parole, le quali però definiscono l’Oggetto solo in negativo: “attento a non scinderti in un significato che non può significare l’insignificabile” avverte,
conscio che la sua condizione di poeta gli impedisce di relazionarsi in alcun modo con la realtà; la poesia procede a tentoni per simboli, l’oscurità la ammanta, e la luce custodita all’interno del Soggetto non riesce ad illuminare altro che l’angusto spazio della propria tenebra interiore (“Ripassa il suono dove già il silenzio/attende il segno, un segno: occorre sia/cosciente che dà quanto non possiede”), creando un gioco perturbante di ombre e fantasmi, caratterizzato da una solitudine perversa (“separate le sostanze/non hanno volto”) che confonde e mistifica (“ma ora vedi la menzogna/è un po’ più vera”), dimostrando in tal modo che la sola certezza che abbiamo è il dover soffrire nella speranza di rompere, un giorno, questo vincolo di schiavitù chiamato vita (“solo questa povera/verità fa soffrire, non consola,/le sue parole battono sull’asse/schiodato, crocifiggono, liberano”).
Da Antimateria, Mondadori, Milano 1972.
Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.
Io non so quel che è stato
la terra si cretta, escono scorpioni
il ragno sale al centro della tela
il mare opina
che il sole esiste per tingersi di terra
sulle acque pensieroso.
Non oso, amore, non oso
chiamarti.
Appoggiata a una domanda non è una risposta
ma tutto l’amore del mondo
è una parola.
*
C’è poco spazio per l’amore, tra una
chiamata telefonica, un viaggio,
un grido, a malapena un esser qui
tra un sorriso, un morire del sorriso,
ma questo è amore, questo poco spazio
che viene meno: screzio del possibile,
strazio dell’impossibile che può.
Se è intatta la coppa, l’incrinata
coppa ma che non versa, è che l’amore
che l’incrina la tiene, che la sbriciola
la rifonde in un tutto. Nulla passa:
la ferita non versa, par guarita.
Ma non l’amore, esso non è guaribile.
Non guarisce l’amore, l’inguaribile
scende stilla a stilla dagli occhi, e uno dice: vedo;
stilla a stilla dal cuore, e uno dice: sento,
sento un vuoto, un dolore, sento venir meno
la notte o l’alba che dovrebbero seguirsi
a breve distanza, caute, tacendo.
È notte o l’alba, non so: il fiume qui è grosso
ma pur fine, fatto di stille di temporali miti.
Gridano di andarsene dal cuore le poche cose che lo posseggono
ma come una stiva che una tempesta mette a soqquadro,
quanto spazio là, quanto spazio tra le cose mercanteggiate, in quale pericolo
qualcuno grida lassù in alto con un urlo lacerante qualcosa.
Ha veduto, o non ha veduto, il pack aprirsi
a un’improvvisa primavera che ha percorso le acque fredde
in canali profondi; ha veduto, o non ha veduto,
anche il carico aprirsi, sbandare, ritrovare quel disordine
antico che all’improvviso provoca non udito,
ultrasuono infrasuono, non una voce per chi è sordo a ogni ordine estremo
o forse all’opposto di ogni ordine. Se tutto, dentro e fuori,
ugualmente e tutto insieme si apre, attento
attento a non cadere in questa grafia fine che l’amore crea tra le cose
come se volesse descriverle, lui l’indescrivibile,
attento a non scinderti in un significato che non può significare l’insignificabile
perché l’amore può stritolarti là in mezzo dove ti lascia dolcemente cadere
se tu non ne sei la tenaglia ma il mallo amaro.
*
Le antiparole del dramma
Separava – o univa – cielo e mare
il segno che tracciava la sua riga
attenta, anche compunta, non felice
né infelice: il sospetto d’una riva
tra i fulmini a un candore di vetrate
altosparente tra l’inchiostro e l’ostro
che rapido tingeva la deriva
degli occhi su una nuca, su una chioma.
Troppo netto quel segno che non può
separare o distinguere, non può
dal geometrico caos avere voce
marina, grido celeste, portare
salsedine, giorni, passi di naufraghi?
Ed è appena finita l’innocenza
d’una tolda ondeggiante che sorridi,
chioma, se la tua tenebra è ora un volto?
Ma è necessario trattenersi tra le
pieghe del rito, preparare la
risposta, amare chi non ti ha
amato e che avvampò nella fiammata,
è necessario sillabare
lentamente, scandire fino in fondo,
toccare increduli la piaga, è
necessario, se in essa fruga attento,
il dramma fino alla sua indifferenza
che ti ha portato a ogni differenza
sorridendo: là dove un segno indichi
– la freccia o la ferita non importa –
che lì soltanto diviso e indiviso
smisero d’essere divisi e indivisi.
Ripassa il suono dove già il silenzio
attende il segno, un segno: occorre sia
cosciente che dà quanto non possiede.
Tremula la linea che non distingue
qualcosa che finisce o vuol finire
sull’infinito tremulo del mare
o del tempo. Fanciullo, tu cresciuto
dove i vetri tinniscono a un eterno
stormire, separate le sostanze
non hanno volto, un’energia le muove
ad essere felici nel lamento
che separa e confonde: ascolta, seguilo.
Fu detto che la verità, essa sola,
era da perseguire, era la favola
del vero; ma ora vedi la menzogna
è un po’ più vera, solo questa povera
verità fa soffrire, non consola,
le sue parole battono sull’asse
schiodato, crocifiggono, liberano.