da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1989
S’io sapessi cantare
come il sole di giugno nel ventre della spiga,
l’obliquo invincibile sole;
s’io sapessi gridare
gridare gridare gridare come il mare
quando s’impenna nel ludibrio d’aquilone;
s’io sapessi, s’io potessi
usurpare il linguaggio della pioggia
che insegna all’erba crudeli dolcezze…
oh allora ogni mattino,
e non con questa roca voce d’uomo,
vorrei dirti che t’amo
e sui muri del mio cieco cammino
scrivere la letizia del tuo nome,
le tre sillabe sante e misteriose,
il mio sigillo di nuova speranza,
il mio pane, il mio vino,
il mio viatico buono.
da “L’amaro miele”, in “Gesualdo Bufalino, Opere 1981 – 1988”, Bompiani, 2006
La festa abbaglia ancora i tuoi balconi
e il mare, sale una rosa di luce
antica sul tuo viso, ogni bengala
nel giro negro e veloce degli occhi
ti si ripete, e la musica fiera
degli spari: chissà se tu ripensi
il tuo cuore d’altranno, e le parole
che ci gridammo d’amore, sospesi
sui colori violenti della folla,
chissà se tu rammenti la mia voce.
da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1982
Queste parole di un uomo dal cuore debole,
sorta di macchine o giochi per soffrire di meno,
ad altri uomini dal cuore debole:
coscritti balbuzienti, spretati dagli occhi miopi,
guitti fischiati, collegiali alla gogna,
re in esilio invecchiati a un tavolo di caffè,
che un giorno finalmente un sicario pietoso
aiuta dietro un muro, con un coltello…
Queste parole di un moribondo di provincia
a chiunque abbia scelto di somigliargli,
col viso contro i vetri, fisso a guardare nell’orto
un albero di ciliegio teatralmente morire…
Queste parole scritte senza crederci,
e tuttavia piangendo,
a un me stesso bambino che uccisi o che s’uccise,
ma che talora, una due volte l’anno,
non so come fiocamente rinasce
e torna a recitarsele da solo…
Per poco ancora, per qualche giorno ancora:
finché giunga l’inverno nel suo mantello d’ussaro
e il fuoco le consumi e le consegni alla notte.
Gesualdo Bufalino
Nato il 15 novembre 1920 a Comiso (Ragusa), Gesualdo Bufalino si è rivelato tardivamente al mondo letterario – grazie soprattutto al “lancio” fatto dall’amico Leonardo Sciascia – con il breve romanzo “Diceria dell’untore” (1981), in cui una degenza in sanatorio negli anni dell’immediato dopoguerra è evocata con un ricco impiego di mezzi stilistici, tale da toccare esiti tra barocchi ed espressionisti. Tra il 1946 e il 1948 grazie al coetaneo Romano pubblica un gruppo di liriche e prose su due periodici lombardi, “L’Uomo” e “Democrazia”; più tardi, nel 1956, collaborerà con alcune poesie a una rubrica del Terzo Programma della RAI. Intorno al 1950 comincia a lavorare a un romanzo, quello che sarà il vertiginoso “Diceria dell’untore” ma non va oltre l’abbozzo; lo riprende portandolo a termine nel 1971, sottoponendolo quindi a una decennale revisione. La pubblicazione di questo capolavoro, avvenuta come ricordato nel 1981 (Bufalino aveva ormai sessantuno anni), preceduta dalla splendida introduzione a un libro di vecchie fotografie (Comiso ieri, 1978) e da alcune pregevoli traduzioni dal francese, si trasforma immediatamente in un autentico caso letterario, culminato nel conferimento del premio del Campiello. Il decennio successivo è caratterizzato da una frenetica attività produttiva che spazia dalla poesia (“L’amaro miele”, 1982) alla prosa d’arte e di memoria (“Museo d’ombre”, 1982), dalla narrativa (“Argo il cieco”, 1984; “L’uomo invaso”, 1986; “Le menzogne della notte”, 1988, premio Strega) agli elzeviri e alla saggistica (“Cere perse”, 1985; “La luce e il lutto”, 1988; “Saldi d’autunno”, 1990), dagli aforismi (“Il malpensante”, 1987) alle antologie (“Dizionario dei personaggi di romanzo”, 1982; “Il matrimonio illustrato”, 1989, in collaborazione con la moglie). Gesualdo Bufalino muore il 14 giugno 1996, nella sua Comiso, a causa di un drammatico incidente stradale.
Conosco solo adesso le poesie di Bufalino e ne rimango folgorata.