Centofanti-Calvino, Una trascendenza mancata

 Italo Calvino, Una trascendenza mancata di Fabrizio Centofanti, Editrice Climanen, 2011

Dalla prefazione di Giuseppe Panella ATTRAVERSO CALVINO.
Riflessioni sul mistero della scrittura e della vita

«Da tutto ciò vien fuori un’idea drammatica della natura umana, come qualcosa di precario, d’insicuro: la forma e il destino dell’uomo sono appesi a un filo. Parecchie pagine sono dedicate all’imprevedibilità del parto, con i casi eccezionali e le difficoltà e i pericoli. Anche questa è una zona di frontiera: chiunque esiste potrebbe non esistere, o essere diverso, e tutto è là che viene deciso»
(Italo Calvino, “Il cielo, l’uomo, l’elefante: Plinio il Vecchio” in Perché leggere un classico)

 

 

1. Alla ricerca di una possibile trascendenza

All’inizio della sua ricerca di ormai diciotto anni fa, Centofanti è esplicito nel dichiarare i propri intenti e delineare le conclusioni cui forse gli piacerebbe arrivare (se ciò gli fosse permesso dall’oggetto della sua ricerca personale) :

«L’immagine di un Calvino freddo, tutto calcolo e ragione, non poteva convincere chi aveva letto e amato i suoi scritti più felici. Mi ero dunque proposto di avventurarmi alla scoperta di un Calvino profondo che veniva non di rado in luce e incrinava lo strato cristallino e apparentemente impenetrabile di tanta opera del Nostro. Un tentativo che avrebbe finito per coinvolgere realtà e valori – l’autenticità, l’ispirazione – che lo stesso Calvino metteva sistematicamente in discussione, per vederli poi continuamente riaffiorare, tuttavia, o come istanza o come problema. Tutto ciò implicava […] un rinnovamento nella considerazione di un Autore che tendeva di per sé a nascondersi nell’autoimposizione e nell’esercizio ascetico di regole attraverso le quali inalveare ed esprimere la sua interiorità, esponendosi ogni volta al rischio di perdere il contatto – o meglio, esponendo i suoi critici e lettori ogni volta al rischio di non vedere più il contatto – fra il prodotto finale e las sua gestazione e prima ancora il suo concepimento. In questo senso l’ultimo Calvino, con le sue puntuali descrizioni della superficie del mondo, non faceva altro che parlare di se stesso…» (p. 00)

Anche molto tempo prima della sua morte, Calvino è stato oggetto di una ricerca critica puntuale e spesso debordante (cui lo scrittore non si sottraeva, anzi talvolta partecipava con un certo gusto del paradosso o dello scherzo innocente). La bibliografia sulla sua opera è abbondante e spesso ripetitiva oscillando tra una rivendicazione ideologica della scrittura dell’autore e una volontà piuttosto precisa di andare oltre di essa valutandone soltanto la dimensione di ricerca stilistica e formale, privilegiandone la volontà ludico-combinatoria in ogni senso.
Centofanti si prova a conciliare queste due esigenze privilegiando il Calvino narratore ma non rifiutando neppure il confronto con le pagine più significative del saggista.

Per questo motivo, nel suo saggio vengono privilegiati alcuni testi che il critico ritiene più significativi (Il Castello dei destini incrociati  del 1973, ad esempio, di solito visto come esempio dell’estetismo più concitato ed esibito dello scrittore rispetto ad altri più solidamente impegnati nella contestazione del presente – come la precedente Giornata di uno scrutatore che è di dieci anni prima e viene considerato un po’ da tutti i suoi studiosi il “libro-cerniera” della sua produzione matura). Nell’esposizione fatta da Calvino dei Tarocchi del mazzo visconteo, infatti, Centofanti recupera in uno dei brani relativi alla figura del Matto trasformato nel paladino Orlando (già una volta furioso) che ritrova la propria verità e il proprio sguardo lucido sul mondo proprio quando viene messo a testa in giù (diventando così a sua volta l’ Impiccato in senso iniziatico), un elemento di capovolgimento della visione del reale che allude a orizzonti di conoscenza più vasti e più significativi. In questo “capovolgimento” che Centofanti (nella foto qui sotto) vorrebbe leggere come “conversione” invece, sarebbe potuta risiedere quella dimensione di trascendenza che, a differenza del suo critico, Calvino non ha mai raggiunto intieramente ma a cui sembra tendere proprio nei momenti in cui meno ce lo si aspetterebbe (come è il caso del Castello e dei suoi misteriosi tarocchi).

Nell’idea di un mondo rovesciato che contende il passo a quello della realtà e la cui visione permette di cogliere meglio le follie di quello messo apparentemente sui piedi risiederebbero, secondo il critico romano, molte delle migliori intuizioni dello scrittore analizzato.

Agilulfo, ad esempio, o meglio il “cavaliere inesistente” dell’omonimo romanzo breve del 1959, terzo episodio della Trilogia denominata dei Nostri antenati rappresenterebbe la mancanza d’amore che, invece, agita e rende vitale la passione che contraddistingue Rambaldo e lo porta alla conquista di Bradamante fino ad allora decisa ad accendere di sé l’inerte e impossibilato cavaliere costituito dalla sua sola corazza. In questa predominanza della passione che vince, alla lunga, il puro appello alla sola razionalità è, dunque, forte l’insistente pressione su qualcosa d’altro rispetto alla “costanza della ragione” che sembrerebbe, a sua volta, dominare e pervadere in maniera unilaterale i combinatori sforzi di assolutezza presenti nella dscrittura di Calvino.
Sempre in Il Castello dei destini incrociati, la figura di Sant’Agostino dipinto da Botticelli (il quadro è conservato agli Uffizi) appare agitata da una tensione conoscitiva che ne turba l’apparentemente necessaria armonia intellettuale: i libri si sfogliano da soli, la sfera – simbolo dell’armonia dei cieli – oscilla, la luce esterna si abbassa ed entra radente nello studio. Questa tensione che può essere precorrimento di una vena ossessiva si trovava già in Cosimo Piovasco barone di Rondò, il protagonista inquieto e saltellante di Il barone rampante (che è del 1957 secondo capitolo delle vicende “araldiche” narrate nella Trilogia).
Ma il sintomo di una mancanza assoluta che solo con l’innesto di qualcosa d’altro e di più totalizzante può riportare ad armonia e totalità non è forse anche nell’avventura terrena di Medardo di Terralba, il “visconte dimezzato” del romanzo omonimo del 1952 e primo componente della già citata Trilogia? Forse che sì, forse che no… Centofanti parla pur sempre di una “mancata” possibilità di trascendenza e ribadisce bene questo punto proprio alla fine del suo scritto:

«Calvino non consentiva a se stesso di fermarsi. Avrebbe preferito sprofondare piuttosto che indugiare con leziosità sui risultati già acquisiti. In questo è stato fedele alla figura di Cosimo Piovasco di Rondò: ha sempre vissuto su alberi che gli permettessero di guardare più lontano, oltre la cortina cieca del mondo contingente. Qualcosa tuttavia mancava. Credo che tutta la sua vita sia stata un segreto arrovellarsi intorno a questa assenza. Nel Sentiero dei nidi di ragno l’inniocenza è quasi senza macchia. Dalla Trilogia in poi lo struggimento comincia a farsi strada. Nel secondo Calvino dilaga ormai senza più freni e proprio per questo occorre mettere argini ad ogni piè sospinto, per evitare che da un momento all’altro tutto crolli senza alcun possibile rimedio. […] Per quanto ne sappiamo Calvino non credeva. Una trascendenza mancata dovrebbe essere l’esito logico della sua assenza di fede. Eppure egli sapeva che a volte nella logica si aprono insospettabili voragini, precipizi non sondabili. Allora sì, una trascendenza mancata, per quelli che raccolgono il dato e lo archiviano in un rassicurante deposito di soluzioni preconcette» (p. 00).

2. La forza della scrittura e la poesia implicita

Questa riflessione sul ruolo dell’oltre in uno scrittore solitamente legato al qui e ora e considerato come la quintessenza di una laicità illuministica e rigorosamente razionale, permette anche di ritornare sulle questioni più squisitamente e intrinsecamente letterarie relative alla sua produzione.
La presenza di un rovescio all’interno di un progetto letterario tutto inteso alla conoscenza della superficie non striata ma lucida e precisamente delineata del mondo come appare allo sguardo di un possibile osservatore neutro e oggettivo presume che il diritto non è più adeguato a quei parametri di riferimento. La presenza della poesia che tradizionalmente viene considerata latente o deliberatamente espunta dalla prosa calviniana è, invece, un elemento di differenza e, contemporaneamente, di continuità. Differenza in quanto separa con nettezza ciò che è legato alla soggettività di chi scrive dallo stile oggettivo di chi vorrebbe limitarsi a descrivere; continuità in quanto attraversa gran parte della scrittura di Calvino dai tempi del Sentiero dei nidi di ragno fino all’ultima prova di Palomar. Ma già in Marcovaldo ovvero le stagioni in città (che è del 1963 poi ripubblicata nel 1966) la poeticità dolente e malinconica del testo viene messa in risalto dallo stesso suo autore. Allo stesso modo, la volontà di coniugare “anima e esattezza” (per dirla con il Musil dell’ Uomo senza qualità) permette a Calvino di scrivere di scienza in maniera tale da evitare il groviglio di esibizioni tecniche o specialistiche dei divulgatori e di trasformarla in un momento di rivelazione fantastica profonda riguardo alla verità delle sensazioni vissute dagli uomini:
«Adesso avete capito: se io amo l’ordine, non è come per tanti altri il segno d’un carattere sottomesso a una disciplina interiore, a una repressione degli istinti. In me l’idea d’un mondo assolutamente regolare, simmetrico, metodico, s’associa a questo primo impeto e rigoglio della natura, alla tensione amorosa, a quello che voi dite l’eros, mentre tutte le altre vostre immagini, quelle che secondo voi associano la passione e il disordine, l’amore e il traboccare smodato – fiume fuoco vortice vulcano -, per me sono i ricordi del nulla e dell’inappetenza e della noia», ha scritto in una pagina significativa di Ti con zero del 1967 contenuta nel racconto I cristalli e riportata fedelmente da Centofanti.
La regolarità della “struttura del cristallo” (il titolo di un magnifico quanto silenzioso film di Krzysztof Zanussi del 1969) è anche il segno di un suo possibile rovesciamento interiore, di una intima contraddittorietà regolata da ciò che gli si contrappone così come la poesia appare implicita spesso all’interno dell’adamantinità della prosa letteraria.

Allo stesso modo, all’interno del realismo della sua scrittura sostenuta da segmenti brevi, chiari e distinti nella loro precisione tutta fatta di descrizioni non ambigue né reputabili per tali si insinua una serie di elementi fantastici di segno opposto che la smembra e la riconduce a una sorta di non redimibile impossibilità ad essere puro chiarore di verità. La verità che la pagina di Calvino contiene, infatti, è impura. Certo non è irrazionale (o irrazionalistica) ma è fatta di elementi che si insinuano in essa per scavarne il vuoto e rimetterla in discussione.

«Più si approfondisce la coscienza del groviglio – e della prigione che esso implica – più cresce in Calvino l’esigenza di un rigore geometrico e razionalistico, un’inquietudine perfezionistica che investe tanto le strutture mentali quanto la scrittura e il comportamento stesso dell’Autore: “Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio maggiore lo provo sentendo parlare me stesso” […] Calvino come Agilulfo ? Forse la tendenzarazionalistica dello scrittore s’intensifica a causa dello stesso impulso che spinge il cavaliere inesistente a costruire le sue figure geometriche, all’alba, “l’ora in cui meno si è sicuri dell’esistenza del mondo” . […] Si comprende, allora, la concentrazione nella misura breve, in cui esattezza e geometria non sono solo scelte stilistiche, ma una difesa contro una problematica e inquietante concezione della vita» (p. 00).

La natura del “cristallo” di cui è composta la fattura squisita della scrittura di Calvino è, dunque, limpida e torbida insieme: fatta di precisione ma anche di sommovimenti profondi innegabili. La soluzione stilistica “giusta” si colloca, allora, alla frontiera tra ciò che si può dire e “ciò di cui si deve tacere” (Wittgenstein). Raccontando le impossibilità della vita (il rampante, il dimezzato, l’inesistente), Calvino usa le parole capaci di mostrare ciò che non c’è e che non può essere se non a livello del fantastico ma, nello stesso tempo, riesce a modularlo in termini di realisticità linguistica tanto da ricondurre ciò che è concretamente designato nell’ambito della leggerezza come lezione di scrittura.

Ristampando dopo tanti anni un libro che non ha perso granché del suo smalto e del suo nitore critico, un saggio cioè che ha saputo resistere alla “critica rodente” della filologia, don Centofanti rivela con chiarezza ed esplicita consapevolezza che il discorso su un autore come Calvino non è stato affatto chiuso con la sua riduzione e ricongiugimento ai classici (per le scuole e per le accademie) ma può ancora produrre effetti di spiazzamento intellettuale e di illuminazione passionale niente affatto indifferenti.

Giuseppe Panella

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Fabrizio Centofanti (Napoli, 1958) si è laureato alla Sapienza di Roma, in Lettere Moderne, con Mario Pe-trucciani, con il quale ha collaborato a lungo presso la Cattedra di Storia della Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea. Ordinato sacerdote nel 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell’appro-fondimento della Sacra Scrittura. Attento studioso dei Vangeli tiene da molti anni una Lectio Divina settimanale. Autore di numerosi saggi e opere di narrativa, ha pubblicato, tra gli altri, i seguenti volumi: Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto. L’immagine interiore dagli appunti sul messale (IPL 1987); Le parole della felicità (Laurus Robuffo 2005); Guida pratica all’eternità (Effatà 2008); Pret(re) à portér (Effatà 2010).

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