L’ora dell’indugio e la parola del desiderio

Tiziano Broggiato

di Marco Marangoni

(Note in margine a Novilunio di Tiziano Broggiato, LietoColle, 2018, collana Pordenonelegge.it)

“E’ l’ora in cui la luce pomeridiana oscilla”; “E’ forse il
desiderio di iniziare/un’altra specie di tempo”

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Giunto al suo settimo libro di poesia, Novilunio, T. Broggiato conferma la sua cifra tematico-stilistica, portandola ad ulteriore definizione e conseguendo risultati nuovi, ma coerenti con i presupposti del suo processo creativo. I critici che via via hanno glossato le sue opere, hanno condiviso, in modi diversi, la lettura interpretativa di fondo: 1) la sua collocazione storico-linguistica, formatasi a ridosso di poeti come M. De Angelis, M. Cucchi, R. Mussapi – F. Bandini, introducendo il primo libro di questo poeta, Piani alti (Salvo imprevisti, Firenze, 1983) citava la “parola innamorata”; 2) il riconoscimento che l’incipit della sua poesia risieda in una caratteristica oscillazione-contrasto fino, proprio in Novilunio, alla condizione espressiva di “schizzo” (Cordelli). In effetti si assiste, nella continuità della poesia di Broggiato all’interruzione del piano quotidiano dell’esperienza e all’aprirsi di questa all’ospitalità e allo estraniamento che la “parola” consente: “Una luce ambrata che accoglie e strania” (Novilunio, op. cit., p.16). Altrove avevamo letto: “con la sola forza della poesia” (Anticipo della notte, Marietti, Genova, 2006, p.13). In Novilunio, al di sopra della parola poetica, si giunge a riconoscere la priorità della musica: “ogni voce/si è dileguata al cospetto della musica. /E’ lei, oltre la parola e ogni dubbio/a dividere le acque: l’espressione terrena più prossima/all’assoluto.” ( op. cit., p.84).

Il gesto creativo ha come presupposto il “quotidiano” come “terra desolata (quante immagini qui troviamo per questa condizione: la luce “rappresa”, la pioggia “sottile sul finestrino”, “latrare di cani”, “l’ombra notturna”, “scogli aguzzi/a pelo d’acqua”, “gli spigoli degli oggetti”, “enormi fari” in un bosco innevato, che “fanno pensare a un cociuto treno siberiano/che ha smarrito la rotta”, eccetera).

Ma subito dopo l’esperienza col “negativo”, assistiamo ad un urto etico, per cui Mussapi ha parlato di “poesia […] insieme ermetica e depistante” (nota critica a Città alla fine del mondo, il quinto libro di Broggiato, Jakabook, Milano,2013)”. Proprio infatti mentre il poeta racconta del “quotidiano” anche qui in Novilunio ci depista, per i suoi fuorimano, dove anziché incontrare il minimale, troviamo una “potenza tragica” e declinata in un “tempo aveniente” (Mussapi). Il verso si ritma secondo un ritorno, ma contemplando una vertigine, uno decentramento del tempo e del mondo che esclude una facile melodia ed un’eventuale enfasi. Molto appropriatamente Bandini aveva scritto a sua volta del Broggiato esordiente: “ansioso di evitare le cadenze e le scontate usure dell’elegia” (“Piani alti”, op.cit., p.9). Una qualità della scrittura che si apparenta, tanto più oggi, alla luce del percorso maturato fin qui, con la poesia del “dopo” e “dopo la lirica”, per una dimensione di canto improntata piuttosto ad un distacco-disincanto: “Mai amato la primavera […] Meglio le altre stagioni […] che non illudono” (Novilunio, op.cit., 67).

Ma per questo poeta, che da sempre “difende un’autonoma fisionomia” ( Francesco Napoli, La Parola come viaggio, in Preparazione alla pioggia, Italic, Ancona, 2015,p.100), il “quotidiano” subito diventa la zona fertile dello scarto tra realtà e sogno, realtà e visione, tra la città “alla fine del mondo” e la città “aveniente”, polo mai dato e motore di un “pensiero negativo” (Gregorio Scalise, Appunti per una situazione in Piani alti, op.cit., p. 15), che afferma il limite e contemporaneamente promuove una sperimentazione, “una nuova scommessa” (Scalise).

Ne viene allora che, al modo di Rilke (citato creativamente in Novilunio: “davvero noi viviamo/per dire addio”, op cit., p.29), la “fine del mondo” non è uno sbarramento, ma un confine di sconfinamento. Dunque all’incontro-scontro tra possibilità e impossibilità di procedere nei territori del “nessun-dove”, corrisponde uno stallo che se a volte sembra una staticità estenuante, più integralmente corrisponde ad un movimento speciale di andata e ritorno, di oscillazione: “Ma quel lume sottile, a metà cammino/ tra il procedere e il ritornare” (Novilunio, op. cit., p.41). Ecco il lume dove l’ombra non è solo assenza di luce; lume che fa tremare-vibrare la vita “nel desiderio”, che è anche desiderio di restare tale, cioè in una salvaguardia rispetto al dicibile: Nel desiderio/ di non doversi pronunciare “(Ibidem). C’è insomma, nel movimento descritto un destarsi dell’esserci rispetto ad una “chiamata in appello” (espressione di Scalise nel testo critico già citato). E’ a questo punto che il poeta, alla lampada umbratile della sua anima “con-sidera” e “de-sidera”, in un domandare che ha la forma di “chi deve capire” ( De Angelis, in Prefazione a Predizione dell’albero secco, Campanotto, Udine, 1991, p.8); o meglio deve saper attendere: “ Così, sospesi sull’incolmabile confine,/attendiamo uno squarcio nel vela templi”(Novilunio, op. cit., p. 41).In questo “complesso” di indugio e desiderio sta tutto un linguaggio-mondo, il suo traslare: fare di ogni cosa un traslato. Scriveva emblematicamente ancora Mussapi che ogni verso di Broggiato è una “immagine”. E l’immagine, il simbolo, articola un’identità divisa. L’aspetto “oggettuale”, che il mondo qui assume, indica non tanto una presa sulla realtà, quanto piuttosto un deficit di intimità, e proprio mentre la evoca. “Trionfa e soffre Broggiato in quella condizione di indicibilità sostanziale” – così aveva scritto Mario Luzi nella sua nota critica a Predizione dell’albero secco, op. cit., p.7-.

Ma è proprio questo processo che “manda”, aggiungeva Luzi, “versi, stigmi di energica bellezza”. Bellezza sì, ma attraversata da un dolore, quello per la “parola mancante”: “perseguita, la parola mancante, /irrita l’incapacità di circoscriverla” (Novilunio, op. cit., p.70).

Parte di questa bellezza è il conseguente destino nomadico della parola. Di qui la ripresa dell’archetipo del “viaggio” (cfr. F. Napoli, op. cit.). Il viaggio insistente per città e luoghi, poi diventa, nella “scrittura” dei toponomi, l’ “iper-denominazione” di una luogo irraggiungibile, una passione dell’impossibile. Viaggio ed erranza che avvolge di mito il mondo come nella bella apertura, in Novilunio, di Alba a Le Havre: “Viste dall’alto le fila simmetriche/ dei condomini appaiono come avvolte/ dalla foschia. /I cartografi antichi ne rileverebbero/l’instabile concentrazione di correnti (tempeste, allagamenti…)”, (op.cit., p.34.).

Ogni nome di città è il segno di un differimento e al tempo stesso di un desiderio. Di un inizio, di un Novilunio appunto. Per quanto la pagina, scrive il poeta, nella poesia che dà il titolo all’intera raccolta, sia “una sala d’aspetto periferica”, non è “una muta resa”. “E’ forse il desiderio di iniziare/ un’altra specie di tempo, / un novilunio che sappia rimuovere/una stagione, questa, vicina allo zero” (op.cit., p. 32). A quest’altra specie di tempo egli pensa e sempre ritorna, come nella più ferma delle consegne: “Vivida o contratta, persistente o misurata, / è sempre a lei che ritorno. Il simbolo della vita” (Novilunio, op. cit., p.37).

 

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