di Giancarlo Pontiggia
Anima «dedita al suo fine», giardiniere «in un giardino smisurato», fanciullo heideggerianamente «destinato-a-scrivere», l’io lirico che abita queste pagine sente l’arduo compito che gli è stato affidato: «triturare l’apparenza, / sfondare i limiti del senso», rammemorare al lettore l’unità profonda di spirito e vita, presenza e memoria. Ogni oggetto materiale, ai suoi occhi, si fa simbolo, ravviva «lontananze irriducibili», svela patti, alleanze, l’eden che fu prima della storia, e prima di ogni diaspora, «il quid che unisce rocce a scheletri».
Al pari di un monaco medievale – evocato nella poesia d’esordio – egli sa di non essere che uno strumento di potenze più alte: sul modello sublime dell’opera dantesca, si fa umile scriba, si limita a trascrivere ciò che gli viene dettato. Non gli sfugge la difficoltà del compito, l’irriducibilità della parola, la forza oscura e contraddittoria dei fatti: eppure non rinuncia alla sua caccia spirituale, a invocare i suoi nomi, i suoi luoghi fatali e privilegiati: «il mio giardino / e un bimbo, un arcipelago / in tempesta, e tutto intorno Genova, / scalena e verticale». Nel catino di un’infanzia ormai remota, nelle letture che lo emozionarono un giorno, era già la radice di ogni dopo: l’aurea isola di Stevenson conteneva ben altre mappe, ben altri tesori.
Come già le bellissime prose del Mondo senza Benjamin, L’opera in rosso parla di una vocazione poetica, e del senso profondo di ogni fare poetico. Qui i morti si congiungono ai vivi, la realtà si popola di sogni, si fa desiderio, dedizione di sé a una causa più alta, che riguarda tutti gli esseri viventi: poiché «abitare vuol dire stare qui», e «l’arte di scrivere / è l’arte di pensare anche per gli altri», di far sentire il peso del mondo, «la memoria / dell’origine, col suo / respiro cadenzato, che non smette».
Limpido e febbrile, visionario e sentenzioso, questo libro è dedicato a chi ostinatamente crede nella forza conoscitiva della parola, nel valore propositivo – attivo – della speranza: ogni suo verso, in fondo, è davvero una «sassata» tirata all’apparenza, «una forza di grazia» che spalanca, «fissa su un punto spirituale / radicato nel sangue, nella profondità della carne».
AL CIMITERO DI STAGLIENO
Il giorno si scuote. E il grigio-ardesia,
sopra il ponte, il grigio della cenere,
segna del proprio segno il lungofiume.
Ombre spettrali screziano le statue
che torcono gli spazi lungo i porticati.
Strane forme pietose
serrano in compagnia promiscua
patriarchi borghesi angeli concubine del morto.
(L’immagine del cuore
che si sdoppi:
spacchi le celle
e azzeri ogni distinguo,
l’estro animale
dell’occhio rasoterra,
inessenziale…)
Qui più che altrove si vorrebbe triturare l’apparenza,
sfondare i limiti del senso,
vedere oltre gli specchi del caleidoscopio
che accende in simmetrie
queste disperse dinastie di pietra
e il resto del paesaggio che raccoglie
foglia radice tronco frutto linfa
stretti ab aeterno in una legge condivisa.
È ciò che spera la mente che non cede.
***
Eppure so che mi guardate mentre vivo,
in attesa del mio inutile verbo,
delle sassate che tiro all’apparenza,
voi abitanti abitati,
voi trasformati in spettri, miei ipnotici lari.
Di voi, senza più corpo, non so nulla,
vi immagino remoti e spaventati
in qualche anfratto universale, abbarbicati
a una radice come gigli.
Che siate stati, questo è irrevocabile.
Com’è difficile
vestire la muta del figlio-palombaro
scendere al fondo della lontananza
per ritrovarla qui,
nel centro del mio cuore!
E com’è strano, sentirvi irraggiungibili e presenti…
Sono tristissime perfino le galassie
che si allontanano fra loro, accelerando.
Più spiritata, cosmica energia,
ma qui i gabbiani in un vento di bengala.
***
TOTENTANZ
L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla.
In certi c’è uno spettro
che l’imbottiglia come fosse una falena,
la rende sterile, la uccide.
In quello giusto c’è una forza
che la connette a tutto il resto, la storia e il suo rosario,
ruotandola verso l’origine perpetua.
È una forza di grazia
che non sa nulla di traccianti e puntatori: lei spalanca.
Nel suo riverbero ritorno a dire di mio padre,
le braccia di uno spettro che danzava
chissà in quale tensione disperata della mente
chiusa alla carne, rivolta all’invisibile.
Io supplicando
nell’ombra, stremato
a tutti i suoi tremori
e infine il gelo.
***
Senza mai vera pace,
torno anche stanotte ai miei fantasmi,
ne ascolto la voce ipnotica, rupestre,
che a poco a poco si fa una e penetra
le imposte, fuori tempo, inarrestabile.
È bastato che morissero i miei,
e i ricordi
sbattono le ali, uccelli neri
che mi osservano, più vigili di un faro,
da un cielo ulteriore, interiore.
All’improvviso
filtrata l’aria Kierkegaard mi appare,
spettro fluttuante fra lo specchio e il letto
che apre le porte dell’Incomprensibile.
Mi parla, scavato dall’angoscia,
e io rimango lì, sospeso a mezza via
in uno spazio ostile fra discorsi e rimorsi.
Poi la sua gobba si trasforma in una nuvola.
La nuvola,
in un punto di domanda.
Chiudo la luce.
E tutti
‒ mamma, papà gli uccelli Kierkegaard
la nuvola io stesso ‒
ci inabissiamo dentro a un’altra oscurità,
che non so dire.
***
Mi risvegliano. Non mi lasciano in pace,
continuano a raggiungermi
senza più canto o voce
dall’al di là della terra. I miei morti.
La schiera dei miei morti.
Non fluttuano nell’aria in alto sopra la città né altrove.
Sono la sostanza dei sogni. Spazzano
le strade del pensiero,
ripulendolo.
Incisi nel mio corpo
affondano. Qui, con me,
in me, io
dentro di loro.
***
Né il passato né il futuro
né il contemplare, amnesiaco ‒ dimenticare.
WILLIAM CARLOS WILLIAMS, Paterson, Libro III
Mi sfibra
la veemenza dei ricordi. Il loro imporsi
arnie di polvere lucente
all’attenzione,
la mia coazione a interpretarli,
resti di un fuoco che ha vissuto
in uno spazio interno,
più segreto.
Se li reprimo,
nell’orcio della mente
s’accendono i possibili,
le lontananze, in me
che ho sempre dato credito
al visibile, e ai suoi echi.
E l’anima che umilia
la voluttà dell’occhio e dell’orecchio
che a furia di passione
illimpidiscono…
È tempo, ormai, di ricomporre
ogni querela.
Di unire ciò che fu a quest’attimo
e renderli fraterni.
Com’è difficile scavare nel presente.
Qui
dov’è eternità ‒
ed è tutta d’un colpo.
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Massimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Germanista di formazione, è saggista, poeta, traduttore, critico letterario e d’arte. Nel 1998, ha curato la riedizione del “Supplemento Letterario del Mare”, il foglio italiano di Ezra Pound. Nel 2001 ha scritto la “Carta per la Terra e per l’Uomo”, un documento di etica ambientale declinato in tesi che è stato sottoscritto anche da 6 premi Nobel per la Letteratura. Ha collaborato a molte riviste, letterarie e non solo, e ne dirige una. Tradotto in più lingue, è presente nei cataloghi di editori quali Jaca Book, Marietti, Nutrimenti, Raffaelli, Moretti & Vitali, Passigli. Fra le altre cose, ha pubblicato il ciclo poetico de Il portavoce (1995-2006), due libri apocrifi nel segno unico dell’attrice Vivien Leigh e una monografia su Cristina Campo. I suoi ultimi libri editi sono Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014), L’opera in rosso (Passigli, 2016 – Premi Prata e Gozzano 2017), Fantasmata (Lamantica, 2017) e Rilke feat Michelangelo (CartaCanta, 2017 – Premio Catullo 2018).