Gio Ferri, (1936-2018) poeta e critico, è stato fondatore e condirettore con Giuliano Gramigna e Gilberto Finzi, per decenni, di Testuale, critica della poesia contemporanea.
Gio Ferri per Adam Vaccaro è stato uno dei principali interlocutori di ricerca teorica intorno alla poesia, “ma è stato prima di tutto – ha precisato Vaccaro – esempio di straordinaria generosità umana, un fraterno carissimo amico. Infine, non da ultimo, è stato uno dei cofondatori di Milanocosa, che mi ha costantemente sostenuto nella prosecuzione del suo attivo percorso culturale.”
Scheda di Gio Ferri
di Vincenzo Guarracino
Nato a Verona nel 1936, Gio Ferri è stato così giornalista, grafico, poeta, poeta visivo, critico d’arte e di letteratura. Uno sperimentatore, insomma, a tutto tondo, instancabile e indefesso.
Fondatore assieme a Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna nel 1983 della rivista “TESTUALE, critica della poesia contemporanea”, e poi fino al giorno della scomparsa, direttore della stessa, è stato autore di almeno 30 raccolte di poesia, tra cui “Le Palais de Tokio”, e il poema interminabile “L’Assassinio del poeta” (Anterem) soprattutto “Inventa lengua” (Marsilio ), una messinscena di sé a partire dalle formelle della basilica veronese di San Zeno in uno straordinario “ibrido linguistico”, nel volgare di Giacomino da Verona, come l’aveva definito Giancarlo Buzzi.
Assieme a queste, ci sono narrazioni e teatro: “Albi” (Anterem), “Macbeth, ricreazione”, “Il Dialogo dei Principi” per la musica di Franco Ballabeni. Nel campo della saggistica, innumerevoli saggi, presentazioni, prefazioni in particolare “La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze” (Mursia). “Forme barocche nella poesia contemporanea” (L’assedio della poesia).
Una “carriera”, si diceva così una volta, intensa e intelligente: multis luminibus ingenii. Oggi che ne piangiamo la scomparsa credo che si possa ricordarlo e avere un’idea del suo multiforme ingegno, anche soltanto attraverso due testi che qui brevemente presentiamo.
Vìtulo, è apparso agli altipiani erti:
distende l’ansa a quelle gioie mìtili;
docile giogo, dolce solve i reperti,
accoglie e stempera i sacri mostri, vìtili
alle pacate forme, rimira aperti
salvi, sospiri; leva e rinfranca i seni,
e senza affanni aspira ad altri merti.
da Nozze pagane (1988)
Da un discutibile pittore in crisi tre ottave per una brava attempata ragazza
Eccola Chiara, vien di rado, di tanto in tanto
offre callida carezza con qualche tristezza,
di quando in quando. “Rivestiti“ le dico non son
più arrapanti il collo, il petto, i fianchi formosi, i piedi.
Povera Chiara, una gran tenerezza vederti passare lenta
puntuale e sonnolenta, lo squarcio materasso,
mal sganciato reggipetto. Vieni con tristo affetto
per me per tutti per nessuno
I seni ancor formosi scontornano il vallo del petto
per lasciare spazio eppur teso al glande ancor voglioso
che scende a cercar quella pur viva ferita rosa oltre l’oltre.
Eppure questo corpacciolo ti ha fatto pur mangiucchiare,
panza morbidosa e tette pomone facevano espressione.
De Kooning o Guttuso, persino Freud e Bacon. Fatta
disfatta affogata. Sfinita. E ora? Finito.
Vai sballonzolando i glutei disformati.
Giunonica giovenca. “Ero pur di rosa, carne golosa. Pur qualcosa.
Astiosa? Le donne non le dipingi più e t’ingegni
impossibili marchingegni ferrosi erosi porosi.
Donne le chiami ancora! O chiappe! Eppur tette! O Chiare!
Su dite, anche, ho costruito la mia abitudine a una vita
pervicacemente amara…”. Ma ormai non è più quel simbolo
carnicino questo sdeflorato fiore… solo un’ansiosa stanchezza
per sere disfose come questa.
Rilettura e radicale rifacimento dal Canto XI del ‘poema interminabile’
“L’Assassinio del poeta”).
Sono due testi della produzione poetica di Gio Ferri: uno, “L’appagamento della sposa”, riferibile a “Nozze pagane” del 1988; l’altro, “Da un discutibile pittore in crisi”, più recente e sostanzialmente inedito, anche se nato da una costola del poema “L’Assassinio del poeta”, una sorta di poema interminabile che costituisce una sorta di enciclopedia della sua ricerca poetica; entrambi con in comune una visione della vita protesa alla rappresentazione della vita come messa in gioco ed esperienza di una voglia senza censure e misteri, non senza una traccia di premonizioni e presagi della fine.
Nel primo, nella leggerezza allusiva e madrigalesca del testo, ci sono sulla scena, baldanzosi e orgogliosi della loro giovinezza e disponibilità, i due protagonisti di una storia, naturale e “pagana” quanto basta, protesa all’incontro amoroso e al conseguimento di un “appagamento” inscritto tutto senza censure e misteri nella sacralità dei sensi.
Nel secondo, una bellezza sfiorita, un corpo senza grazia in disfacimento con appena qualche traccia e ricordo dell’antica formositas ma senza più alcuna venustas: è questo che rappresenta Gio Ferri, in un testo intriso di cultura e rimandi letterari e in un linguaggio manieristicamente ricco ed elaborato, chiamando in campo lo “sdeflorato fiore” dell’antica fiamma di un “discutibile pittore in crisi”, indulgendo a metterne in evidenza i tratti deformati di una bellezza ormai appassita, priva di qualsiasi mica salis, di quel “pizzico di sale che trasforma”.