FRANCO FORTINI E BERTOLT BRECHT
commento DI FABRIZIO FANTONI
Vi propongo oggi la lettura di due poesie, una di Franco Fortini e l’altra, famosissima, di Bertolt Brecht scritte a vent’anni di distanza l’una dall’altra, in due momenti storici differenti eppure, legate fra di loro, da una potente riflessione sul valore della poesia quale testimonianza.
Scrivere, dice Fortini, è necessario anche se apparentemente sembra inutile: il dibattito nella comunità è ormai sopito; oppressore e oppresso vivono l’uno accanto all’altro; addirittura, scrive, “l’odio è cortese” e non si sa più di chi sia la colpa.
Eppure, compito del poeta è vigilare e testimoniare su quello che accade dentro e fuori gli uomini, per dare loro consapevolezza, per aiutarli a comprendere dove si trovano in quel preciso momento e verso cosa stanno andando.
Fortini, avverte il lettore: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.” Quindi, il vero mutamento che compie la poesia, sembra dirci, è dentro l’uomo, non fuori di esso.
Invito i lettori del blog a scrivere commenti su qual è la funzione della poesia oggi.
Traducendo Brecht
Franco Fortini
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela guardando.
Ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida niente
gli uomini e le donne
che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli del nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
dalla raccolta Una volta per sempre, Einaudi, 1978
An die Nachgeborenen
Bertolt Brecht
Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!
Das arglose Wort ist töricht. Eine glatte Stirn
Deutet auf Unempfindlichkeit hin. Der Lachende
Hat die furchtbare Nachricht
Nur noch nicht empfangen.
Was sind das für Zeiten, wo
Ein Gespräch über Bäume fast ein Verbrechen ist
Weil es ein Schweigen über so viele Untaten einschließt!
Der dort ruhig über die Straße geht
Ist wohl nicht mehr erreichbar für seine Freunde
Die in Not sind?
Es ist wahr: Ich verdiene nur noch meinen Unterhalt
Aber glaubt mir: das ist nur ein Zufall. Nichts
Von dem, was ich tue, berechtigt mich dazu, mich sattzuessen.
Zufällig bin ich verschont. (Wenn mein Glück aussetzt,
bin ich verloren.
Man sagt mir: Iss und trink du! Sei froh, dass du hast!
Aber wie kann ich essen und trinken, wenn
Ich dem Hungernden entreiße, was ich esse, und
Mein Glas Wasser einem Verdursteten fehlt?
Und doch esse und trinke ich.
Ich wäre gerne auch weise.
In den alten Büchern steht, was weise ist:
Sich aus dem Streit der Welt halten und die kurze Zeit
Ohne Furcht verbringen
Auch ohne Gewalt auskommen
Böses mit Gutem vergelten
Seine Wünsche nicht erfüllen, sondern vergessen
Gilt für weise.
Alles das kann ich nicht:
Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!
In die Städte kam ich zur Zeit der Unordnung
Als da Hunger herrschte.
Unter die Menschen kam ich zu der Zeit des Aufruhrs
Und ich empörte mich mit ihnen.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.
Mein Essen aß ich zwischen den Schlachten
Schlafen legte ich mich unter die Mörder
Der Liebe pflegte ich achtlos
Und die Natur sah ich ohne Geduld.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.
Die Straßen führten in den Sumpf zu meiner Zeit.
Die Sprache verriet mich dem Schlächter.
Ich vermochte nur wenig. Aber die Herrschenden
Saßen ohne mich sicherer, das hoffte ich.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.
Die Kräfte waren gering. Das Ziel
Lag in großer Ferne
Es war deutlich sichtbar, wenn auch für mich
Kaum zu erreichen.
So verging meine Zeit
Die auf Erden mir gegeben war.
Ihr, die ihr auftauchen werdet aus der Flut
In der wir untergegangen sind
Gedenkt
Wenn ihr von unseren Schwächen sprecht
Auch der finsteren Zeit
Der ihr entronnen seid.
Gingen wir doch, öfter als die Schuhe die Länder wechselnd
Durch die Kriege der Klassen, verzweifelt
Wenn da nur Unrecht war und keine Empörung.
Dabei wissen wir doch:
Auch der Hass gegen die Niedrigkeit
Verzerrt die Züge.
Auch der Zorn über das Unrecht
Macht die Stimme heiser. Ach, wir
Die wir den Boden bereiten wollten für Freundlichkeit
Konnten selber nicht freundlich sein.
Ihr aber, wenn es soweit sein wird
Dass der Mensch dem Menschen ein Helfer ist
Gedenkt unsrer
Mit Nachsicht.
A coloro che verranno
Bertolt Brecht
Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
un dialogo sugli alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno?
È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
e sono perduto).
“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.
Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
Da Berlolt Brecht Poesie e canzoni, Einaudi, 1959
Traduzione di R. Leiser e F. Fortini
Ritengo che oggi più che mai la poesia rivesta un ruolo di predominante importanza. Viviamo in un’epoca di buio per lo spirito. La poesia nobilita lo spirito, alla saggezza dona eleganza e veste la vita di virtù.
La poesia, sebbene sia molto spesso il canto dei reietti, degli esuli, di coloro che vivono in condizioni di disagio nel proprio tempo, è espressione fedele della condizione umana che appartiene a ogni tempo. Tuttavia la poesia non è per tutti. Molti non la leggono perché non la capiscono o quando la comprendono sono impauriti dalle verità che da essa emergono. Il compito della poesia è lo stesso da sempre: sondare la natura umana, le sue imperfezioni, e farle emergere, farle vedere. Il compito della poesia oggi è tradurre l’inconsistenza e le contraddizioni del nostro tempo, la totale precarietà della condizione umana e lo snaturamento della nostra epoca. L’individuo non è più individuo, ma è un soggetto e oggetto di consumo. Anche la vita sembra avere connotati consumistici. E la vita delle persone ha valore maggiore e minore, a seconda del paese di provenienza. Tutte queste ingiustizie dovrebbero emergere dalla vera poesia, in qualsiasi forma si scriva.
Condivido il concetto che la poesia non sia per tutti. Altrimenti avremmo un mondo di poeti e, come diceva anche Tiziano Terzani, un mondo in mano ai poeti sarebbe certamente un mondo migliore. Quello che auspicabile è che i poeti continuino a scrivere e che molte più persone si facciano contagiare ed emozionare dalla più nobile delle arti. Ma in ultima battuta ritengo che una poesia debba far riflettere sul mondo o su se stessi.
Caro Corrado,
Se i poeti governassero il mondo, la politica sarebbe un’acqua chiara. Tutte le incongruenze e le contraddizioni, verrebbero fuori. Ma occorrerebbe molto tempo, forse secoli.
Senza cadere nella retorica sulla presunta funzione salvifica della poesia, certamente chi scrive o legge poesia ha una sensibilità particolare nel recepire i segnali della contemporaneità. Quando un autore si rende conto che questi non sono in sintonia con lui, è doveroso che – in forma diretta o ellittica – affidi alla parola il senso della sua distanza da eventi, atteggiamenti e idee che non può condividere per nulla. In tale operazione il poeta affonda l’energia conoscitiva su se stesso e sulle ragioni che lo legano al mondo. Ed è bene che nei testi il ritmo – lungi dall’essere un querulo porsi di fronte all’esistente – accompagni il pensiero in quel territorio dove gli “ascoltatori” abbiano la possibilità di interagire anche virtualmente.
La distanza. Interessante questo allontanamento dalle cose, che poi produce l’effetto Contrario, che è quello dell’avvicinamento alle cose. Vedere da lontano, significa vedere meglio, con maggiore vastità di prospettiva. Il lettore dovrebbe capire che il vero poeta non si distanzia mai dal proprio tempo. Penso adesso a Man Ray, ai grandi occhi di donna, oppure, al grande metronomo a ore…
Un’altra domanda epocale è questa: la poesia non muta nulla? E’ vero quello che scrive Fortini? O quanto meno, è condivisibile?
Drammaticamente attuale la poesia Brecht. E Fortini con quel suo “nulla è sicuro ma scrivi ” rimanda a mio parere ad un interrogativo che pone a se stesso. La poesia non deve mutare nulla. É gia in noi. Ha il gravoso compito di far venir fuori l’uomo dall’uomo. Brecht scrive “che dall’uomo un aiuto sia l’uomo. La poesia, a volte dolorosamente, parla all’anima sfrondandola dalle sovrapposizioni che la vita ci impone ovvero vorrebbe imporci. Ci mostriamo nudi alla vita, esposti. Ridiventiamo Natura.
Molto interessante il tuo commento Doriana. La riflessione ci fa comprendere che in fondo lo scrivere poesia non salva, ma tuttavia è necessario. Il suo valore è la testimonianza. Tutto ciò che non è scritto, non esiste, è come se non fosse accaduto. È questo il valore della poesia, un valore che ci arriva da lontano, anche dalle scrittura sacre, se ci pensi. Nulla è accaduto se non è stato scritto. La poesia, come giustamente suggerisce il titolo di una riuscita raccolta di versi di un giovane poeta Gianluca Fùrnari, è una sorta di Vangelo Elementare.
Provo a partecipare senza alcun margine di retorica, ma è altrettanto evidente che in uno spazio magmatico come questo, ogni parola si può prestare a ironici sottotesti, a una “canzonatoria della poesia”. A mio modesto avviso, il poeta non può che partire, sempre, dall’archetipo… dalla parola. E’ sempre così. Fare poesia significa fare “esercizio del dio”. A questo punto, la mia domanda è la seguente: fare poesia oggi significa qualcosa di diverso rispetto a ieri?
Credo che i poeti (bella la citazione luziana “Nel magma”) debbano continuare a fare quello che hanno sempre fatto: testimoniare con la parola della poesia.
A loro “funzione” potrebbe cambiare soltanto se i poeti uscissero dalla nicchia nella quale sono relegati da tempi immemori. Certo è che nei regimi totalitari i poeti, come gli omosessuali, le lesbiche, gli ebrei, sono stati perseguitati. Il poeta è sempre scomodo per il regime, perché assume la voce del popolo, dei popoli, mediante l’uso del materiale linguistico. Ora, se un grande poeta di oggi, per esempio, partecipasse a un reality, ma l’esempio è paradossale, forse il punto di vista di chi osserva l’altro da se, potrebbe totalmente stravolgersi. Insomma, fare entrare un poeta nell’immaginario collettivo contemporaneo dal quale è continuamente espulso, sarebbe dirompente. Ripeto, l’esempio è un paradosso. Il poeta in un reality parlerebbe di cose inaudite.
Testimoniare e vigilare. Dice Fortini e sono d’accordo. Questo è il primo richiamo a chi scrive poesia. Un richiamo alla “responsabilità”. un richiamo che vale per gli “intellettuali” tutti .
L’intellettuale, poeti inclusi, è caduto nella rete dell’autopromozione:pensa a se stesso e non a ciò che dovrebbe guidare un processo di critica del sistema, sia all’interno di un’organizzazione (partitica o politica), sia al di fuori. L’intellettuale, sostanzialmente disimpegnato, non interviene, non si espone. È morta la domanda di senso. I poeti guardano il loro ombelico, leccano le proprie o altrui ferite, celebrano requiem. O, come è stato per lungo tempo, si esauriscono in esercizi di stile . Quasi mai che ci si occupi dei diritti umani, della tragedia di un Mediterraneo ridotto a lago dove galleggiano cadaveri, sulle tempeste dei mercati, degli apparati di guerra, delle minoranze etniche, della povertà: sulle spie, cioè, di un’Italia oggi alienata, dove bisogna vergognarsi di avere studiato.Ma la questione non riguarda solo l’Italia. Pensate all’America di Trump.
Ma la vera domanda che pone Luigia Sorrentino va oltre. La poesia può mutare qualcosa ? Io credo di sì. E ne ho fatto oggetto di ricerca nel mio (modesto) scrivere in versi. “Impero” (Oèdipus 2017) va in questa direzione.
E può mutare se riesce a introdurre la “bellezza” come categoria del “politico”. Nel dire cioè che il “bene è il bello”. Ma questa è solo una indicazione generalissima che meriterebbe un approndimento molto più accurato che non si può compiere o esaurire in sede di commento. In sintesi , e concludoqui per ora, quello che Sciascia voleva dire quando disse che per battere la mafia occorrevano tre generazioni allevate a Mozart.
Io credo che il senso in sé sia frantumato, che viviamo in un periodo storico complicato per il senso. La scienza sembra quasi chiusa in un vicolo cieco, i fisici più scoprono e più sono consapevoli dell’inafferrabile. Sarebbe tanto se oggi i poeti riuscissero a rendere questa perdita del senso, di straniamento. Forse il compito del poeta è proprio questo oggi: testimoniare a una umanità futura lo smarrimento di questi primi venti anni del ventunesimo secolo.
Giovanni Ibello ha ragione.
Certamente l’esercizio della poesia non è cambiato rispetto al passato.
Ma la questione che ho voluto porre ai lettori del blog voleva essere relativa al ruolo che il poeta avverte di avere nella società contemporanea.
Diciamolo francamente: abbiamo modificato totalmente il concetto di “autorità”
Nella prima metà del novecento se ci fossimo imbattuti in Gabriele D’Annunzio, in Giovanni Pascoli o in Giuseppe Ungaretti non avremmo potuto che riconoscere in loro i protagonisti della loro epoca. Ora il poeta è un emarginato le cui parole sono destinate a uno sparuto gruppo di lettori. Ed è un processo degenerativo che ha avuto inizio negli anni in cui Fortini scriveva quella poesia.
Eppure, i tempi folli e caotici in cui viviamo ci dicono che abbiamo più che mai necessità di poeti, filosofi ed artisti. Abbiamo bisogno di parole e opere che ci aiutino a riflettere. Abbiamo bisogno di “pensare”.
Tutti coloro che hanno dedicato la loro vita alla letteratura e all’arte dovrebbero impegnarsi a ridurre la distanza, ora vastissima, che separa il poeta dalla comunità.
È tempo che la parola torni a prevalere sul chiacchiericcio, è tempo il pensiero torni ad avere centralità nella vita dell’uomo
“È tempo che sia tempo, è tempo”
Entrambe le poesie, molto belle e toccanti: tragica testimonianza di vita in tempi bui, dissacrati…
Ma non spetta forse all’uomo stesso, al poeta, che osserva e riflette sulle circostanze, invertire la rotta, fare la differenza ricercando, dentro di sé, i valori della bellezza e del bene, il senso della dignità umana e della sacralità della vita, e meditando sul significato e la pregnanza del nostro essere qui e del nostro andare, che apre alla trascendenza, all’altrove che ci inquieta da sempre.
Penso sia giunto il momento di affrontare la sfida di portare alla luce il “positivo” dell’essere umano e della vita, il nucleo complesso e vitale, in cui consiste la nostra vera, profonda umanità.
Non vale forse la pena di tentare?
Sant’Agostino esorta:” Non uscire da te stesso, rientra in te: nell’intimo dell’uomo risiede la verità”.
Tanto più una poesia è autentica e onesta, tanto più essa avrà il potere di plasmare profondamente la nostra vita pratica, i nostri valori e quindi, la nostra politica. Mi piace pensare che la poesia abbia una ricaduta sui tempi, altrimenti probabilmente mi apparirebbe un esercizio arido e/o consolatorio. Io non credo che la poesia non cambi nulla. I mutamenti da essa prodotta sono come i mutamenti geologici. La causa di ciò è forse dovuta al fatto che, come è stato detto, la poesia non è “contemporanea” alla consapevolezza storica, anzi. La poesia è anticipatoria rispetto ai tempi, almeno in senso spirituale. Per questo essa si configura come prima scintilla, previsione, fiamma improvvisa e persino irrazionale rispetto al presente, forza visionaria. Da sempre i poeti hanno il compito (che la natura ha scelto per loro) di parlare del mondo e del futuro, prima che tutti gli altri lo vedano. Proprio in questo “prima” c’è forse, una possibilità di azione rispetto al futuro… Incollo sotto un passo di uno scrittore a me caro a proposito degli artisti e degli scrittori in senso lato:” Lo scrittore, l’artista sono esseri umani qualunque, e tuttavia
rispetto alle altre persone sono quelli che hanno il sistema nervoso
più sensibile, capace di cogliere in modo immediato ogni minima variazione
Nel rapporto tra l’uomo e il mondo. (…)
Sono dotati di una facoltà che è prima di tutto spirituale: hanno dei presagi
che più tardi, sotto forma di visione,cioè di creazione artistica,
mostrano la realtà- la mostrano non appena essa si staglia confusa
all’orizzonte umano, ancora a uno stadio primordiale di formazione,
di gestazione, di mitico inizio”.
Sàndor Màrai
Bellissima, cara Federica, la citazione di Sandor Marai, in Italia autentica rivelazione della letteratura mondiale negli anni novanta del secolo scorso, quando Adelphi di Roberto Calasso pubblicò il suo romanzo LE BRACI.
Confermo anche qui, che uno dei ruoli della poesia oggi, sia anche terapeutico, per chi la scrive e per coloro che la leggono.
Marino
La poesia non ha secondo me, valore terapeutico. I poeti fanno emergere contraddizioni, inquietudini, paure, ma non sempre le risolvono perché non è questo il loro compito. Mi sembra che su una cosa siamo d’accordo tutti: sul valore della poesia come testimonianza.
La poesia, credo io, non ‘ha’ una funzione; ‘è’, piuttosto, una funzione. Nel significato apparentemente più algido possibile, quello matematico: funzione come ‘relazione’. Relazione tra creatura e creatura, tra creatura e mondo, tra creatura e storia. Che questa relazione possa avere, da un certo punto di vista, una polarità politica e sociale, è innegabile. Ma la poesia non deve cambiare il mondo: deve dirlo, figurarlo, significarlo. Luzi [1965, 27], al solito, riesce dove altri falliscono. Lo trascrivo di seguito:
La poesia ha,a mio avviso,un’unica probabilità di sopravvivere,un’unica giustificazione nel mondo moderno perduto dietro gli episodi, scisso in tante piccole e primitive mitologie sorte in mancanza di un mito, di una fede, di una convinzione: la sua forza di sintesi. La poesia respira un profondo bisogno di unità laddove la vita psichica e la vita organizzata degli uomini di oggi è estremamente frammentaria. La grande avventura della poesia moderna consiste infatti nel tentativo di ricostruire mediante il linguaggio quell’unità che il mondo ideale, pratico, espressivo degli uomini aveva perduto. […]
Caro Emanuele,
Per il poeta la poesia è funzione. Per il lettore che ne fruisce la poesia ha una funzione. Il poeta si cala nella relazione intima con il lettore, senza chiedere nulla In cambio, il poeta semplicemente dà ciò che è un suo dono.
Qui ci ponevamo però il problema di “come” la poesia, quella cosa che è funzione, relazione, o tentativo di relazione, si pone oggi, se è separata dalle cose del mondo o se è calata in esse. Ci chiedevamo se questa “funzione” abbia ancora un valore, un senso.
La poesia agita e placa.
Ogni poeta che abbia scritto anche solo una poesia deve poter rispondere alla domanda del perché.
Le poesie di Fortini e di Brecht sono molto alte e rivelano anche due tempi differenti, come è proprio della poesia.
Nel praticare molta poesia di ambiti e voci diverse riconosco almeno tre modi che schematizzo qui sotto.
Ci sono poeti che guardano paesaggi e nature, incontrano in essi pensieri e ricordi, emozioni e bisogni. La loro poesia descrive e nello stesso tempo è introspettiva, elabora attraverso la parola descrittiva esperienze interiori.
Vi è un modo che esprime nella ricchezza della parola una capacità affabulativa importante. L’affabulazione ha un doppio potere, di coinvolgimento e di rimozione. (in fondo può anche essere vicina all’idea antica di catarsi).
Vi è un terzo modo. Il poeta si fa carne viva, nella sua sofferenza individuale rivive l’umano (sottraiamoci però all’illusione dell’universale), di ciascuno e di ciascuna e la sua voce testimonia tutta raccolta nella maschera del suo “rappresentare”, nel senso del dramma che si mette in scena nella vita e nella storia. Il poeta vive e rivive la condizione che “rappresenta”. Anche in questo caso forse il richiamo al dramma antico è appropriato, con una differenza sostanziale però: dopo Auschwitz, dopo la storia non è possibile la catarsi. IL processo di redenzione e di rigenerazione deve passare attraverso la carne e il pensiero. Aristotele ci abbandona, viveva altri tempi viveva il tragico nel tempo del mito e viceversa. Noi abbiamo dentro di noi il tempo della storia e non possiamo sottrarci.
Ciò che ho scritto è molto schematico ma è sostanzialmente ciò che io sento quando scrivo e ciò che propongo alla riflessione.
Grazie Luigia per questo momento di incontro fra molti che sentono il bisogno di dire a se stessi cosa sia il loro essere nel mondo attraverso (anche attraverso) la poesia
Gabriella Valera
Cara Gabriella,
il tuo commento è importante grazie… la voce del poeta che si fa “carne viva” e pensiero. In noi il tempo della storia…. Fondamentale lo spunto di riflessione proposto da Fabrizio Fantoni sulla funzione della poesia oggi. Guardare al passato è necessario, sembrano dirci queste due poesie a confronto, per capire il presente. “Quali tempi sono questi”, domanda Brecht, tempi di inimicizia, di violenza? E, traducendo Brecht, Fortini scrive: “Fra quelli del nemici scrivi anche il tuo nome.” In realtà, pur essendo agli antipodi, entrambi i poeti esprimono la necessità di confrontarsi con la parola della poesia per capire il proprio tempo. Ma che cosa apprende Fortini da Brecht? Fortini pensa e crede che la poesia sia uno strumento di lotta politica e sociale, così come ci ha creduto Pasolini quando ha scritto “Le Ceneri di Gramsci” interpretando il presente dal punto di vista ideologico.
Oggi, se vogliamo dirla tutta, la poesia non è più ideologia, non accettano i poeti d’oggi, di essere “ingabbiati” nel pensiero ideologico perché sanno che “quel pensiero” può diventare una gabbia impossibile per la vera poesia. Quindi, se da un lato Brecht esorta i giovani a guardare al futuro, a renderlo migliore, Fortini afferma l’insufficienza della testimonianza e l’inutilità della poesia, quindi deforma “ideologicamente” la capacità della parola della poesia come trasformazione del mondo.
E allora, come devono essere i poeti oggi? La domanda di Fantoni non è peregrina… La risposta… e la risposta arriverà.