La luminosa inquietudine di Silvia Bre

Io vado destinata a un sentimento
che ha la forma del parco che ora vedo,
e ciò che vedo è il viale in cui l’inverno
è rami, pietre, acqua, tramontana,
e passi di una donna che cammina.
Ma per come procede e come leva
lo sguardo secolare sulle foglie,
lei è la specie, a lei torna la rima
nella quale riposa il mondo intero –
così la qualità del giorno vaga
continuamente tra le parole e il cielo.

*

E ancora quella nenia mi s’intona
che fa stilare cronache fatali
in segni netti, come righe a un foglio,
con un lontano perdersi di rime.

So l’infinito scroscio della fonte
e l’acqua che caduta non risale
e l’affacciarsi eterno a quella sete –
mi prova così tanto che ne vivo
darle una voce sola, bene detta,
suono d’un male accolto in una goccia:

Scrivo – ed è ombra a cui spoglio la vita
del tremito che altera l’alza in guglie –
così pronta a svanire – è quasi nulla,
nulla – come un girar di biga
con un auriga assorto
che ora corteggia l’aria in cui trascorre
ora i capelli spettinati ad essa –
o è solo dire al vento di una grazia terrena,
zelo di conca
in cui consista il tempo.

*

Nuovi altari da ora, l’altra sostanza –
così il commosso annuncio si dischiara
quando con le promesse io mi curo –
da me soltanto cercherò la pietra
tanto s’è fatta avara la vigilia
lungo le rive d’acqua che non viene.

Io me ne andrò dove l’aria concede
alla mia vela di terra il soffio
con cui ci si confessa d’un dolore,
quello che muove le povere parole
e le pavesa a festa, o le tormenta.

Ecco, vado a trovar la pietra dura
della mia, della tua pena,
considera la quiete terminata,
credimi infine: conviene la sponda del mattino, e salva –
ma che un battito abbia forza d’arrestarsi
e ammirare rapito il cuore buio.

Anche se è mia fortuna dare frutti
che sono belli della propria fine
io me lo giuro sul nome delle cose,
quel tuono breve in cui vanno a tremare,
che alla miniera della mia fatica
strapperò scaglie più vere dell’oro
per consegnarmi le mani ferite,
il loro suono esatto, un cielo
non astratto a cui tenermi.

Silvia Bre (da Le barricate misteriose, Einaudi, 2001)

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Silvia Bre, nata nel 1953 a Bergamo, vive e lavora a Roma. È tra le più autorevoli voci della poesia italiana contemporanea, oltre che traduttrice di riconosciuto valore. La sua scrittura, raffinata ma misuratissima, è carica di una luminosa inquietudine (“Ecco, vado a trovar la pietra dura / della mia della tua pena”). Non rinuncia al sé né teme di indicarne la creaturale consistenza; ma è un ‘sé’ che sempre si affaccia e si misura con l’evidenza del mondo ( So l’infinito scroscio della fonte / e l’acqua che caduta non risale / e l’affacciarsi eterno a quella sete). Lontana per lo più da ‘maniere’, la sua lingua poetica – nel cui senso ritmico sopravvive la naturale modernità della tradizione – è lingua d’indagine (Scrivo – ed è ombra a cui spoglio la vita) , di canto discreto e partecipe.
Per Einaudi ha pubblicato Le barricate misteriose (Premio Montale nel 2001), Marmo (Premio Viareggio nel 2017), La fine di quest’arte (2015). Sempre per Einaudi ha curato e tradotto due volumi di poesie di Emily Dickinson (Centoquattro poesie, 2011; Uno zero più ampio: altre cento poesie, 2013).

Emanuele Franceschetti

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