Eugenio Montale, La bufera e altro, edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai
NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA
Il libro forse più oscuro, stratificato, notoriamente più discusso di Eugenio Montale. Sin dal titolo: la bufera, cioè «la guerra, in ispecie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti», come sottolineò il poeta stesso in una lettera a Silvio Guarnieri. E che valore epistemico si può conferire invece ad altro? Riempitivo, esornativo? O sostanziale? L’Altro? Si attendeva da molto tempo — benché nel 2012 sia uscito un bellissimo commento a cura di Marica Romolini — un’esegesi mondadoriana dell’opus magnum di Montale, unica silloge dell’autore genovese a non essere stata ancora censita criticamente (assieme agli Altri versi, usciti però direttamente nell’Opera in versi del 1980 e non come testo autonomo): finalmente la lacuna è colmata, La bufera e altro (edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, con scritti di Guido Mazzoni, Gianfranco Contini e Franco Fortini, «Lo Specchio» Mondadori, pp. 544, € 24) è disponibile, l’«Everest dell’interpretazione» scalabile.
C’è subito da puntualizzare che il commento Scaffai-Campeggiani — al primo è da attribuire l’introduzione, la revisione generale e la parte finale, Conclusioni provvisorie; mentre alle seconda le sezioni Finisterre, Dopo, Intermezzo, ‘Flashes’ e dediche, Silvae e Madrigali privati — è molto ordinato ed esplicativo. La precisione degli echi letterari e del modello coltissimo a cui Montale fa riferimento è segnalato nella densa presentazione di Scaffai che ne mette in rilievo il «manierismo», snocciolato in tre punti: «Tratti manieristici sono l’amplificazione, che interessa per esempio il macrotesto della Bufera, più esteso e complesso rispetto a Ossi e Occasioni; l’adesione allusiva a un modello colto; la codificazione di lessico e immagini già presenti nelle Occasioni e recuperati consapevolmente nella Bufera come elementi di un linguaggio lirico interno». Siamo dinanzi a una silloge, la terza dell’opera montaliana, interamente consapevole del suo repertorio di letture e riscritture, che attinge a un serbatoio consolidatissimo di elementi occulti e stilemi. Si pensi alla gemmea epigrafe dall’autore francese Agrippa d’Aubigné che apre la poesia omonima del libro. Eppure, l’equilibrio espressivo, tutt’altro che cianotico, presenta una freschezza d’intenti inversamente proporzionale alla chiarezza e alla linearità della parola: il “romanzo” del visiting angel, nato sotto l’egida cliziesca (Finisterre), «iddia che non s’incarna», sembra assumere volti e figurazioni cangianti, talora contrastanti (il repêchage di Arletta, la sovrapposizione di Volpe, la velata presenza della sorella Marianna e di G.B.H., impiegata di un’agenzia viaggi londinese, l’anticipazione sghemba di Mosca), la cui parziale spiegazione è in un verso (controverso) di Iride, poesia centrale e sfingica: «Ma se ritorni non sei tu, è mutata/ la tua storia terrena». Uno dei meriti di questo commento è proprio quello di non perdere mai la bussola dell’intercessione cliziesca (dalla funzione deiforme a quella iperdulica), nonostante le differenti segnaletiche e inversioni di senso. Quella che un giorno era l’Only Begetter, infatti, si trova ora a convivere con una segmentazione del tu a dir poco sulfurea. Ma soprattutto: quella che un giorno era il Dio veniente e diveniente dal fiero cipiglio, la donna splendore completamente divinizzata si è ormai abbacinata «nell’Altro» (donde forse quell’altro che segue in minuscola La bufera): nel punto più viscerale del male, nella coincidentia oppositorum del peccato e della salvazione — con chiari riferimenti alla mistica ebraica e, in particolare, all’eresiarca Jakob Frank —, ha pagato il fio, si è sacrificata per tutti, ha perso il suo status di deità. Ora c’è sì una nuova speranza, ma anche una «via più dura» da percorrere (L’ombra della magnolia…). Com’è detto molto opportunamente da Campeggiani nell’esegesi relativa alla Primavera hitleriana: «Clizia diviene a tutti gli effetti una nuova Beatrice. È proprio questa la chiave del finale, perché la donna, guardando “in alto”, distrugge nell’alterità religiosa (in Lui) il “cieco sole” che porta dentro di sé, e analogamente il poeta eleva il proprio amore al di sopra della sfera privata, sublimandolo in un sentimento universale, in una fede nella resurrezione dell’umanità». Nonostante il “romanzo” di Clizia si risolva in uno schianto depotenziante, l’ansia metafisica di Montale sembra non placarsi nel suo desiderio di fagocitazione dei simboli e nella scepsi concettuale che infine lo contraddistingue (Satura sarà l’envers du décor di tale orizzonte privo di valori determinanti), almeno quanto rapidissimo è il passaggio di testimone — salvo poi risolversi anche questo in un «Dio diviso/ dagli uomini», Anniversario — della donna metamorfizzata e reintegrata in un generico eterno femminino.
«Montale — ha scritto in una circostanza Sergio Antonielli — ha dato voce al dramma dell’uomo religioso senza religione, del cristiano storico senza Chiesa. Cristiano errante, nestoriano smarrito che lo si voglia chiamare, è indubbiamente fra coloro che meglio hanno tentato di approfondire la turbata coscienza del nostro tempo». È difficile trovare una definizione più acuta dell’intera poesia di Eugenio Montale e, in particolare, della straordinaria parabola lirico-religiosa che permea la Bufera. Certo è che il commento mondadoriano — arricchito dal supporto critico di Mazzoni, Contini e Fortini — si offre al nostro sguardo come un frutto di rammemorazione e meditazione di una letteratura, quella di «Eusebio» e di altri esecutori dell’erranza, ancora pienamente alta, ancora pienamente attuale.