OUTSIDE HISTORY
There are outsiders, always. These stars –
these iron inklings of an Irish January,
whose light happened
thousands of years before
our pain did: they are, they have always been
outside history.
They keep their distance. Under them remains
a place where you found
you were human, and
a landscape in which you know you are mortal.
And a time to choose between them.
I have chosen:
out of myth into history I move to be
part of that ordeal
whose darkness is
only now reaching me from those fields,
those rivers, those roads clotted as
firmaments with the dead.
How slowly they die
as we kneel beside them, whisper in their ear.
And we are too late. We are always too late.
FUORI DALLA STORIA
Ci sono gli outsider, sempre. Queste stelle –
ferrei segnali di un gennaio irlandese,
la cui luce si formò
migliaia di anni prima
della nostra pena: sono, sono sempre state
fuori dalla storia.
Mantengono la distanza. Sotto di loro rimane
un luogo dove hai scoperto
di essere umana, e
un paesaggio dove sai di essere mortale.
E un momento di scegliere tra loro.
Io ho scelto:
fuori dal mito dentro la storia mi muovo per essere
parte di quel calvario
la cui oscurità
solo ora mi raggiunge da quei campi,
quei fiumi, quelle strade grumi di morti
come firmamenti.
Come muoiono lenti
mentre in ginocchio accanto a loro gli sussurriamo all’orecchio.
E arriviamo troppo tardi. Arriviamo sempre troppo tardi.
THAT THE SCIENCE OF CARTOGRAPHY IS LIMITED
– and not simply by the fact that this shading of
forest cannot show the fragrance of balsam,
the gloom of cypresses
is what I wish to prove.
When you and I were first in love we drove
to the borders of Connacht
and entered a wood there.
Look down you said: this was once a famine road.
I looked down at ivy and the scutch grass
rough-cast stone had
disappeared into as you told me
in the second winter of their ordeal, in
1847, when the crop had failed twice,
Relief Committees gave
the starving Irish such roads to build.
Where they died, there the road ended
and ends still and when I take down
the map of this island, it is never so
I can say here is
the masterful, the apt rendering of
the spherical as flat, nor
an ingenious design which persuades a curve
into a plane,
but to tell myself again that
the line which says woodland and cries hunger
and gives out among sweet pine and cypress,
and finds no horizon
will not be there.
CHE LA SCIENZA DELLA CARTOGRAFIA È LIMITATA
– e non solo dal fatto che l’ombreggiatura
della foresta non può mostrare la fragranza del balsamo,
la cupezza dei cipressi
è ciò che voglio dimostrare.
Quando tu e io eravamo da poco innamorati andammo
ai confini del Connacht
e là entrammo in un bosco.
Guarda in giù dicesti: una volta questa era una strada della carestia.
Guardai l’edera e la gramigna
sotto cui la pietra grezza
era scomparsa mentre tu mi dicevi
nel secondo inverno della loro sventura, nel
1847, quando il raccolto venne a mancare per la seconda volta,
la Commissione di Soccorso diede
agli irlandesi affamati strade come questa da costruire.
Dove morivano, là la strada finiva
e finisce ancora oggi e quando tiro giù
la carta di quest’isola, non è mai
per notare
la maestria atta a rendere
ciò che è sferico piatto, né
il segno ingegnoso che plasma una curva
in un piano,
ma per dire di nuovo a me stessa che
la linea che dice bosco e grida fame
e muore tra pini odorosi e cipressi,
e non trova orizzonte
non ci sarà.
A HABITABLE GRIEF
Long ago
I was a child in a strange country:
I was Irish in England.
I learned
a second language there
which has stood me in good stead –
the lingua franca of a lost land.
A dialect in which
what had never been could still be found.
That infinite horizon. Always far
and impossible. That contrary passion
to be whole.
This is what language is:
a habitable grief. A turn of speech
for the everyday and ordinary abrasion
of losses such as this
which hurts
just enough to be a scar.
And heals just enough to be a nation.
UNA PENA ABITABILE
Tanto tempo fa
ero una bambina in un paese straniero.
Ero un’irlandese in Inghilterra.
Imparai
là una seconda lingua
che mi è stata di grande utilità –
la lingua franca di una terra perduta.
Un dialetto in cui
ciò che non era mai stato si poteva ancora trovare.
Quell’orizzonte infinito. Sempre distante
e impossibile. Quella caparbia passione
a essere integra.
Ecco che cos’è la lingua:
una pena abitabile. Un discorso
per la quotidiana e comune abrasione
di perdite come questa
che fa male
quanto basta per essere cicatrice.
E si rimargina quanto basta per essere nazione.
AMBER
It never mattered that there was once a vast grieving:
trees on their hillsides, in their groves, weeping—
a plastic gold dropping
through seasons and centuries to the ground—
until now.
On this fine September afternoon from which you are absent
I am holding, as if my hand could store it,
an ornament of amber
you once gave me.
Reason says this:
The dead cannot see the living.
The living will never see the dead again.
The clear air we need to find each other in is
gone forever, yet
this resin once
collected seeds, leaves and even small feathers as it fell
and fell
which now in a sunny atmosphere seem as alive as
they ever were
as though the past could be present and memory itself
a Baltic honey—
a chafing at the edges of the seen, a showing off of just how much
can be kept safe
inside a flawed translucence.
AMBRA
Che un tempo ci sia stato un grande dolore, non ha mai avuto importanza:
gli alberi sulle colline, nei boschetti, che piangono –
un oro di plastica che cade
a terra per secoli e stagioni –
fino ad ora.
In questo bel pomeriggio di settembre in cui tu non ci sei
tengo stretto, come se la mia mano lo potesse custodire,
un monile d’ambra
che mi hai donato un tempo.
La ragione dice questo:
i morti non possono vedere i vivi.
i vivi non rivedranno più i morti.
L’aria chiara di cui abbiamo bisogno per ritrovarci è
svanita per sempre, eppure
questa resina un tempo
ha raccolto semi, foglie e perfino piccole piume mentre cadeva
e cadeva
e ora in un’atmosfera solare sembrano vivi
come non mai
come se il passato fosse presente e il ricordo stesso
un miele baltico –
uno sfregamento agli orli del visibile, un’esibizione solo di quanto
si possa conservare
dentro un’imperfetta traslucenza.
IN COMING DAYS
Soon
I will be as old as the Shan Van Vocht –
(although no one knows how old she is.)
Soon
I will ask to meet her on the borders of Kildare.
It will be cold.
The hazel willow will be frozen by the wayside.
The rag-taggle of our history
will march by us.
They will hardly notice two women by the roadside.
I will speak to her. Even though I know
she can only speak with words made by others.
I will say to her: You were betrayed.
Do you know that?
She will look past me at the torn banners,
makeshift pikes, bruised feet. Her lips will move:
To the Currach of Kildare
the boys they will repair.
There is still time, I will tell her. We can still
grow older together.
And will Ireland then be free?
And will Ireland then be free?
We loved the same things, I will say –
or at least some of them. Once in fact, long ago,
Yes! Ireland shall be free,
From the centre to the sea.
I almost loved you.
NEI GIORNI A VENIRE
Presto
sarò vecchia come la Shan Van Vocht –
(anche se nessuno sa quanto sia vecchia.)
Presto
chiederò d’incontrarla ai confini del Kildare.
Farà freddo.
il nocciòlo lungo la strada sarà gelato.
Gli straccioni della nostra storia
marceranno accanto a noi.
Non faranno gran caso a due donne sulla strada.
Io le parlerò. Anche se so bene
che lei si esprime solo con parole di altri.
Le dirò: ti hanno ingannata.
Te ne rendi conto?
Lei guarderà gli stendardi laceri dietro di me,
le lance improvvisate, i piedi ammaccati. Le sue labbra scandiranno:
Alla piana del Kildare
ripareranno i ragazzi.
C’è ancora tempo, le dirò. Tempo
per invecchiare insieme.
Sarà libera l’Irlanda allora?
Sarà libera l’Irlanda allora?
Abbiamo amato le stesse cose, dirò –
o almeno alcune di esse. Una volta in effetti, molto tempo fa,
Sì! L’Irlanda sarà libera,
dal centro al mare.
ti ho quasi amata.
Le poesie qui pubblicate sono tratte da New Collected Poems, Carcanet 2004 e da Tempo e violenza, cura e traduzione di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, 2010
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Breve bio di Eavan Boland
Nata a Dublino nel 1944, Eavan Boland ha vissuto e studiato in Irlanda, Londra e New York. Ha insegnato a Trinity College, University College e Bowdoin College, Dublino, e all’università di Iowa. Attualmente è Mabury Knapp Professor in the Humanities a Stanford University, California.
Le sue prime raccolte includono The Journey and other poems (1987),e Night Feed (1994), tra le opere successive si citano Outside History (1990), In Time of Violence (1994), Collected Poems (1995), The Lost Land (1998) , Code (2001), Domestic Violence (2007), New Collected Poems (2008).
Una autobiografia e allo stesso tempo il suo manifesto poetico, Object Lessons: the Life of the Woman and the Poet in Our Time (1995), opera in prosa. Tutte le sue opere sono pubblicate da Carcanet , Manchester e Norton & Co, New York.
Eavan Boland divide il suo tempo tra la California e l’Irlanda.
Breve bio Giorgia Sensi
Giorgia Sensi è traduttrice freelance dall’inglese di fiction, non-fiction e soprattutto poesia. Vive a Ferrara.
Ha tradotto raccolte di Carol Ann Duffy, Jackie Kay, Gillian Clarke, Margaret Atwood, Eavan Boland, Kate Clanchy, Patrick McGuinness, John Barnie, Philip Morre, e altri ancora, e curato diverse antologie.
Fa parte della redazione di «Interno Poesia», blog e casa editrice, per la promozione della poesia.
È collaboratrice del Blog Rai, Poesia di Luigia Sorrentino.
Le sue pubblicazioni più recenti, nel 2018:
La compagnia più bella, (The Bonniest Companie) Kathleen Jamie, Medusa Editore;
Scrutare gli orizzonti, (Sightlines) Kathleen Jamie, narrativa di viaggio, Luciana Tufani Editrice;
una raccolta di poemetti di Natale di Carol Ann Duffy,Un Natale inglese, con Andrea Sirotti, Le Lettere.
Nel 2019:
Déjà-vu, poesie scelte di Patrick McGuinness, IP Editore,
Falco e ombra, (Hawk and Shadow) antologia di poesie e prose di Kathleen Jamie, IP Editore;
La testa di Shakila, poesie e prose di Kate Clanchy, Lietocolle-gialla oro;
8 poesie di Jenny Mitchell per la rivista Versodove, n. 21;
Istantanea di ippopotamo con banane e altre poesie, (Snapshot of Hippo with Bananas and other poems) Philip Morre, IP.
La casa sull’albero, poesie scelte di Kathleen Jamie, Ladolfi Editore, 2016, ha vinto il Premio Marazza 2017 per la traduzione poetica.
Giorgia Sensi ha inoltre ricevuto il ‘Premio Nazionale per la Traduzione’ 2019, conferito da Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.
Breve bio Andrea Sirotti
Andrea Sirotti
è nato a Firenze, dove insegna lingua e letteratura inglese. Fa parte delle redazioni di «Semicerchio», rivista di poesia comparata, e di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia. Da circa vent’anni svolge l’attività di traduttore letterario, soprattutto di poesia e di narrativa postcoloniale in lingua inglese per varie case editrici tra cui Einaudi, Giunti, Le Lettere e Interno Poesia. Tra le poetesse tradotte e curate insieme a Giorgia Sensi figurano Carol Ann Duffy, Eavan Boland e Margaret Atwood. Ha inoltre curato, o co-curato, svariate antologie poetiche a tema. Tra gli altri poeti anglofoni tradotti e curati figurano Karen Gut, Arundhathi Subramaniam, Sally Read e Jane Hirshfield e i «classici» Emily Dickinson e Oscar Wilde. Dal 2000 al 2008, insieme a Vittorio Biagini, ha curato per il Comune di Firenze le iniziative sulla poesia giovanile “Nodo sottile”. È tra i fondatori di Linguafranca, agenzia letteraria transnazionale. Negli ultimi anni si è dedicato alle attività di scout letterario, di consulente editoriale e di organizzatore di festival e altri eventi letterari.