Ecfrasis
di Antonella Anedda
“Ho freddo ma come se non fossi io”. In questi versi c’è il mondo di Mario Benedetti, morto il 27 marzo 2020 a sessantaquattro anni.
Chi ha ascoltato le sue letture ricorda come fossero il rendiconto di una distanza all’interno della quale però succedeva qualcosa di sorprendente: Benedetti scavava con il suo linguaggio uno spazio di indifferenza dove inaspettatamente si accendeva una promessa.
Può sembrare un paradosso, ma dire come se non fossi io ci allontana da quella prossimità che avrebbe impedito di scriverlo davvero. Si guarda se stessi, si constata la presenza del gelo e insieme si scandaglia quello che siamo di fronte alla percezione. Dire “come se non fossi io” significa aver attraversato lunghe distese, essere saliti, caduti, risaliti. Freddo, fossati, torrenti, case color ocra, pitture nere come quelle dell’amato Goya, incubi e strappi luminosi.
Mario Benedetti a Nimis in Friuli sul bordo della Slovenia, il paese della madre. Il confine è il sigillo di un’identità che può essere spostato facilmente, è la prova della storia che agisce sulla geografia. Perché se la “storia è fievole” la storia è anche un fiele che corrode. Il confine mostra a tutti noi cosa possiamo diventare e cosa possiamo smettere di essere. Tenuta e smarrimento, coerenza e contraddizione.
La lingua, come il paesaggio (Cividale con la sua arte è a pochi passi) è colta e periferica, attraversata da scosse, sedimentata in fossili, acque di torrente. Fa corpo con quello che guarda, non può prescindere dal dialetto, ma, come hanno riflettuto i suoi amici e poeti Stefano dal Bianco e Gian Mario Villata, invece di usarlo Benedetti se ne lascia “investire”, lo patisce per poi trasmutarlo nell’ italiano estraneo, straniero e straniato di chi è vissuto ascoltando una lingua diversa. Dal dialetto si coagula un quotidiano fatto di suoni fitti di consonanti, fatica, sprofondamenti, ma in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti) e pensieri, da altri spazi aperti al vento, alle ginestre, alle maree come la Bretagna, con quella materia che aveva già accolto la poesia di Paul Celan.
La poesia di Benedetti esprime un dolore sedimentato, fossile: la famiglia, la malattia, l’esperienza del terremoto, ma nei suoi testi non può esserci autocompiacimento perché c’è una coscienza costante della nostra precarietà. Benedetti sa che “noi non ci apparteniamo” a partire dai suoi titoli: Umana gloria, Pitture nere, Tersa morte con quella “r” che arroventa entrambe le parole contraddicendo il ghiaccio dell’immagine. La forza dei suoi versi è tanto più intesa quanto più la sintassi sembra intaccata e dimessa, quando si moltiplicano le tautologie, le incertezze che sono il tracciato di un pensiero che non ha paura di assentarsi, continuando a parlare.
“Siamo noi nell’enigma” aveva scritto Benedetti in un saggio del 1988.
Conoscere questo smarrimento, averlo attraversato è la gloria terrena di una poesia che è anche un grande osservatorio da cui si vedono frane di braci, foglie di acero, monti ma anche asfalto, rottami, case distrutte. L’imprevedibilità di un dato impercettibile a prima vista sulla superficie del testo, crea uno scarto che ci costringe a ripensare, ripetere le parole.
Leggiamo questi altri versi, che ora trascrivo, come un saluto: “la luna è poter guardare tra le piante”. Apparentemente nulla di più poetico di luna e piante eppure non è così, o meglio non è esattamente così e la vita di un poeta come Mario Benedetti conferma come la poesia non sia un’eco del sentimento, ma lei stessa una realtà con una propria regolazione interna, una legge che compone e rovescia le prospettive abituali. Per questo dire “come se non fossi io” significa accettare coraggiosamente di essere stranieri alla propria morte:
“Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.”