Vedere nuda la vita
di Gianluca Furnari
Scrivere di Mario Benedetti è «peso non da le mie braccia», ma accolgo comunque il tuo invito a farlo, per raccontare in poche battute quello che un lettore di poesia della mia età ha cercato e trovato nei suoi versi. Stasera, tornando sulle sue poesie a distanza di tempo, scopro che si è amplificata in me una sensazione che avevo accettato solo in parte durante la prima lettura, cioè la sensazione di essere messo al muro. «E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni, / e una vita così come sempre da farmi solo del male». Sembra inopportuno, di fronte a una lingua così asciutta, parlare di commozione, e in effetti è come se questi versi mi portassero rasente al pianto, mettendomi davanti «nuda la vita», e mi costringessero a non piangere.
Per me che non l’ho conosciuto Benedetti parla solo dalle parole che ha scritto, e dal volto che campeggia sulla copertina dell’edizione Garzanti di «Tutte le poesie». Credo che l’uscita di questo libro sia stata una scossa elettrica per un’intera generazione (la mia) di lettori di poesia. Nessuno degli amici con cui ho tirato le somme, a lettura conclusa, ne aveva ricavato un’impressione tiepida; si era formata intorno a questo libro un’unanimità di sentire che ho visto replicata molto raramente, in seguito.
C’è un ricordo molto nitido che associo alla prima lettura di Benedetti, anzi alle settimane in cui la medicina dei suoi versi aveva cominciato ad agire dentro di me: ero appena uscito da una cerimonia di commemorazione funebre, e il contrasto tra la cupezza dell’ambiente e lo sfarzo della celebrazione deve essere entrato oscuramente in cortocircuito con i versi di Benedetti. Mi sono sentito improvvisamente fuori posto dentro me stesso, tramortito dalla sensazione che la mia vita fosse colpevolmente impastoiata dentro le maglie di una falsa coscienza, di una retorica su me stesso, che le parole di Benedetti avevano appena scoperchiato, additandomi però una strada alternativa, più impervia e più autentica. Non so se ho dato risposta alla domanda di questi versi, ma il loro rigore e la loro umiltà, che sembrano venire dalla mano di un bambino molto severo, mi hanno ricordato quanto sia labile il confine tra una grande avventura estetica e il presagio di una conversione morale.
Venerdì Santo
Il cielo sta su nel pensiero di piangere.
Sulla strada
gli uomini sono andati metà muro, metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.
Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,
vorrei perdonargli di morire, cosa fare.
A sapere bene forse potrei dire:
anche per noi una visione intera
con uno specchio sopra, con un cielo.
Mi tengo al suo sguardo perduto
così particolare, così solo,
senza romanzi, con il campo che non è un mondo.
Non so andare avanti.
Ogni tanto
i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch.
Ogni tanto sogno bambini bellissimi
nell’acqua effervescente di una strada.
E io li vedo di schiena,
qualcuno ci vede,
io sono di schiena nei colori.
(M. Benedetti, da Umana Gloria, Tutte le poesie, Garzanti, 2017)