Fabrizio Bajec, “Nel migliore dei mondi”

Fabrizio Bajec

 

di Fabrizio Bajec

 

La crisi sanitaria che stiamo attraversando a livello mondiale è in fondo pur sempre una crisi sistemica, sul vecchio modello delle scosse che fanno cadere (metaforicamente) uno a uno i pezzi del domino, perché questa è la disposizione dei tasselli che è stata creata. Ed è, una volta di più, una lezione sia sulla fragilità della vita umana (l’effimero dei discorsi che stanno a zero di fronte alla morte), sia sulla cattiva organizzazione della vita sulla terra, quando si sceglie un modello basato sulla competizione di interessi contrapposti e la sopraffazione dei mastodonti ai danni dei nani (una multinazionale oggi può far piegare un governo). Ma la buona notizia è che si può trarre anche una lezione positiva di interdipendenza, se mettiamo da parte il lato oscuro della globalizzazione e pensiamo sempre in termini di co-esistenza (« io sono perché tu sei »).

Sulle prime, non abbiamo avuto il tempo di riflettere a piani di resistenza o disobbedienza civile di fronte all’imperativo di barricarsi dentro casa e portare con noi tutti i nostri cari. Abbiamo obbedito, ci siamo sottomessi, da bravi cittadini, reagendo per contagio con la paura, sentimento fin troppo umano, grazie a cui ogni tipo di potere regna incontrastato.

Per il suo intervento pubblico, al quanto rapido, Giorgio Agamben è stato linciato dalle critiche di chi vede in lui solo un filosofo senza cuore che vorrebbe spiegare astrattamente l’ordine del mondo con la biopolitica. Ma Agamben, almeno per me, non ha avuto torto ad alludere a una strategia dello shock, riproponendo la teoria dello stato di eccezione permanente come tattica di controllo sulle masse. Forse davvero siamo passati dal capro espiatorio terrorista, che giustifica la sospensione dello stato di diritto, al pretesto della contaminazione (altro modo di praticare il terrorismo).

Non voglio certo insinuare che il virus sia stato diffuso e fabbricato volontariamente, e nemmeno che sia stato sottovalutato da Agamben. Ma certo, l’intervento umano sulla natura e le leggi del mercato alterano la diffusione di un virus e gli equilibri economici mondiali. Così, statisticamente, il Covid-19 non ha mietuto più vittime della febbre spagnola di inizio Novecento, anzi. Ma la risposta dei vari governi è stata oggi senza comune misura più drastica di un secolo fa, perché l’assetto dei rapporti commerciali e politici è nettamente diverso da quello di allora; con tutte le fragilità che questi nuovi rapporti tra potenze imperialiste comportano.

La conseguenza della chiusura delle frontiere, del confino, delle attività sociali relegate agli scambi in rete, non è stata quella di farci sentire più responsabili ma più succubi e arrabbiati perché impotenti. Di qui lo sproloquio per mezzo dei social network sulla situazione inedita e globale dove chiunque sappia leggere e scrivere si sentiva autorizzato a filosofeggiare e a produrre scritti di circostanza (diari di clausura, poesie accorate, articoli d’opinione come questo!). Ci siamo sorpresi dell’insostenibile leggerezza dell’essere, abbiamo accusato il prossimo di giocare la parte dell’untore incosciente, applaudito al balcone chi rischiava (e perdeva) la sua vita per salvare col proprio lavoro i malati, mentre non eravamo scesi in piazza per denunciare le loro cattive condizioni di lavoro e i pochi mezzi a disposizione in tutti questi anni. Certo, abbiamo anche rimesso in discussione il nostro stile di vita, poco sobrio, ma questo esercizio non è di lunga durata. Ciò che abbiamo temuto, soprattutto, è la durata dello stato di eccezione: quando finirà questa distanza imposta? Per quanto tempo dovrò lavorare da schermo a schermo? L’essere umano non è fatto per l’isolamento, ci siamo detti, e abbiamo gioito nel vedere che grandi atti di solidarietà nascevano un po’ ovunque, con la raccolta alimentare e l’intervento di vere e proprie brigate volontarie, mobilitate per il sostegno dei più bisognosi. Siamo stati anche invidiosi di chi si è potuto muovere per le grandi ricorrenze (come in Grecia per il primo maggio, se a qualcuno ancora interessa).

Di certo, moltissimi di noi non hanno pagato troppo caramente le trasgressioni che altri scontavano sul proprio corpo quando la legge si manifestava violentemente nelle periferie delle grandi città. Il virus, dispiace dirlo (e basti l’esempio statunitense) non colpisce tutti democraticamente e non causa le stesse perdite in modo uniforme tra i vari strati sociali.

Ci siamo sottomessi, dicevo, e ne abbiamo provato forse una certa frustrazione, vergogna e collera. Ma a giudicare dal modo che abbiamo di compensare determinate mancanze, una volta tornati liberi, non posso aspettarmi un grande senso di responsabilità rinnovato dall’esperienza e all’orizzonte di un mondo nuovo.

Presi dai timori, quindi, siamo stati comprensivi e grosso modo rispettosi delle regole imposte, senza sospettare che il blocco dell’economia fosse uno stimolo artificiale per far ripartire la macchina con nuovo slancio, tanto peggio per le vittime (un genocidio della terza età, nuova disoccupazione di massa, danni psicologici collaterali, depressioni, traumi, femminicidi). E senza voler credere a un nuovo assetto delle forze in campo (economie in concorrenza), a un “nuovo ordine mondiale” in cui però l’1% continuava ad arricchirsi spregiudicatamente mentre altri rischiavano il contagio per uscire in gruppo a protestare contro la mancanza di viveri (in Libano, Cile, Ecuador, Bolivia, Brasile, ma anche negli USA). Ciò non potrebbe accadere senza rimescolare le carte anche sul terreno del lavoro, mettendo in atto nuove pratiche e sperimentando con lo smartworking, come su delle cavie, la possibilità di una maggiore esternalizzazione dei servizi in ogni campo, e di un controllo più stretto dei lavoratori, proprio grazie alla tecnologia.

Noi europei ci avviamo lentamente ma potenzialmente verso una mutazione culturale, non solo a livello professionale, ma della convivenza, dove il modello potrebbe essere la Corea del Sud (l’eliminazione dei tempi morti perché resi insopportabili dall’alta frequenza della connessione: più connessi, più soli e vulnerabili). Ergo: il vero regime totalitario non ha bisogno di confini nazionali, è profondamente liberale e viaggia leggero.

Rispettando un sacrosanto principio di libertà personale (si veda la Svezia, Gran Bretagna e gli Usa almeno all’inizio della propagazione del virus), ci si è detti che l’immunità di gregge era un’alternativa pericolosa alla quarantena, ma pur sempre un’alternativa; bastava disporre del numero sufficiente di test. Chi avrebbe rischiato di più, senza far grossi danni economici (poiché “improduttivi”) erano gli ultra sessantenni. Qualcuno negli Stati Uniti ha anche detto che non si poteva bloccare la macchina economica per una percentuale ridicola della popolazione a rischio. Questo la dice lunga sulle priorità di un governo (di qualunque governo, aggiungo io). Discriminare, dividere, per meglio regnare. Same old school.

Ma se non si è tentata, se non raramente, l’immunità di gregge è solo perché la via non era percorribile senza compromettere, in altro modo, l’equilibrio economico di quei paesi, non certo per compassione di fronte al numero dei morti in ascesa.

La compassione l’abbiamo provata vedendo e rivedendo le immagini di aeroporti adibiti a camere mortuarie o di medici che chiamavano aiuto e pregavano i cittadini di rimanere a casa, mentre altri non potevano dare degna sepoltura ai loro defunti. Mossi da questo sentimento, alcuni hanno scritto, come dicevo, liriche, cronache (anch’esse liriche) e articoli di riflessione per non soccombere all’alta produzione di sentimenti negativi.

Fra questi vi erano anche poeti e filosofi.

Forse uno dei testi che mi è rimasto più impresso e rassicurato nel senso peggiore, all’inizio della quarantena in Francia ( metà marzo), è stato quello di Alain Badiou. Con pacata e stoica sicurezza affermava che nulla di sostanziale sarebbe cambiato in campo politico con l’uscita dallo stato di eccezione. Le logiche sarebbero rimaste le stesse e il nuovo giorno avrebbe avuto un sapore già noto, con qualche problemino in più.

Nel frattempo abbiamo letto un certo numero di articoli di fondo, dal carattere umanista, petizioni, manifesti, bilanci e inviti a riflettere intorno allo stesso interrogativo: che mondo vogliamo domani ? Cosa ci mettiamo dentro?

Io da poeta rispondo che non mi faccio garante di valori strettamente europei; anche perché nessuno oggi sta aspettando un mio contributo decisivo in questo ambito. So solo di aver a che fare con una lingua (o due) in perenne movimento e ibrida. Devo starci a cavallo facendo attenzione a non cadere e a non far cadere le braccia di chi mi legge. Per puro caso, qualcuno potrebbe individuare e perfino nutrire qualche speranza, tra un verso e l’altro, o essere sicuro che quel testo, proprio quello, sia un toccasana per uscire provvisoriamente dalla propria alienazione, e dunque sentirsi meno solo.

È qualcosa che noi umani sappiamo ancora fare. Quando Google avrà rimpiazzato ogni arto del nostro corpo e funzionalità del cervello, non so se saremo ancora in grado di procedere allo stesso modo, cioè per via analogica. Ci stiamo effettivamente appoggiando un po’ troppo alla tecnologia, dimenticando che questa serve in primis a chi l’ha costruita, con intenzioni che non corrispondono alle nostre. Affinché rimanga al nostro servizio non dovremmo fare salti mortali o passare per forza esami di programmazione informatica, e ancor meno metterci in quarantena a causa di una qualche assuefazione al mezzo. Basta chiedersi se si ha profondamente bisogno di questa o quell’applicazione, senza dover deludere poi qualche amico.

Un passo di un famoso romanzo di Jack London diceva (ne faccio la parafrasi): « Non occorre distruggere le macchine che ci rubano il lavoro, ma espropriare chi ci obbliga ad usarle, per poi servircene meglio. Perché è vero che fanno risparmiare tempo e denaro ».

La tecnologia è infatti prima di tutto la produzione (capitale) di un’impresa e la rappresenta. Le imprese (quelle transnazionali – dunque più estese di una nazione) sono le interlocutrici privilegiate dei vari Stati. Non si può avere paura di essere controllati e vedere la propria libertà minacciata da uno Stato e dimenticare che il medesimo potere è esercitato da un impresa privata ( a volte al servizio di uno Stato, se non viceversa). Non si diceva forse una volta: « il diritto si ferma alle porte dell’azienda »? Anche grazie all’essenziale legislazione di un apparato statale, certo.

Un amico praticante zen di lunga esperienza mi ricordava qualche anno fa: « In un sistema economico, culturale e politico che mette al centro del proprio funzionamento il profitto non può esservi nulla di pensato per il puro benessere della comunità ». Pensiamo solo a come l’industria farmaceutica francese Sanofi abbia deciso di privilegiare gli USA come destinatario dei primi vaccini contro il Corona Virus, dato che gli Stati Uniti sovvenzionano meglio di chiunque altro la ricerca in quella ditta. O ancora a come è stata insabbiata in Francia la terapia a base di clorochina, forse perché non abbastanza redditizia.

Per concludere, il mondo del giorno dopo cambia e non cambia, se si considerano le premesse fissate almeno dalla Rivoluzione industriale in poi. La scrittura può essere un atto di resistenza, come quello di formare una catena umana intorno a una piazza, per proteggere un bene comune o bloccare un’attività commerciale pericolosa per l’ambiente. Scrivere è una responsabilità che però fa meno danni, in proporzione, rispetto a un’industria insalubre o a un governo che vuole rendere a tutti i costi competitivo il suo paese. I rischi sono nettamente minori, quindi non potrei celebrare seriamente la nascita di una nuova internazione fatta di poeti post Covid-19, neanche immaginandomi di dover tenere un giorno un discorso davanti alla giuria di Stoccolma. Sono convinto però che si continuerà a leggere Celan e Bukowski in molteplici traduzioni quando la mia generazione sarà scomparsa.

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