Fabio Ciriachi, “Una grigia e sottile pioggia obliqua”

Fabio Ciriachi, credits ph Dino Ignani

DI FABIO CIRIACHI

 

 

Ho visto il segreto della scrittura! L’ho visto a forza di leggere e leggere nonostante gli equivoci che la cosa comporta, l’ho visto dopo aver perso tempo a cercare il dettaglio sbagliato nel posto sbagliato, ad amare forme deformanti, a pretendere la risposta quando mancava la domanda. L’ho visto mentre seguivo argomenti tutti in apparenza buoni, e invece tutti prossimi a concludersi nel nulla; stelle spente che non curavo neanche con un minimo di funerea pietà.

Averlo visto è stato destabilizzante. Mi ha spinto a chiedermi, addirittura, se non fosse meglio la miopia; soprattutto davanti a cose simili a quella appena vista. Da miopi, si possono utilizzare cartografie di facile uso; i luoghi dove giudicare e essere giudicati non mancano e sono sempre molto frequentati, ci sono giochi condivisi, ruoli un po’ egemoni e un po’ gregari, niente di particolare, quanto basta per avere voce in capitolo in qualche singolo capitolo, e per non averne in quell’opera dove tutti i capitoli sono occupati da altre voci che però, dopo aver detto la loro, lasciano il posto a chi vuole dire la sua, e si può tornare a fare una nuova lettura dell’opera o di qualche suo capitolo che magari includa nuove sfumature di senso, campi di vocalizzi anche incolti dove di sera sia possibile sentir risuonare domande non proprio capitali ma capaci di suscitare un certo interesse, tipo quanto umanesimo c’è (o c’era) nel futurismo? E altre che non dico, tanto è lo stupore per quello che ho visto, inimmaginabile fino a qualche ora fa quando, dal letto, guardavo con un po’ di magone il giorno scolorire contornato dal rettangolo della porta-finestra spalancata. Poi, senza neanche dover riprendere in mano il libro, ma solo rimuginando intorno a qualcosa appena letta, improvvisamente ho visto.

Di sabato sera, in questa fase critica del post-isolamento che porta con senso di responsabilità il numero 2, fra tanti che scalpitano per tornare a com’era prima e tanti che, come me, ancora faticano a trovare un motivo per rimettere il naso fuori e starci bene, la mia scoperta rischia di passare sotto silenzio. Benché degna del più motivato degli eureka, infatti, finirà per interessare solo pochi addetti ai lavori e qualche isolato cultore della materia, e il motivo è semplice: la sua grande divulgazione potrebbe fare tabula rasa non solo di ogni diritto acquisito e di ogni posizione raggiunta nella gerarchia delle discipline letterarie, ma cancellerebbe anche tutti i quotidiani percorsi estetici sui quali in genere si passa distratti, quasi con la coda dell’occhio, tanto sono entrati a far parte di un’abitudine che, per pigrizia, pochi vorrebbero vedere alterata; soprattutto nel modo dirompente in cui lo farebbe la mia scoperta.

In altri termini, bisognerebbe non avere niente da perdere per avventurarsi in questo svelamento; oppure si dovrebbe amare così tanto essere strappati a sé stessi e dislocati d’imperio davanti a qualcosa di inimmaginabile da non considerare come perdita i piccoli privilegi al cui fuocherello “freddo” si dava per scontato di trascorrere l’intera esistenza, con buona pace per le conversioni e per i satori che non saremo capaci di regalarci in questa vita.

Non è una scoperta comoda. Intanto, perché i critici, qualora la prendessero sul serio (cosa che non accadrà), dovrebbero misurarcisi in modo fortemente problematico, tale è il ribaltamento prospettico che ne conseguirebbe; anche se questo, a ben vedere, non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile, dal momento che tutte le prospettive critiche sono nate e fiorite all’ombra dei più feroci antagonismi. Soprattutto non è una scoperta pratica, di quelle che si portano dietro il libretto delle istruzioni su come renderla applicabile. Nessuno, grazie a quanto ho visto, potrebbe imparare a scrivere; alla scrittura non si possono togliere le sue difficoltà, non ci si può arrivare per scorciatoie, nessun regalo in un campo dove, paradossalmente, qualunque regalo si trasformerebbe in un danno, giacché la priverebbe di quel corpo a corpo con l’angelo che solo le infonde forza persuasiva. Attraverso quello che ho visto, sarà possibile, invece, riconoscere una scrittura che vale.

Temo di aver esagerato in preamboli, ma se ho preso tempo è perché avevo bisogno di trovare un modo di parole capace di raccontarla con chiarezza alla prima definizione, la mia scoperta, senza ombre e reticenze a rendere necessarie parafrasi o altri accorgimenti retorici. Ecco, allora, che cosa ho da dirvi.

Partiamo dall’immagine della pioggia, che è l’evento attraverso cui si attua la verifica; e dalla constatazione ovvia che ciascuno abbia un vasto repertorio dei diversi tipi di pioggia, custodito nel proprio immaginario: piogge viste da dietro una finestra o mal sopportate per la mancanza di un riparo, benedette piogge stive o disastrose “bombe d’acqua”, crachin sotto cui passeggiare con la mantella giusta o rovesci primaverili ubriachi di sole improvviso. Tante, che sarebbe impossibile nominarle tutte. Per non parlare dei loro odori.

La pioggia che dovremmo vedere, al cospetto di una vera scrittura, è quella sottile, fitta, inclinata di quarantacinque gradi rispetto alla terra, una pioggia grigia che ricorda sottilissimi graffi paralleli e inclinati di quarantacinque gradi rispetto alla base, incisi su una lastra di zinco dopo il bagno nell’acido. Una pioggia che si fa velario tra il guardare e l’oggetto della visione.

Ecco il segreto, dunque: la scrittura è giusta quando, strizzando appena un po’ gli occhi dopo aver avvertito qualcosa d’insolito nel leggere, si vede dapprima quella pioggia sottile, fitta e inclinata di quarantacinque gradi e subito dopo, frugando tra le forme appena definite intravedibili dietro il velario d’acqua, ci si sente prossimi a qualcosa che, per importanza, va oltre la scrittura. Ma ciò che sta dietro quella cortina d’acqua, non può essere oggetto di nessuna trattazione. Appartiene al campo dello strettamente personale, dell’epifania il cui unico racconto sarebbe l’irripetibile congiunzione tra mancanza e presenza nell’intimo di chi la vivesse.

Immagino l’orrore dei critici di fronte a parametri così poco organizzabili in metodo. Se non ricordo male (ho fatto il possibile per dimenticare, ma invano), hanno già bollato come inaffidabile tutto ciò che attiene ai sensi. I sensi, per certi logici, sono arbitrari e soggettivi (il che è vero, ma non tanto da demonizzarli); il metodo critico, fondato sull’analisi attraverso varie applicazioni dell’intelligenza, invece, sarebbe più affidabile e dotato di una, sia pur temporanea, oggettività. Quindi, da preferire. Certo, ma perché non concedersi anche altro? Alla peggio si rimane delusi, non si trova nulla d’interessante. La cosa finirebbe lì.

La mia scoperta non pensa di sostituirsi a nessuna griglia critica. Suggerisce, soltanto, di essere messa alla prova. Il che non richiede strumenti particolari. Mentre leggete, laddove ciò a cui state affidando la vostra attenzione e sensibilità sembrasse contenere qualcosa in più di quello che siete abituati a prendere in considerazione, provate a strizzare un po’ gli occhi, tra voi e voi, neanche sulla pagina, ma sull’atto stesso del vedere, e se per caso ne derivasse la visione di una grigia e sottile pioggia obliqua, continuate a fissarla. La pioggia è il segno che ci siete ma è anche il velario, l’ostacolo. Prendete tempo. Con un profondo senso di gratitudine per le cose lette nel libro (che vi stanno permettendo tutto ciò), cominciate a frugare con gli occhi oltre il velario. A questo punto mi fermo. Se idealmente ho potuto guidarvi nella fase preliminare dell’esperienza, da qui in avanti sarete soli. Non avete scelta, comunque vadano le cose.

La goccia che scava la pietra, con la sua ammirevole lezione di come l’impalpabile possa vincere la durezza, non può trasmettere la sua sapienza a un simile esercizio della vista. Qui non si tratta di insistere. Qui la prima arte richiesta è quella del frugare utile, che vuol dire penetrare con delicatezza (per non alterare l’insieme) negli spazi vuoti tra gli elementi dell’ostacolo. La seconda arte richiesta è quella della pazienza, indispensabile a tenere viva l’attenzione per il tempo necessario ad accostare tra loro informi parti mancanti fino a quando non avranno imparato a rivelarsi come elementi costitutivi di un intero. La terza arte, infine, è il coraggio, perché non è detto che quanto si sta per vedere sia dalla parte dello stupore che potremmo definire gaudente. Può esserci di tutto, lì dietro, e occorre immaginarsi pronti ad affrontare, con la giusta fermezza, anche la peggiore delle passioni.

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