Ghiannis Ritsos, il mestiere del poeta

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Di non molti altri poeti nel Novecento si può dire che abbiano assolto al loro primo mestiere — la poesia, appunto — giornalmente, quasi con la puntualità di chi sta timbrando un cartellino. Ghiannis Ritsos, classe 1909, originario del borgo peloponnesiaco di Monemvasia, tra i massimi autori della cosiddetta letteratura neogreca, è certamente uno di questi. Desta ammirazione, per non dire commozione, il paziente annotare (con strizzata d’occhio al lettore mon frère) le date, i giorni in rapide sequenze che sapidamente lasciano intravedere persino la combustione, l’acme e poi l’esaurimento di una vena espressiva non soltanto vorace, ma altresì iterabile nei suoi cangianti risvolti lirici. Di questa triplice silloge in un unico libro, in un conchiuso stigma, corredata della preziosa introduzione di Louis Aragon(mutuata a sua volta dall’edizione gallimardiana del ’71), sappiamo che è stata scritta tra il ’68 e il ’69, nel torno di tempo in cui Ritsos «era confinato nei campi di concentramento sulle isole di Ghiaros e Leros, e poi soggetto a domicilio coatto a Karlòvasi, nell’isola di Samo». Su tali pagine solide e saline, cariatidee e corrose dal flusso puntellatore del divenire, pesa il lusinghiero giudizio di Aragon, il quale suggerisce con un certo entusiasmocome Ritsos sia «il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro».

Sicuramente Ritsos è un maestro nell’equilibrio (tutto modernista, eliotiano) tra la quotidianità e il risorgere sommesso della storia, del mito («Forme mobili, disfatte; — l’inquietudine molteplice/ e la fluidità insidiosa — sentire il rumore dell’acqua tutt’intorno/ imponderabile, profondo, incontrollabile; e tu stesso incontrollabile,/ quasi libero», Disfacimento). L’orecchio di Ritsos, allenato alla camusiana pensée méridienne, sembra adoprarsi a un ascolto furtivo, che spesso ha il carattere rivelatorio dell’occasione («Soffiò un vento improvviso. Le pesanti persiane cigolarono./ Le foglie si sollevarono da terra. Fuggirono via./ Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste adesso», Con queste pietre). È possibile ravvisare un’evoluzione intrinseca, una nuova consapevolezza nelle poesie diaristiche che vanno dalle Pietre alle Sbarre? Be’, innanzitutto, c’è un’evoluzione materica, in senso letterale e letterario, dunque stricto sensu (ossia al di là di ogni materialismo storico, benché siano note le posizioni ideologiche del poeta greco, la cui candidatura al Premio Nobel fu letta in maniera pregiudiziale proprio a causa del suo orientamento politico).

C’è un passaggio — nei giorni di transito da quel 27 luglio 1968, momento di stesura dell’ultimo testo della prima parte, al 3 giugno 1969, dì di chiusura del libro — dalla roccia al metallo, dalla muratura alla prigione. Passaggio tanto più sostanziale, quanto più organicamente colto in negativo, ribaltato se non altro dalla consueta antinomia del dire poetico che paradossalmente assegna alla prima, aforistica tappa finale (la lirica appunto del 27 luglio 1968) il carattere di Epilogo («Vita, — una ferita nell’inesistenza») e allo scatto conclusivo uno slancio (quasi montaliano, si ricordino le Riviere degli Ossi) di Rinascita: «Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure/ quest’anno — maggio, giugno — è rifiorito da solo, […] tanto che la donna uscì di nuovo/ a dare l’acqua col suo vecchio annaffiatoio — di nuovo bella,/ serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino/ la nascose fino alle spalle, l’abbracciò, la conquistò tutta;/ la sollevò tra le sue braccia. E allora, in pieno mezzogiorno vedemmo/ il giardino e la donna con l’annaffiatoio ascendere al cielo —/ e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell’annaffiatoio/ ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra». Questo passo non può non rammentare la KoimesisTheotokou di tradizione bizantina (la Dormizione/Assunzione di Maria) negli occhi svasati di un laico che, dentro l’acuta fissità delsimbolo, scorge l’Eden in volo (il «giardino» che potrebbe effigiare la condizione sine macula di Maria) e la donna rapita in alto, in un cielo pluvio dal quale cadono gocce di estatica rinascenza. È evidente, Ritsos da abile maneggiatore d’immaginilavora sui simboli, il suo atteggiamento non è devozionale: eppure, ne scardina la rigidità, come ogni vero poeta, ne restituisce la freschezza umana. E divina.

Ghiannis Ritsos, “Pietre Ripetizioni Sbarre”, a cura di Nicola Crocetti, prefazione di Louis Aragon, Crocetti-Feltrinelli, pp. 176, € 16

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