DEDICA
Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io, credo, ti aspetterò
in una sala come questa o migliore. E ci sarà un momento
in cui questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.
Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, considerare la torsione
degli astri che comprime la notte
ricordandoci il sottile discrimine
tra l’esistenza e la mancanza, l’ostensione
delle distanze cosmiche tra i radiofari.
Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, conoscere il nome delle piante
che mettono un balzo verde tra le discontinuità
del porfido, dell’asfalto. Se ci cerchi
l’osmanto o lo statice troverai la pratolina
e la mammola. Bisogna saper riconoscere
i segni premonitori di un rigido inverno e
tirare avanti, fare come i giardinieri planetari che,
anche se non li hai mai visti, non vengono meno
al loro dovere. Non sono degli spettri
quelli che pettinano l’erba del prato, nel parco pubblico,
quelli che la pareggiano eliminando ogni discontinuità.
*
Oggi me ne sono rimasto ad ascoltare il rumore
del mio respiro e il dolore dei miei occhi.
Il contrappeso della gru era un diadema
incastonato nella fronte del cielo, un vetro
silenzioso e immobile. Mi pareva di leggere,
nella sua presenza, un senso di rimprovero.
Si trovava a una ventina di metri proprio
sopra alla mia testa. Attendeva. Ci siamo fissati
per un bel po’, lui e io. Fino a quando non ho sentito
gravare su di me le cifre, le misure ineluttabili.
Abito una pietra imbalsamata nell’acqua.
Tutto ciò che la circonda àltera, in ogni momento,
le sembianze; si rinnova ma, ai miei occhi, rimane
sempre uguale. Ciò che so di me stesso è poco,
ancora meno io conosco voi. Sto parlando
di un rapporto, il rapporto che unisce il poco
che si assomma e che, allo stesso tempo, se ne va via.
Che, in ogni momento può esserci tolto e non tornare.
*
Questo pomeriggio facevamo il gioco dei litigi
e quando lei se ne è andata nell’altra stanza
sono rimasto sdraiato sul pavimento della camera
a guardare il soffitto per un po’. Di questi tempi
teniamo le finestre di casa chiuse, tirate le tende,
le tapparelle abbassate. L’avviso di giacenza
della raccomandata attende sulla mia scrivania,
sta sotto a un mucchio di altre carte. La colpa
non è degli zombie. Il comune sta sfrondando
gli alberi del circolo ufficiali prima che ci siano foglie verdi
da ogni parte a dare ombra e freschezza. Questo rumore
non si può sopportare perché va avanti ininterrotto.
Già il rumore delle macchine ferme al semaforo se ne sta sotto
come l’elettricità che scorre nelle pareti. In più, la polvere
del legno entra dentro casa attraversando fessure
invisibili e ingiallisce ogni cosa. Ho fissato così a lungo
quel soffitto che a un certo punto ho iniziato
a vederci impresse delle stelle. Mi girava la testa
e c’era sempre quel rumore. E in mezzo alle stelle
sono comparse delle navi spaziali, l’Enterprise del capitano
Kirk e altre ancora, poi dei flash rosa e verdi
hanno mischiato tutto quanto fino a quando
non ho chiuso gli occhi. Mi sono sentito senza peso.
Come se qualcuno avesse rimosso improvvisamente
il nucleo della terra. Il rumore era ancora più forte,
più insistente, senza che per un momento un po’ di silenzio
ci galleggiasse sopra come una zattera alla quale
potermi aggrappare. Ho stretto forte le palpebre e le ho riaperte
solo dopo pochi secondi, davanti a me c’era il solito soffitto
e nel centro la plafoniera azzurra.
Non c’è l’ascensore e bisogna sistemare
gli impianti; è tutto come avevamo scritto
nell’annuncio, c’è da rifare il bagno,
e ricavare l’accesso alla mansarda –
abbattere qualche tramezza; forse i pavimenti
in graniglia si possono salvare.
Il prezzo è buono, lo capisce da solo;
siamo comunque a due passi dal centro.
I proprietari avrebbero già trovato un’altra
sistemazione: devono andarsene.
Un piano-terra non molto distante.
Hanno urgenza. La prego di non prestare
attenzione al mobilio, alle scatole, c’è
tanta roba in giro e le gabbie con uccelli,
spero le piacciano gli animali.
Ci accoglie sorridendo, sembra un’anfora
rovesciata. Si sorprende che il cane
non si sia messo ad abbaiare, non devo
legarlo neanche. Mani da bambina: fredde
e piccole, due pesciolini bianchi. L’agente stringe
un fazzoletto di carta sul naso; sono profumati,
mi dice, ne vuole uno anche lei? Mi porta
a vedere il balcone. Stiamo in silenzio
per qualche secondo mentre l’aria dell’esterno
si sostituisce a quella dentro di noi,
la pioggia fa comparire un pettine
nella calce, sulla scuola. I gerani sono
ossicini di pollo, il basilico
è ferro bruciato. I cavi delle parabole,
delle antenne si aprono come una gonna
ai lati della balaustrata, alcuni sono assicurati,
con le fascette, ai montanti, mentre altri
dondolano come steli incapaci
di sostenere il peso di un frutto.
Durante la notte lei appoggiava la schiena
sul mio petto ed era così che stavano le cose
per lungo tempo, un intreccio lento di creta
confusa rimodellata nel sale. La nostra nave
tagliente e pallida. Un estuario dall’acqua
torbida ci accerchiava allontanando da noi
scadenze e previsioni. Per le strade non
sarebbe andato nessuno ancora per alcune ore,
la stanza, la casa, il quartiere, la città e noi soli
addormentati come annegati; è un abisso
ora inaccessibile, quello degli annegati ricongiunti.
Nel buio avevi raccolto dei fiori ma
non eri stata capace di riconoscerli,
erano fiori bellissimi, avevi detto – anche se
non avevi potuto portarli qui, svegliandoti.
Fossimo stati nello stesso buio
ci saremmo aiutati a vicenda – al mattino
avremmo scritto, a turno, delle sillabe.
Tu una, io quella seguente; ce lo eravamo detti
fermi in tangenziale: per fare un nome
servono almeno due persone, per disfarlo
il silenzio di uno solo.
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Francesco Maria Terzago (1986) vive alla Spezia città di confine tra Toscana e Liguria.
Caratteri (dicembre 2018), Vydia Editore, prefazione di Gian Mario Villalta, è la sua raccolta diversi, vincitrice del Premio Elena Violani Landi dell’Università di Bologna – sezione: Opera Prima.
Sue poesie sono uscite in riviste, tra le quali: ClanDestino, Italian Poetry Review, Nuovi Argomenti.