NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA
Come si è osservato da più parti, nella sua breve carriera, Gabriele Galloni ha ricevuto notevole attenzione critica, sia per quanto riguarda il valore dell’opera che la sovraesposizione della figura e l’ostentato narcisismo del suo autore. Ma le due cose stanno insieme, come due facce dello stesso foglio di carta ormai consunto, che è diventato da tempo file di testo, sovrascrivibile in un elusivo sottotraccia: ed è questo il primo punto che caratterizza la poetica di Galloni. Il suo essere nativo digitale.
Erede della tradizione lirica come qualcosa di defunto e trapassato, di cui egli raccoglie le spoglie e i profili sparsi, gli echi, le schegge dell’aura, come un testamento o un legato con cui fare i conti. Perché ogni eredità la si conquista, la si abbraccia o stritola, a seconda dei casi, la si irride nel mentre la si onora, la si volge in parodia, meglio ancora se nessuno se ne accorge. E’ questa la posta in gioco specie a un passaggio epocale, dove il rapporto fra tradizione e talento individuale si fa più problematico, come già T.S. Eliot, in un saggio ben noto, aveva perspicuamente e definitivamente sancito. Tutto ciò che è venuto dopo da parte della critica, l’ “angoscia dell’influenza” e tante altre cose amene è solo una glossa a margine di quel breve saggio di neanche dieci pagine, in cui il giovane poeta che ha inaugurato il modernismo europeo, mettendo in scena in una ridda di profili La terra desolata, il disincanto del mondo, dopo la ferita del primo dopoguerra, la cui cicatrice avrebbe segnato a vita il secolo breve, il maledetto mitico Novecento.
Anche Galloni è un giovane poeta, venuto un secolo dopo, in una situazione completamente rovesciata, di stasi e di narcosi, dove ogni tragedia è preclusa allo spirito del tempo, inflazionata dai media al punto da diventare farsa nel migliore dei casi, o peggio di creare assuefazione in un dormiveglia postprandiale davanti alla TV.
Immagini su immagini riviste, nelle nostre Notti di pace occidentale, naufragi con spettatori che moltiplicano l’archetipo discusso da Blumenberg in una foresta di specchi. Quando tutte le risorse del linguaggio sono state saggiate ed esaurite, bruciate dalla prepotenza delle immagini e dalla derisoria sfilata dei simulacri che confondono la parola e la cosa senza residui, e senza remissione.
E’ questa la condizione del poeta nei primi decenni del nuovo millennio: l’essere erede di una tradizione ormai passata in giudicato, come una sentenza illeggibile sul nostro destino. E la sua missione è quella di porsi su una traccia cancellata, come un segugio, fidando nei suoi spiriti animali, o se si vuole come un cyborg progettato a tempo breve, braccato da mille cacciatori di replicanti che ne reclamano le spoglie, fuggendo sempre sul filo della lama del rasoio, come un Blade Runner, che ha visto “cose che voi umani” neanche osate immaginare, per salvarvi, perché “il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Quattro Quartetti).
In questo dialogo fra due poeti di statura incomparabile, in molti sensi, che brucia il tempo e lo trasforma in epoca, pura sospensione fra battute di una melodia arcana, dissoluzione auratica di ogni cronologia, di ogni cronaca e storia, indicibile diafano effetto di atmosfera, Stimmung (con tutta la polifonia e il carico semantico della parola tedesca) e stigma impalpabile sul corpo teatro di chi si fa testimone, magari suo malgrado, sacerdote e vittima, paria e capro espiatorio, di colpe che non solo lui ha commesso.
Parte maledetta di un insieme che su di lui si regge a malapena, nelle spirali del sacrificio, dove ciascuna volta, come ne La colonia penale di Kafka, bisogna reimparare la Legge, servi e signori, nella trasfigurazione del volto del prigioniero, alla dodicesima ora, quando l’erpice ha affondato abbastanza il suo uncino nel corpo vivo (punto di svolta, piega e chiasma della carne del mondo) e l’urlo attende la sillabazione. E’ così che il gioco della presenza e della traccia a più riprese si inscena, creando spazi vuoti di storie da riempire, gesticolazioni, graffi sulle pareti delle grotte, graffiti sui palazzi cittadini, tatuaggi sui corpi adolescenti, segni di un passaggio sempre soggetti alla cancellazione.
Cicli e ritorni, certo, ma con una differenza (quella che segna l’epoca come la sua dominante) e questa è sempre di ordine tecnologico e anzitutto mediale. Perché la nostra cultura, quest’insieme di discorsi che si incrociano e collidono, questa polifonia o babele, dipende anzitutto da ciò che è a portata di mano dell’ominide, selce o fuoco o che altro, ossia dalle tecniche volta a volta disponibili e da cui si sviluppa poi i regime dei simboli: tavolette d’argilla, papiri, carta e penna, fuoco e coltelli, microchips di silicio, fotogrammi passibili di ritocco, in attesa di montaggio o di espunzione. Qui e ora, nel cuore dell’epoca, c’è la protesi che articola il discorso.
Galloni è un testimone del proprio tempo: un editor digitale esperto e nel contempo un corpo d’anima gettato nell’aperto di questa nuda vita che ci stringe da ogni parte, rompendo gli argini, confondendo i confini, in un’onda crescente di migrazioni. Che fanno tutt’uno poi coi meticciati, di razza, di sesso, di generazione, di agonia. Abile e coatto promotore della propria immagine sui social, certo, in una costitutiva indistinzione con la propria opera: perché questo è il segno dei tempi.
Egli è Narciso ed è l’ideatore dello stagno onirico artificiale dove si specchia per naufragare. Stagno domestico, figura abisso della casa dell’essere dove “poeticamente abita l’uomo” (Heidegger). Mescolatore di confini, fra la terra e il mare, sonno e veglia, luce ed ombra: e di colori e sfumature, adombramenti di tutte le cose che non si fanno mondo . Guazzando in questa mescola di colori e forme, “un dio che scalcia nella cancellazione” (Ibello), Galloni stabilisce il nuovo paradigma della indistinzione tra vita ed opera del poeta, quasi fosse un novello Orfeo che si è volto troppo presto sulla soglia dell’invisibile per poter persino ricordare i tratti della sua Euridice, orribilmente oscenamente deformati in forme di amnesia e di perversione.
Impossibilitato a definire, per troppa trasparenza, l’oggetto del proprio desiderio, che permane pertanto preda dell’onnipotenza infantile e androgina del Fanciullo divino di tutti i miti, ma ora orribilmente mutilato nei ritagli e prelievi, nei ritocchi e cancellazioni dello smartphone che tiene in mano. Fra gli oggetti cari a Dioniso bambino, che gioca ignaro in attesa di essere fatto a pezzi dai Titani, nel più antico dei miti fondatori, bisogna infatti ora aggiungerci senz’altro questo cellullare, giocattolo ubiquo che azzera le distanze e sdoppia la presenza, facendo terra bruciata di ogni composizione di luogo, di ogni esercizio spirituale nel chiuso di una stanza, di ogni processo di individuazione nell’isolamento. E se il Novecento, nelle belle arti specialmente, a partire perlomeno da Duchamps e dall’arte concettale, è stato il secolo della promozione della figura dell’artista piuttosto che dell’opera, questo nostro nuovo secolo è quello della indistinzione dei confini di opera e autore, e più in generale di vita e forma.
Per questo il narcisismo di Galloni è pienamente funzionale alla sua poetica, e il suo esempio chiarisce un paradigma epocale già invalso. Il suo provocatorio esibizionismo è l’equivalente transumano dell’offerta della propria voce-immagine alle Menadi da parte di Orfeo perché lo strazino sicché i suoi lacerti e prelievi, fecondino la terra per quanto riarsa, perché la sua parola già fatta eco da tempo, resa orfana in un lungo processo di uccisione dei padri, e il suo corpo già fatto ostia in una svolta precedente della storia, possa ancora una volta quasi per miracolo rinnovare il sacrificio e la trasfigurazione in una “tersa morte”, senza spargimento di sangue.
Da ciò che Galloni ci ha lasciato, dalla sua Creatura breve, è da apprendere anzitutto questa cancellazione e ritocco dei profili, quest’arte del ritaglio e del prelievo, questa fusione dei confini tra vita e forma, e infine questa risoluzione dei frammenti di una divinità sovraesposta in puri effetti di atmosfera, Stimmung che segna L’Estate del mondo, l’infanzia catatonica del tempo avvenire, “il mese placido, tempo che viene” , nel ritornello che attraversa tutta l’opera di Galloni, facendone una rêverie di morte e rinascita. Dopo l’estrema contrazione fotogrammatica di Creatura breve, l’Estate del mondo appare come il Big Bang di un’epoca nuova.
Quale sarebbe stata nella poesia di Galloni, purtroppo non possiamo dirlo. Quale sarà nella storia lo diranno gli Altri.
Note
“Scopro Narciso dentro il bagno, emerso/ dallo stagno del pavimento in marmo./ E’ un ragazzino muto. Già si è perso.” Creatura Breve, Ensemble, 2018, p.22.
E’ questo:/ che il mondo/ diventa le cose.
Le tante/perdute.” Ivi, p.19.
Slittamenti, p. 51; L’estate del mondo, p. 77.
Articolo veramente interessante che offre molti spunti sulla figura di Gabriele Galloni. Condivisibile e profondo anche il pensiero portante sul “narcisismo” del ragazzo. Vorrei condividere però un aneddoto: quando ho avuto modo di incontrarlo di persona per la prima volta, non mi ha parlato di sé, bensì mi ha chiesto la mia personale idea di poesia… Caratteristica incredibile di Gabriele era infatti anche una rara empatia.