di Monica Acito
La conquista dell’Italia minore, quella dei borghi e dei grappoli d’azzurro pescati sui fondali marini. La rivincita della lentezza, del tempo dilatato e dell’odore dei limoni. “Procida, la cultura non isola”: questa è la formula del dossier che ha incoronato Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Ma Procida in quanto isola ci ricorda anche che ognuno di noi è un’isola, insondabile, irraggiungibile, impenetrabile, da difendere, da tutelare come bene assoluto. Ed è la prima volta che una piccola isola ha trionfato, sbaragliando una folta concorrenza. Procida si è laureata Capitale Italiana della Cultura per tante ragioni, ma vi è anche una motivazione poetica, una radice al di là del tempo.
Non è stata decisiva solo la dimensione patrimoniale e paesaggistica, e nemmeno la possibilità di uno sviluppo sostenibile delle realtà isolane e costiere del Paese: a fare la differenza è stato, anche a detta della giuria, soprattutto il messaggio poetico che scaturisce da questa scelta. Una piccola isola che punteggia il golfo di Napoli, che brilla in mezzo al mare e colpisce, con la sua luce, tutta la penisola; un puntino che pulsa di vita, che insegna che la cultura non dipende dalla posizione geografica, ma dalla vocazione e dalla volontà di costruire un discorso comune. Perché la cultura non è isolamento o esilio; non è soltanto un orpello da indossare col vestito buono della domenica, o un trofeo da tenere su una mensola per impressionare il proprio interlocutore. La cultura è sale marino, villaggi di pescatori, sudore e orizzonti tremolanti di mare; la cultura è fatta di storie che attraversano le grotte e le insenature di un’isola e che diventano eterne, magnificando se stesse nel momento stesso in cui prendono corpo. L’isola non è soltanto un coagulo di terra e rocce, che svetta in mezzo al mare: possiamo affermare, con orgoglio e una certa dolcezza, che l’isola è un vero e proprio genere letterario.
Al di là del nome: che si chiami Procida, Ischia, Capri o Itaca, l’isola è sempre Madre e mai matrigna, un ventre a cui tornare per ritrovare quella vita ancestrale che solo la poesia può rievocare.
L’orizzonte letterario dell’isola di Konstantinos Kavafis è Itaca: un approdo, un punto d’arrivo, ma anche un posto del mondo dal quale ripartire, un luogo che ha l’odore dello iodio e la crudezza della libertà. Kavafis viaggia per scoprirsi e liberarsi, e l’isola diventa il suo corrispettivo terrestre.
Sì, perché l’isola, a prescindere dal nome con cui viene chiamata, è la meta finale del nòstos (νόστος): il poeta si mette in viaggio, solca il mare e lascia dietro di sé scie d’inchiostro. Alle rocce affida i suoi segreti e la dimensione dell’isola gli riconsegna sempre la verità luminosa e incandescente. Cosa rimane alla fine del viaggio verso l’isola? Gli rimane proprio il viaggio, che è il più prezioso dei doni da affidare all’immaginario del poeta, che saprà plasmarlo e addomesticarlo.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.
(Konstantinos Kavafis, Itaca, vv.31-36, Tutte le poesie, Einaudi, 2015, a cura di Nicola Crocetti)
Itaca come Procida, contiene e diffonde gli spasmi del poeta; isola a cui alla quale tornare, per sentirsi figli di divinità mai tramontate, perché i numi dell’isola sono semplici, composti di acqua, minerali ed elementi naturali.
E non importa quale sia il nome del lembo di terra o del costone roccioso, perché l’essenza spudorata e primigenia della poesia vivrà sempre, tra le fessure e gli anfratti di ogni isola.
Il nome di Procida è, innegabilmente, nome poetico di ampio respiro.
Procida riecheggia in una poesia del poeta russo Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, ed è sempre emozionante osservare il profilo dell’isola attraverso gli occhi di un poeta che ha saputo essere sia “classico” che “contemporaneo”, qualsiasi sia l’accezione di entrambi i termini. Perché l’isola è classica, patria del mito, ma è anche e soprattutto contemporanea perché continua a contenere il sangue della nostra civiltà, è culla della poesia e attualità che non possiamo ignorare. E ancora di più non possiamo ignorarlo adesso.
Procida
Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.
Un gabbiano artiglia l’orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.
(Iosif Brodskij, “Poesie italiane” Adelphi, 1996, traduzione di Giovanni Buttafava)
Reti stese ad asciugare e fissate, nello sguardo del poeta, come parenti dei lenzuoli. Uno sguardo quasi chiaroveggente, purificato dal sale dell’isola, che rende tutto più nitido. I colori sono perfettamente messi a fuoco, la mossa del gabbiano è precisa e chirurgica, e il blu di Procida è un vero e proprio manto che avvolge tutta la poesia con grazia e decisione.
Il tocco finale, con la stella incandescente che s’incendia, sembra offrirsi al lettore come un martirio estremo, quello della poesia che prende fuoco nel cielo e si offre a tutti, disperdendosi negli atomi di sale, acqua e sabbia.
Che l’isola possa assumere le sembianze di una Madre lo riscontriamo anche nel poema in versi di Luigia Sorrentino. Olimpia si trasforma in una creatura immensa, gravida di mare e di umanità. Ed è con il peso dell’umano nel grembo che la creatura approda alla piccola isola.
Coro 1
tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava lì sotto e dentro
questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa
le acque la accolsero
e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola, tutti
portava nel suo grembo
(Luigia Sorrentino, Olimpia, Coro I, Iperione, La caduta, Interlinea, 2013, 2019)
L’isola è dunque l’approdo gravido d’umanità di una Madre in un luogo senza confini dal quale si staglia una voce che rivela all’umano la notte del grembo.
La Sorrentino come un oracolo, con versi chiari e luminosi, sembra sussurrare al mare parole che smuovono le onde: “c’è una notte arcaica in ognuno di noi / una notte dalla quale veniamo/ una notte piena di stupore/ quella perduta identità dei feriti,/ si popola di volti”, e ci ricorda che tutti proveniamo dallo stesso seme notturno, e quella notte arcaica rimarrà sempre nel nostro codice genetico, come una condanna o una rivelazione.
Ed è proprio dall’approdo al profilo roccioso dell’isola, da quella notte arcaica, che possiamo scoprire la nostra vera identità di naufraghi. Dalla notte possiamo risollevarci, rinascere e purificarci, guardando il mare dal profilo dell’isola che accoglie e rigenera.
Non è Procida l’isola della Sorrentino, o forse sì, potrebbe esserlo. Perché un’isola è sempre un’isola, da qualunque parte la si osservi, è una terra emersa dalla quale far emergere la coscienza, la consapevolezza di ciò che siamo.
Nei versi della Sorrentino, l’isola offre all’agens poetico un abbraccio acquatico, capace di contenere la voce eterna e ciò che abita il grembo del poeta. E il tocco potente e immaginifico della Sorrentino ci ricorda quanto un’isola possa essere l’ultimo baluardo di verità: l’isola, in questi versi, è un estremo atto di coraggio. Per la Sorrentino, voce greca e vesuviana insieme, accoglie tutti i fumi dei vulcani del mondo e li conserva negli abissi, insieme alle conchiglie e alle pietre marine, l’isola è un raffinato simulacro, un altare su quale la poesia, dalle sembianze umane, s’immola, si presta al sacrificio, con gli occhi di Ifigenia in Tauride. Da quello stesso altare, la poesia rinasce e brucia le sue maschere, fino a sussurrare al mondo il segreto che fu di Didone e di Arianna, eroine che guardarono il mare in cerca di una nave, di un segnale di fumo o di un lembo di terra: la terra di cui parla la Sorrentino è la proiezione della sua stessa voce poetica, che si fa rocciosa, sinuosa, frammentata e iniziatica. In tutto ciò, c’è l’odore e il respiro nudo dei grandi tragici.
L’isola ha quindi un’innegabile vocazione poetica, e la scelta di eleggere Procida Capitale della Cultura assume un traguardo simbolico mai raggiunto prima; perché l’isola che abbiamo conquistato, pone al centro di ogni cosa, lo sguardo sull’essere umano dentro un confine terreno, dal quale non si può sfuggire.
D’ ora in poi nessuno potrà più ignorare Procida, o l’isola in sé, l’isola in quanto isola. Nessuno potrà più fingere di non vedere la poesia che la avvolge come una pellicola trasparente e che la riconsegna all’eternità della Storia con la S maiuscola, come la definiva Elsa Morante in “La Storia”.
La Morante torna oggi a bussare alle porte della nostra memoria con quelle sue mani delicate e prepotenti al tempo stesso, e lo fa con un romanzo: L’Isola di Arturo, diventato un classico della nostra letteratura.
Spudorata e morbida al tempo stesso, Elsa Morante è una donna che Procida l’ha vissuta, masticata e sputata: ha costruito un vero e proprio altare letterario dedicato all’isola, contribuendo alla realizzazione di un immaginario collettivo:
Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. Tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena. E potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. Un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro.
(Elsa Morante, L’Isola di Arturo)
Nel golfo di Napoli c’è un’isola che ha due sangui: il suo nome è Procida, e odora di limoni e cenere del Vesuvio. Nel tufo giallo dell’isola scorre il sangue antico dei Campi Flegrei e un altro tipo di sangue, scuro come l’inchiostro. Quell’inchiostro è appartenuto alla penna di una donna romana, che ha fatto di Procida la sua dimora letteraria. Se vi affacciate sulla terrazza dell’albergo Eldorado, all’ombra degli agrumeti, potrete ancora vedere il profilo di quella donna che si è seduta proprio lì per scrivere di un ragazzo che aveva il nome di una stella.
Elsa Morante ha scelto quest’isola, nata sulla bocca di un vulcano fumante, e ne ha fatto un vero e proprio alter ego di se stessa, come se Procida fosse stata una persona in carne e ossa. Nel 1955, proprio all’ombra dell’agrumeto dell’albergo Eldorado, la Morante fu attraversata dall’ispirazione per il libro che le valse il Premio Strega. In quell’albergo procidano non vi alloggiò solo la Morante, ma anche Vasco Pratolini e Alberto Moravia, che sarà il marito della Morante per venticinque anni. La bellezza e la frescura del giardino dell’albergo, le offrirono la calma necessaria per disegnare il profilo di Arturo, orfano di madre e originario di Procida, mitico locus amoenus in cui vivono i suoi sogni e in cui aspetta il ritorno del padre, figura idealizzata come gli avventurieri delle sue storie. Un luogo di sentieri, spiagge e ciottoli:
Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie […] Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste tra le grandi scogliere.
(Elsa Morante, L’Isola di Arturo)
L’albergo Eldorado ha chiuso nel 1998, ma il Comune di Procida ha preso in affitto la struttura dalla famiglia Mazzella di Bosco, ancora oggi proprietaria, e ha realizzato il Parco Letterario Elsa Morante. Purtroppo, a causa di problemi economici che si sono venuti a creare tra le due parti, il giardino è chiuso e non è più accessibile: ci si può però accontentare di sbirciare dal cancello, gli alberi di limoni, e immaginare Elsa seduta all’ombra.
L’isola della Morante è il teatro in cui muoiono le divinità dei genitori, è il fondale sabbioso che vede il tramonto dell’infanzia; è la metamorfosi selvaggia, il luogo in cui si diventa grandi. Procida è il luogo in cui la Morante ha partorito Arturo e se stessa, in egual misura. Lì non c’è solo il sangue e l’inchiostro della scrittrice, perché tra le pietre antiche di Terra Murata, il carcere e il Santuario delle Grazie c’è tutto il suo corpo.
Quando si passeggia per Procida, si ripercorre la geografia dell’animo di Elsa Morante: ogni pennellata di turchese del mare è una virgola del suo libro, ogni conchiglia risuona del nome di Arturo.
Tra i luoghi dell’isola che ritornano costantemente nel libro, c’è la Terra Murata, uno dei più antichi insediamenti lì presenti:
L’isola, che stendeva, in basso, la sua forma di delfino, fra i giochi delle spume, coi fumi delle sue casette e il brusio delle voci, mi appariva lontanissima […] Al termine, la salita si slargava in una terrazza, che offriva su due lati la vista del mare aperto all’infinito, di una freschezza celeste. Qua sorgeva la gigantesca porta della Terra Murata, con la sua profonda volta di pietra, e le garitte per le sentinelle scavate nei pilastri.
(Elsa Morante, L’Isola di Arturo)
Se dovessimo pensare a un ritorno nei luoghi morantiani di Procida, non può mancare la visita di quello che fino al 1988 era il carcere di Procida, luogo in cui, nel romanzo, è imprigionato Tonino Stella, amico del padre di Arturo:
A sinistra di questa piazza, in fondo a un ripido valloncello lastricato, un cancello sbarrava l’accesso a una vasta corte gialla e nuda, in cui si levavano enormi fabbricati rettangolari. Sul cancello si leggeva la scritta Casa di pena intorno a un rilievo colorato di Santa Maria della Pietà. Quella era l’entrata del Penitenziario. Da quel punto, attraverso certe fabbriche basse protette da muraglie, la collina delle prigioni saliva, dietro alla Piazza Centrale, fino al Castello antico che si vedeva torreggiare, a destra, al di là del piccolo borgo ammucchiato ai suoi piedi.
(Elsa Morante, L’Isola di Arturo)
Tra le ginestre e i vigneti che sembrano giardini imperiali, potrete sentire il suono di due sangui che si rincorrono, si inseguono e si dividono, e poi si riuniscono nelle vene di un ragazzo che si chiamava Arturo, la stella più radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale.
Procida poi, ci mette sulle tracce dai toni più tenui e sfumati del film “Il Postino” (1994) di Massimo Troisi. Un’opera cinematografica che è la celebrazione massima della poesia: un’isola, il mare, le parole di Neruda e una Beatrice, che non è dantesca, ma è una donna fatta di carne e sangue, che riesce a rapire il cuore di Mario Ruopolo, che “la guardava e s’innamorava”.
“Il Postino” è ispirato al romanzo “Il postino di Neruda” dello scrittore cileno Antonio Skármeta, ultima interpretazione di Massimo Troisi, che morì nel sonno poche ore dopo la fine delle riprese.
Il film si fonda su un discorso intimo tra due interiorità: quella del poeta cileno Pablo Neruda, in esilio su un’isola del Sud Italia, e un postino, Mario Ruopolo, che con lui impara il valore della poesia, delle metafore e dell’amore.
Il set del film non è il porto principale di Procida, ma un porticciolo nascosto nel paesino della Corricella, tra casette variopinte e vicoli che si intersecano come serpenti. Proprio di fronte al mare, si trova la celebre “Locanda del Postino”: lì nacque l’amore tra Mario e Beatrice Russo, interpretata da una bella e giovanissima Maria Grazia Cucinotta. Inoltre, all’interno della locanda, è possibile trovare un oggetto di scena del film: la famosissima borsa marrone, l’originale borsa utilizzata durante le riprese.
Poi, non si possono dimenticare i piccoli luoghi di vita vera e pulsante: le tabaccherie, l’ufficio postale e l’inconfondibile Chiesa della Madonna delle Grazie, che troneggia sulla Corricella con la sua cupola.
La passeggiata potrebbe continuare sulla spiaggia di Pozzo Vecchio, ormai conosciuta da tutti come “spiaggia del Postino”: sarebbe meraviglioso fare due passi di fronte al mare, nei mesi invernali, e immaginare i discorsi tra Pablo Neruda e il suo postino, osservando l’orizzonte e chiedendosi di chi è la poesia. Di chi è la poesia? A chi appartiene? Una vera opera d’arte, più che dare risposte, è abile a fare e disfare la tela, a dissimulare, a sollevare nuove domande.
La poesia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve.
Una volta liberati, i versi smettono di appartenere alla mano del demiurgo che l’ha creata: diventano carne, pietra, schegge di mare, lacrime su volti conosciuti. La mano che li ha plasmati non ha più potere su di loro, e diventano patrimonio di tutti, universo da cui si può attingere per curare e curarsi.
E questa è la funzione centrale della cultura, che trova in Procida la sua più grande manifestazione di isola, di patria e di universo letterario: la cultura non è di chi la crea, ma di chi ne usufruisce e la porta con sé.
Procida ha tanto da insegnarci, e con Procida noi possiamo imparare a essere vuoti e pieni, isola e roccia, mare e costa, e accettare, finalmente, che la poesia serve.
Il verbo servire dovrà smettere di avere un valore servile e dispregiativo, ma assumere il valore semantico che la sua etimologia latina suggerisce: servire, dal latino, significa dedicarsi, badare, avere cura.
Che sia l’inizio di un tempo nuovo, in cui la poesia torni a essere, finalmente, nostra serva.