Per Giovanna Sicari
Il profumo delle sere d’estate
inseguiva le tue assenze.
Si sapeva di te qualcosa più
della tua bellezza,
vertigine di sé, i tuoi ritorni
annottavano in nidi di poesia,
nei quali comprendevi che l’amore
è speranza ribelle,
e quel passo leggero
lo potevi ricalcare all’infinito.
Reduci dei tuoi ritorni
arieggiati dal volume dei capelli
inseguendoti nei passi, noi
puerili annidavamo
nelle mani i nostri sogni
un poco balbettanti. Inanimati.
E poi non c’eri, quando
per te divenne la poesia
la strada il tempo la distanza.
E la memoria è la panchina assolata del viale
dove si era giovani una volta sola, e poi
le omissioni diventano dimenticanza.
E i giorni sono un lacero breviario
in cui si scrive da sola
la distratta ricordanza dei passati.
Dopo la notte
L’innesto, complicato, del mattino
ha nelle tue parole
lacunose, intersezioni ritmiche
che, a volte, mi spingono
a ritardare la contezza, il profanarsi
del sogno che avevo trattenuto.
Come mistica rivelazione
mi apparivi
flessuosa ed avvenente come sei, ma assetata
di me, della mia giovane afasia
vertigine di senso e di paura
negazione della morte, ovvero
della vita. E correvi
a piedi nudi, come sorretta
da uno spot di gelati di una volta.
Come è facile avere
vent’anni di più di quello che ti bastava
per vivere la vita come un sogno.
Era estate
Era estate
se lungo il mattino
scalfivano, le nuvole,
la voglia di silenzio
che dal lucernario, furente, penetrava.
Alla tua finestra
un nastrino celeste mi avvertiva
che ci saremmo visti
la sera. E così l’ansia
svaniva, pregustando
il sole del ritorno, la speranza
di un bacio.
Ti innamorasti perché
ti ungevo di poesia
anche se appena un tozzo
di futuro si coglieva
in quei miei versi di colore scarno.
Eravamo l’estate, adesso siamo
l’estasi delirante del ricordo.
Verso la fine
I coriandoli di sole,
che hanno attraversato la bufera
per corrompermi d’estate,
hanno timore di te.
Mentre batti le tende sul terrazzo
e ti muovi con buffa impertinenza
a percuotere di vento
il mio volto intriso di tristezza.
Un po’ mi brucia
il tuo rimbrotto,
nella guancia fiaccata dalla sera.
Se ora finisse questa pioggia,
torneresti sul terrazzo
a mostrarmi
i progressi del tuo
pollice verde
e così un altro
giorno si chiuderebbe col sorriso.
Stai dormendo
Hai ripreso confidenza con la notte
e stai dormendo
dopo aver affidato al lavello,
coi piatti da finire,
le lacrime
degli incubi sedati
del calvario di sogni che ti facevano sola,
dopo la lunga giornata degli affetti.
Li dici a me che un poco mi vergogno
di lasciarti da sola a lambiccarti
sul futuro che attende i nostri figli e,
distante appena,
l’umanità tutta che tu ami,
di ognuno
ti fa pena l’avvenire
e ne raccogli le storie, ad una ad una.
Mentre mi chiedi dove ho messo Dio.
Ma finalmente adesso stai dormendo.
Da: Le parole finiranno, non l’amore (manni, 2021)
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Silvano Trevisani è nato nel 1955 a Grottaglie, dove vive. Giornalista, è redattore capo del settimanale “Nuovo Dialogo” e responsabile del bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”. Scrittore e critico d’arte, ha pubblicato libri di narrativa, poesia, saggi di storia, economia, attualità, arte. Con Manni, nel 1997, il romanzo Lo norevole.
Ho avuto modo di leggere le poesie di Silvano Trevisani, amico e concittadino che apprezzo come giornalista, scrittore e poeta.
Nel suo ultimo libro di poesie il sentimento d’amore percorre la strada dei ricordi tra le pieghe del tempo.