Intervista a Lia Rumma
di Luigia Sorrentino
Napoli, Palazzo Donn’Anna
9 marzo 2022
Lia Rumma è tra le più importanti galleriste del mondo dell’arte italiana e non solo. Con il marito Marcello Rumma ha promosso il movimento dell’Arte Povera. Oggi, nella sua scuderia, lavorano i maggiori protagonisti internazionali del contemporaneo.
Lia Rumma vive a Palazzo Donn’Anna, in uno dei più celebri palazzi di Napoli, luogo simbolo della città. Il palazzo fu costruito nella metà del mille e seicento, per volontà di Donn’Anna Caràfa e realizzato dal più importante architetto della città, Cosimo Fanzago. Fu costruito secondo i canoni del barocco napoletano. E proprio qui Lia Rumma ha realizzato la sua casa-museo.
Che relazione c’è tra questo luogo antico proiettato nel passato e l’opera d’arte contemporanea che guarda verso il futuro?
Penso che l’arte corra su un filo infinito nella relazione tra passato e presente. Non c’è interruzione, ma c’è un dialogo. Io sono affascinata dall’architettura barocca, dalla grande architettura del passato. Questi ambienti ampi, questi volumi straordinari, dialogano benissimo con opere contemporanee. A me piace molto riferirmi alla storia e alla nostra contemporaneità. Ho cercato di avvicinare questi due momenti. Mi piace molto vedere vivere queste opere in questi ambienti meravigliosi dell’architettura di Palazzo Donn’Anna. Non dimentichiamo poi che palazzo Donn’Anna è circondato dal mare. Quindi il mare entra in questa stanze, la luce fa un gioco di ombra e di luce, di spazio, di aria. Queste opere possono vivere in maniera totalmente autonoma laddove l’architettura non viene uccisa dall’invasione di grandi opere contemporanee e nello stesso momento lascia spazio all’opera.
La storia di Lia e Marcello Rumma si afferma nel 1968. Quando, con Germano Celant prende vita la grande mostra ai cantieri di Amalfi.
La mostra del maggio del Sessantotto conferma un momento importante, storico. Ma la nostra curiosità di giovanissimi collezionisti interessanti all’arte, alla cultura, perché non solo ci siamo occupati di arte, perché mio marito fondava poi una casa editrice molto importante di arte, estetica e filosofia, inizia molto prima, già dai primi anni Sessanta. Eravamo ancora due ragazzini ed eravamo incuriositi da quello che stava accadendo nel nostro tempo. E quindi incontrare gli artisti, i galleristi, quelli che poi sarebbero stati i protagonisti del grande momento dell’arte contemporanea era per noi una curiosità immensa. Per quanto giovani, ci muovevamo, viaggiavamo, contattavamo storici dell’arte, critici, galleristi, artisti… era un viaggio verso la conoscenza. C’era anche una passione fortissima … eravamo proprio appassionati, innamorati di ciò che stava accadendo nel nostro mondo. Volevamo conoscerlo, volevamo starci, volevamo viverlo con gli artisti e vivere in questo mondo dell’arte così affascinante.
Chi erano questi artisti? cosa avevano di diverso dagli altri ? Cosa ponevano in essere nell’opera d’arte?
Gli artisti che noi coinvolgiamo nella mostra del Sessantotto erano artisti che stavano emergendo in varie città d’Italia e tutti questi artisti avevano qualcosa che li accumunava, avevano qualcosa in comune… ed erano Pistoletto, Mario Mertz, Zorio, Anselmo, Paolini, Kounellis, Boetti, Piacentino, ma non solo protagonisti che lavoravano fra Genova, Roma, Milano, ma coinvolgiamo anche artisti locali come Pietro Lista, Ableo. Erano tutti artisti che interagivano con gli altri ed erano artisti interessati a portare avanti un discorso comune che Celant accomuna sotto il nome di “Arte Povera”. I giorni di Amalfi Sessantotto sono stati giorni straordinari. Gli artisti si aiutavano l’un l’altro perché eravamo tutti giovani. Di giorno si lavorava e la sera si faceva il bagno nel mare di Amalfi, si stava sulla spiaggia. C’è un’intervista bellissima di Boetti che parla di quei giorni. E’ stato un momento irripetibile. Ho visto tante mostre contemporanee in Italia, ma l’atmosfera che c’era ad Amalfi, di comunità, di intesa comune, non l’ho mai più vista nella mia carriera di gallerista.
Lei, dopo la morte di suo marito, Marcello, da Salerno si trasferisce a Napoli e apre una prima galleria d’arte a Parco Margherita inaugurando la personale “L’ottava investigazione” dell’artista statunitense Joseph Kosuth.
Come arrivò a Kosuth?
Nel 1971 aprivo una galleria. Iniziava un’avventura. Non avevo mai pensato prima di fare la gallerista e nei miei primi anni non ho neanche amato di fare questo lavoro, perché a me piaceva fare la collezionista, più comprare opere che vendere. Giravo molto, sono andata a Parigi, a New York, Londra e in questi miei viaggi vado a vedere la mostra di questo giovanissimo artista americano Joseph Kosuth. Non capivo il suo linguaggio, ma proprio la curiosità mi spingeva poi a conoscerlo, tanto che ho detto: “Inauguro la galleria con uno degli artisti più difficili in questo momento”. Io ero sicura che non sarebbe venuto nessuno in galleria, sapevo che il suo lavoro non avrebbe interessato nessuno, però interessava fortemente me, mi interessava conoscerlo, entrare nel suo lavoro… e questa cosa poi è accaduta perché è iniziato un rapporto durato oltre Cinquant’anni. Stimo molto il lavoro di Kosuth che oggi è considerato uno dei grandi maestri dell’Arte Concettuale.
Qual è il concetto di arte in Kosuth?
Lo riassumo in poche parole: “Arte come Idea”.
Con Kosuth si apriva un momento nell’arte contemporanea chiamato “Conceptual Art”. Più che il manufatto “arte”, a questi artisti interessava un’idea dell’arte. E proprio su questa idea gli artisti concettuali hanno lavorato e hanno influenzato altri artisti nel mondo, altri movimenti.
La sua ricerca si concentra prevalentemente sull’Arte Povera, la Minimal Art e la Conceptual Art. Quando trasferisce definitivamente la sua galleria a Via Vannella Gaetani 12, comincia la sua collaborazione con la Soprintentendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli con la quale realizza mostre importanti.
Ricordiamo quella con Gino De Dominicis al Museo di Capodimonte.
Che artista era Gino De Dominicis?
Gino De Dominicis è stato un grande artista italiano che io desideravo da anni conoscere. Non era facile l’approccio con De Dominicis e quindi cercavo di capire quale fosse la migliore strategia per avvicinarmi a lui, finché riesco a chiedergli un appuntamento e lui mi da appuntamento a mezzanotte a Roma al bar di Plinio. Non ebbi nulla da obiettare perché sapevo che Gino dormiva di giorno e viveva di notte. Incontrarlo di giorno era difficile, potevamo incontrarlo solo verso le cinque, le sei del pomeriggio.
Mi ha sempre interessato come artista per la sua genialità, il suo lavoro, la sua opera. La personalità di questo artista mi affascinava. Sono stata una collezionista delle opere di Gino De Dominicis oltre ad averlo rappresentato più volte in galleria. La sua opera mi piaceva molto perché era carica di mistero e questo stimolava ancora di più il mio interesse. Gino De Dominicis è un artista che ha parlato molto anche dell’immortalità. Bisogna entrare nelle sue opere per capire l’immenso valore che esse hanno, portavano a una profonda riflessione sul mistero della vita e della morte.
Nella seconda metà degli anni Novanta lei porta a Napoli due grandi artisti delle grandi capitali internazionali: il tedesco Anselm Kiefer e l’australiano William Kentridge. Poi lei li ha seguiti nel tempo, fino ai giorni nostri, con personali a Napoli e nella sua galleria di Milano, in via Solferino.
Cos’hanno in comune questi due artisti?
Questi due artisti, Kentridge e Kiefer, non hanno nulla in comune. Ognuno ha un proprio discorso e un proprio valore. Non cerco artisti che hanno delle cose in comune, anzi, amo le differenze. Nell’arte non c’è solo una direzione, ci sono varie direzioni, ed è questa differenza che a me interessa molto, tanto che a volte ho scelto artisti che sembravano proprio in opposizione. Pensi a Kentridge e a Kosuth. Uno si occupa di pittura figurativa e l’altro di arte concettuale. Ed è proprio questa differenza di temi, di valori, che mi affascina, che mi incuriosisce e quindi, non è un problema se un artista opera differentemente da un altro, anzi… meglio! Il discorso si fa più intenso, più interessante.
Lia Rumma è un’affermata gallerista. C’è un confine o un punto d’incontro tra l’artista e la gallerista? Intendo dire, in lei c’è anche l’artista?
Assolutamente no. Io sono un’artista fallita per questo ho fatto la gallerista. Molti galleristi li ritengo proprio degli artisti falliti, nel senso che è vero, c’è questa tensione a voler creare, ma poi non siamo capaci di creare cose straordinarie. Ecco perché ci rivolgiamo agli artisti.
Ha fatto questa precisazione che io accolgo. Ma Lia Rumma per me è un’artista dello spazio. Lei riesce sempre a trovare una dimensione artistica anche da “gallerista” nel momento in cui porta nello spazio e nel tempo l’opera d’arte. Questa sua capacità di collocare l’arte in uno spazio, nell’architettura del luogo, a mio modo di vedere rende anche lei un’artista.
L’idea dello spazio mi piace molto e mi piace molto l’idea dell’architettura. Lì riesco a far dialogare l’opera d’arte con lo spazio. Questa è una delle mie grandi passioni. Però non è una forma d’arte, ma un atteggiamento artistico. Io vivo con gli artisti, quindi è come se bevessi ogni giorno a una fonte di acqua fresca. Si acquisisce conoscenza, esperienza… c’è qualcosa poi proprio di naturale che fa tendere naturalmente a fare delle scelte. Io poi ho avuto la fortuna di vivere da bambina sempre in delle ville bellissime, perché in famiglia eravamo tanti figli… e quindi ho sempre avuto un rapporto con lo spazio, con la bellezza. Mio padre era una persona molto colta, un grande latinista, un grande dantista. Nel rapporto con lo spazio bisogna trovare una misura tra lo spazio e l’opera d’arte e qualcosa che fa parte di una propria tensione più intima, più personale. Questo a me è sempre piaciuto. Fin da bambina mi piaceva collocare le cose nello spazio. Quando in galleria è il momento delle installazioni, io di solito le faccio con l’artista, sono sempre accanto all’artista perché è uno dei momenti più interessanti… scoprire come un’opera d’arte può crescere, come nel momento dell’installazione l’artista colloca la sua opera nello spazio e posso dire che io per prima sono per l’artista, un interlocutore.
Il tema della spiritualità sembra unire l’artista Ettore Spalletti e Anselm Kiefer. Spalletti, ad esempio, lavora sui monocromi blu, Kiefer su boschi introspettivi… Eppure si potrebbe dire che hanno qualcosa in comune. Entrambi nelle loro opere cercano una dimensione interiore, quel qualcosa che va al di là del visibile… anche quando l’opera si interrompe, c’è qualcosa che continua a parlare dentro l’artista e dentro l’osservatore…
Premetto che Spalletti stimava Kiefer moltissimo, come era stimato anche da Alberto Burri. E Kiefer aveva invitato nella propria Fondazione Spalletti, perché affascinato dal suo lavoro.
Kifer e Spalletti sono due artisti apparentemente diversi . Entrambi si esprimono attraverso la pittura e la pittura per un artista può avere dei momenti di grande spiritualità, di pensiero assoluto, ma al tempo stesso la pittura può anche essere un tumulto, un uragano, uno tzunami, così come è a volte l’opera di Kiefer, ma ognuno di loro porta nella propria opera tutte le proprie istanze culturali. Kiefer è tedesco, quindi sappiamo benissimo quali sono le caratteristiche della cultura tedesca. Spalletti è fortemente italiano e quindi ha alle spalle tutta la grande pittura e la grande cultura classica del quale lui è un portatore contemporaneo. E Kiefer a sua volta nella sua opera possiamo leggere tutto quello che è stato il tumulto della cultura germanica. Ogni artista quando si esprime nella propria opera, esprime il proprio tempo e quindi la propria origine culturale. Questo rende possibile distinguere un artista dall’altro, anche se poi c’è un pensiero superiore, qualcosa che li accomuna, nel tempo e nello spazio.
In William Kentridge è forte il tema della memoria e dell’identità. Una memoria che si fa opera d’arte e poi si disfa… che resta nel ricordo di chi ha visto l’opera prima che scomparisse. Ad esempio, sono sparite le opere realizzate da Kentringe per Tevereterno a Roma: la figura di Pasolini morto, il Papa, i popoli camminatori… sono stati realizzati sotto forma di disegno, poi incisi sull’argine del fiume, e poi sono scomparsi… eppure sono nella memoria di chi era lì, in quel momento, in cui è stata mostrata l’opera, e la ricorda, e racconta…
E’ il tempo che regola la nostra vita. E’ il tempo che decide i momenti. Sicuramente Kentridge è un artista che lavora sulla memoria, ma lavora soprattutto sul tempo. Le cose nascono e muoiono, ogni momento è diverso dall’altro… ogni monemto cancella quello precedente. Ecco il senso del lavoro di Kentridge: nulla è eterno, nulla è stabile, ma la nostra vita è una continuità di attimi che si susseguono e si cancellano che si protraggono e si affacciano alla nostra memoria un attimo, ma poi il tempo inesorabile, torna a cancellare la nostra vita. Le cose muoiono e poi rinascono e poi tornano a morire… è il ciclo del tempo e questo è un elemento fondamentale del lavoro di Kentridge.
[William Kentridge’s Triumphs&Laments – Piazza Tevere / Tevereterno, Roma 2016]
William Kentridge è fra gli artisti internazionali che più amano Napoli. Proprio Kentridge ha realizzato alla stazione Toledo della metropolitana i mosaici di tessere in pietra e pasta vitrea che fissano nella memoria qualcosa di solenne… dall’imponente cavaliere di Toledo al popolo con la processione di tanti personaggi della storia di Napoli che sfilano dietro San Gennaro…
E’ un’opera dinamica. Sembra un nastro, in cui le figure, come sempre in Kentridge, si muovono, camminano, agiscono, cantano, ballano la tarantella. E’ la storia di Napoli. Interpreta la storia di Napoli, come sui muri del tevere ha rappresentato la storia di Roma. E’ come se lui avesse svolto in orizzontale la colonna traiana di Via dei Fori Imperiali. La genialità di Kentridge è mettere in movimento come aveva fatto una volta willy (incomprensibile) nei propri disegni nella propria opera, invece di farla rimanere statica ha dato dinamica, ha dato il movimento. E questo ha condizionato tutto il lavoro di Kentridge fino a portarlo a delle grandi opere, come “Il flauto magico” come quello sulla Sibilla… è stata la sua grande intuizione quella di dare movimento alle immagini, al disegno.
Le sue scelte artistiche non hanno mai seguito mode e tendenze, eppure lei è riuscita a dare unità a una visione così eterogenea dell’arte. Qual è il suo segreto?
I segreti restano segreti. E questo probabilmente è il mio segreto… ma la verità è che in arte non si seguono le mode… Io seguo l’artista e il valore dell’artista. Sono attratta dalla personalità e dall’opera dell’artista, anche se ognuno è diverso dall’altro. La moda mi piace, e la seguo nell’abbigliamento, con attenzione e con misura. Quindi non sono una persona che fa le cose per moda. Faccio le scelte che stimolano qualcosa dentro di me…. Ed è proprio questo credere in ciò che si sceglie ciò su cui si vanno a prendere delle decisioni che mi dà la forza di continuare e di resistere. Il nostro è un lavoro non facile e bisogna avere una tenacia non indifferente per poterlo portare avanti e fare delle scelte che siano delle scelte pensate che lascino nel tempo e nella storia un valore.
Lei è una donna ed è riuscita a compiere il lavoro che normalmente fanno gli uomini. Il suo essere donna ha condizionato il suo lavoro con gli artisti o lo ha facilitato?
Io penso che quello che condiziona il rapporto con un artista è innanzitutto il modo con cui ci si pone e in cui si pone il dialogo con l’artista. Si certo, può essere un vantaggio e a volte uno svantaggio l’essere donna e gallerista… ma in verità non ho mai pensato a questo… ho sempre pensato al mio lavoro e a cosa poter cercare nel mondo, a cosa volevo, come lo volevo e come poter fare un approccio. Certamente, soprattutto negli anni Sessanta ero molto giovane, una ragazzina ancora, una giovane donna anche … probabilmente non mi si dava tanta credibilità … Io sentivo frasi del tipo: “Ma figurati se quella ragazzina ci può indicare quello che sarà un artista importante nel futuro! E’ troppo giovane”. E invece le cose più straordinarie accadono proprio quando si è giovani. Quindi bisogna credere nelle capacità delle persone giovani perché sono sicuramente più tenaci e più determinate. Sul fatto di essere donna… sono felice di esserlo, non ho mai inviadiato un ruolo maschile… è stata una sfida. Una bella sfida.
Una sfida vincente…
Io sono sempre molto prudente su quello che sono i successi e le vittorie … però sicuramente ho potuto portare avanti il mio discorso e questo mi riempie di orgoglio perché non sono venuta meno alle mie idee. Sono contenta di aver avuto la forza di resistere… perché non sono stati sicuramente anni facili. E di solito quando noi galleristi facciamo delle scelte inizialmente sono pochissime le persone che credono nelle nostre scelte. E il tempo, si dice, è il miglior medico dà torto o dà ragione a quelle che sono state le nostre scelte iniziali.
Qual è l’artista che le manca di più… un artista che non c’è più, che ci ha lasciato la sua opera che continua a battere nei nostri cuori?
L’artista che mi manca e che è scomparso è stato sicuramente Gino De Dominicis. Poi se lei mi chiede chi è l’artista che oggi io preferisco le rispondo come ha risposto una volta Filumena Marturano: “Tutti i figli son belli a mamma sua”… quindi, li amo tutti!
L’intervista a Lia Rumma che qui vi propongo in versione integrale, è andata in onda su RAI3 a Mezzogiorno Italia, il 12 marzo 2022 alle ore 13:25.