Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand
Civitella Ranieri
24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani
Prima parte
Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?
Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.
Si sta bene in vacanza, eh?
Benissimo, sempre.
Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?
Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.
Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?
Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.
Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.
Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.
Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?
Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.
Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark, dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.
Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.
Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.
Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.
Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?
E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.
Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”.
Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?
A essere sincero, non lo so.
So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.
Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?
L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.
Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?
Roba, vestiti.
Scarpe.
Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.
E negli occhi cosa c’era?
Nei miei occhi?
Cosa portavI negli occhi?
Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.
C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.
Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?
La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?
Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?
Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.
Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?
L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.
Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?
Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.
La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.
Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker) poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?
Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.
Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?
Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.
Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.
A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.
Mark, secondo te la morte può essere ingannata?
No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.
A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?
Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.
Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?
Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.
Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?
Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.
Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?
Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.
Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?
Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.
Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?
Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.
Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?
Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.
La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?
Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.
Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?
Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre.
Il lettore però non può leggere la poesia come leggerebbe un quotidiano.
Impossibile. Il giornale lo leggi in fretta, a blocchi, non a parole, la scrittura giornalistica è formulaica, non c’è niente di formulaico nella scrittura della poesia, o nella lettura della poesia. Non leggiamo poesie per avere notizie dal mondo, o sapere quanto è caldo o freddo oggi, una poesia non offre notizie, ma lo stato dell’anima, la condizione della vita interiore. Si leggono poesie per scoprire cosa si sente veramente, ecco perché si legge poesia ai funerali, o per esprimere una tragica perdita, si vuole capire quali sono i nostri sentimenti, e non si ha la lingua per esprimerli, una poesia può offrire quella lingua, o come descrivi il passaggio del tempo, la poesia ti permette di esprimerlo, cosa che il giornale non fa, il giornale è responsabile di ciò che succede nell’ultimo momento, la poesia ti dice ciò che è sempre stato vero per gli esseri umani.
Tu credi che il lettore debba predisporre uno spazio psichico per leggere la poesia e come fare a liberare questo spazio nella mente?
Credo che si debba predisporre uno spazio psichico per ciascuna poesia, credo si debba avere bisogno di quiete, di silenzio, essere soli, andare in una stanza, accendere la luce, sedersi in poltrona, aprire il libro, leggere la poesia, anche ad alta voce, la poesia ti crea un ritmo, una cadenza, che ti seduce a credere e una volta che sei sedotto se è una poesia potente metterà a tacere il resto del mondo.
Hölderlin nei suoi scritti di estetica dice che il poeta tragico fa bene a leggere e studiare il poeta lirico, quello lirico l’epico, quello epico il tragico perché nel tragico sta il compimento dell’etico, nell’epico il compimento del lirico, infatti sebbene il compimento di ognuno sia un’espressione mista di tutti e tre, soltanto uno dei tre generi è in ognuno di essi, il più accentuato. Quale di questi tre generi, l’epico, il lirico, il tragico appartiene alla tua poesia? O è più accentuato nella tua poesia?
È chiaro che io sia un poeta lirico, ed è chiaro che tutta la poesia che si scrive oggi sia lirica, nessuno scrive più epica, l’epico è stato sostituito dal romanzo. C’è un elemento di tragico in molta poesia lirica, credo che la poesia elegiaca contenga un elemento tragico, il tragico ha a che fare con la perdita e questo lo fa anche la poesia lirica. La poesia lirica è un’espressione dell’individuo al mondo, il poeta lirico parla per sé, il poeta tragico può parlare per la condizione del genere umano, come l’epico. Le proposte del poeta lirico sono più modeste perché è l’unico che al momento può essere creduto, l’obbligo del poeta lirico è quello di una persona che parla a un’altra persona, non c’è niente di epico in questo.
Cosa ha a che fare la poesia con le persone che invece vogliono guardare la televisione, divertirsi, navigare in rete su internet. La nostra è un’epoca che credo abbia davvero poco di meditativo, la gente non legge tanto la poesia perché non vuole incontrare quel mistero, quello strano di cui parlavamo. Perché allora uno oggi scrive poesia?
Credo che ciò che dobbiamo fare come società è reinvestire nella vita interiore, tutto nel nostro mondo ci porta fuori da noi stessi, andiamo al cinema per divertirci, ci si chiede di identificarci con gli altri anche nella narrativa, con questo o quel personaggio, l’azione in una poesia è interna e se ci vogliamo salvare dobbiamo cominciare a guardarci dentro, per vedere chi siamo, perché guardare all’esterno non ci è stato di grande aiuto. La poesia ci consente di guardare la nostra umanità dall’interno verso l’esterno piuttosto che al contrario, credo che questo sia l’obbligo della poesia per il nostro mondo di oggi.
abbiamo detto che la cosa più importante per un poeta è la lingua della poesia. Come si fa allora a riconoscere una buona poesia da una cattiva poesia?
La pratica. Credo che dopo anni e anni di leggere poesie si cominci … non ho un insieme di principi, ma sento se un poeta non sa di cosa sta parlando, se questo poteva essere detto meglio. La cosa più pericolosa quando dico a me stesso che una poesia non è conforme ad alcuna idea di poesia che io conosca questo mi fa sospettare del mio stesso giudizio perché potrebbe essere che qualcuno abbia scritto qualcosa di totalmente nuovo, di diverso, per cui io non sono preparato, per cui niente nel mio passato mi ha preparato quindi potrei non vedere qualcosa e fare un errore terribile nel giudicare. I miei gusti e il mio giudizio non sono infallibili, quindi la risposta alla domanda è che non sono sicuro di poter vedere la differenza.
Le tue poesie hanno a che fare con l’ignoto, con la morte, con la perdita, cosa c’è dietro questa verità.
Questa conversazione ritorna al punto di partenza quando abbiamo cominciato a parlare del tempo o come viviamo nel tempo, proviamo la perdita, se ci muoviamo avanti nel tempo perdiamo perdiamo cosa c’è dietro di noi, man mano che invecchiamo perdiamo il nostro io giovane, perdiamo i genitori, man mano che invecchiamo possiamo perdere i nostri amici, portiamo fiori in casa e li guardiamo morire, diamo una bella cena e poi più tardi la cena è finita, e ci diciamo, come ci siamo divertiti a cena, ma il messaggio è, non siamo più a quella bella cena, non ci stiamo più divertendo, il tempo meraviglioso è finito, non vuol dire che siamo infelici, a volte lo siamo, vuol dire che qualcosa è finito, viviamo una vita in cui le cose finiscono, è inevitabile.
Aver conosciuto in traduzione molte lingue ha cambiato qualcosa nella tua poesia oppure no? È rimasta autonoma?
Le due traduzioni che ho fatto dall’italiano sono terribili perché non conosco veramente abbastanza bene l’italiano. Ho tradotto il Canto Terzo dell’Inferno dalla Divina Commedia, è la peggiore traduzione che esista, ho tradotto ‘Paura della notte’, un frammento di Leopardi, quello è stato abbastanza buono, quando ho tradotto Alberti dallo spagnolo, o dal portoghese ero molto più giovane e cercavo di migliorare la mia poesia e pensavo che la traduzione mi avrebbe aiutato, è soprattutto per quello che l’ho fatto, non ho imparato molto, non conoscevo abbastanza bene il portoghese, qualcuno ha dovuto correggere. Quello che ho imparato traducendo dallo spagnolo è stato un ampio vocabolario. Ora ho una compagna spagnola e parliamo spagnolo, e io faccio errori di grammatica ma il mio vocabolario è sorprendentemente ricco.
Uno che si chiama Eliot scrive La terra desolata che diventa un capolavoro della poesia mondiale di tutti i tempi, The Waste Land non è proprio facile da leggere, no? E’ un poema che richiede una dose di conoscenza profonda della poesia ancora oggi, perché la poesia di Eliot è allusiva, tu che hai letto Eliot scrivi una poesia più autonoma, più comprensibile. Volendo fare un confronto, qual è la poesia che proprio non si deve scrivere oggi?
A parte tutte le altre considerazioni, The Waste Land è una poesia di una grandezza molto maggiore di qualunque poesia che io abbia scritto, più grande perché esiste come artefatto culturale, le mie poesie esistono più o meno come artefatto personale, non parlo a nome della cultura, della civiltà occidentale, parlo semplicemente di ciò che ci faccio io qui sulla terra, è tutto ciò di cui so parlare. La difficoltà di molta poesia, quella di Eliot, i Cantos di Pound, fornisce molto lavoro ai professori di letteratura inglese, è un’industria – scherzo ovviamente – io credo nella comunicazione più o meno diretta, io scrivo in modo semplice, non è che voglia comunicare con immediatezza, ma voglio sedurre il lettore in modo da far sì che presti attenzione e credo che il modo migliore per farlo sia parlare una lingua con cui sia familiare, che non debba cercare il significato nel dizionario, scrivo in modo continuo, non usando sovrapposizioni come in The Waste Land, usando immagini nel tempo facili da seguire, non voglio che il mio lettore si senta di dover capire la mia poesia, voglio che il lettore sia in grado di rispondere alla poesia, e che sia sedotto dal suono, dalla lingua della poesia.
In una tua poesia contenuta nell’Oscar Mondadori dici, “tutto si offusca, il futuro non è più quello di una volta”, cosa vuol dire?
Come tutto il resto, il futuro cambia, le cose a cui aspiravamo cento anni fa non sono più le cose a cui aspiriamo oggi perché la possibilità del futuro cambia nel corso del tempo, in un senso più intimo il futuro non cambia, vogliamo un altro giorno e un altro giorno, ma in un certo senso ogni età cambia il proprio futuro, così come ogni età cambia il proprio passato.
Fine della prima parte
(Coda di conversazione fuori campo)
Mark Strand. Le tue domande sono state eccellenti ma difficili da rispondere, spero di aver risposto bene, vedremo.
Luigia Sorrentino. Mark, avevi solo quattro anni quando ti sei trasferito con la famiglia negli Stati Uniti, quel bambino piccolo cosa faceva, cosa pensava?
Mark Strand. Ho dimenticato quasi tutto.
Luigia Sorrentino. Non ti ricordi com’eri carino, come correvi, dove fuggivi, chi ti veniva a prendere?
Mark Strand. Ricordo una volta a scuola, era Halloween, tutti mascherati, ero vestito come un soldato, l’unico, volevo essere un coniglio, qualcosa di diverso, mi sentivo fuori luogo, non mi ricordo molto, solo che ero infelice, ero venuto negli stati Uniti, parlavo francese e tutti parlavano inglese, mi sentivo un alieno ed ero infelice, quindi non ricordo.