Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino
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Vladimir D’Amora ha 36 anni, napoletano mi scrive, “Non amo Napoli, e non solo perché la pizza è ormai di gomma”. Si definisce indeciso tra Cruyff e Maradona ‘separato’ mi scrive “vendo quelle scritture la cui morte è fantasma, ancora”.
Vladimir l’ho conosciuto a Napoli, nel 1986. Ero amica dei suoi genitori Paola e Pino, prematuramente scomparsi a distanza di pochi anni l’uno dall’altra. Loro sì, inseparabili. Per Vladimir e suo fratello, ‘due bei lutti’ dai quali credo, sia davvero difficile ‘separarsi’. Vladimir mi descrive quei corpi : “come corpi morti di animali, intrattabili, col coro di sfibranti mormorii e martello.” E poi aggiunge: “Convivo, ora, con una femmina ossuta, di quella distonia che sì giova al feticismo erotico, ed un fratello camuso e quasi ventenne e bello come i gelati. Quando guadagno, mangio e bevo e leggo, il vino nero, chiuso, sincero. Ma vendo parole, operazioni di parole, spiritica verticalità, con un pizzetto indecente, terso e rado.
Leggo e rileggo, detesto Calvino e Petrarca, Foscolo, la Maraini, Ammaniti e quelle degli orecchini a perla. Gl’impegnati che si dissimulano, lungi da me, e pure i nichilisti pigri. Della poesia, quella che sa andare a capo, mi piacerebbero gl’innografi dalla parola netta e poca, ma sento che il tempo si sazia ad elegie piene di pensieri. Sì al Manga, a Gadda, a Kafka, Tolstoj fu malato di bellezza, all’altro Russo difettava l’ironia, forse. Mi piacciono Longhi e Contini, le loro pagine però, meno quello che teorizzano, e imposero. Pacato godo degli epistolari, i critici, Benjamin e Platone, il Bacon dei trittici, il tratto pudico di Duerer, le foto bianche nere, le auto bombate, e allora immagino le Langhe. E le femmine che m’hanno saputo lasciare, e quelle che fingono, coi denti, di non esser donne, le loro mani. E Tacito. Perché lo senti moralista, ma non fa nulla… Mi faccio piacere Caravaggio e il Rinascimento, dentro adoro Skopas e il Laocoonte però, perché ho consumato tanta televisione.”
Poi Vladimir mi descrive i suoi due assilli: “Nietzsche & Heidegger”, ma invano. Se spieghi il mondo, dopo non sai che ci sarà, e se lo cambi, poi ti tocca dare spiegazioni… Non applicare nulla, non sviluppare nulla, non volere nulla: per alcuni è la comunità che sempre viene, però forse è noiosa, quanto l’attesa. Quando sosto alle fermate dei bus, colle loro tabelle d’arancione meneghino, è solo la disfunzione tecnica, che apre nel ritardo l’autentico del tempo. ”
di Vladimir D’amora
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Facciamo così
Facciamo così, mettiamoci la calda pezza dei tempi
altri, buoni alla bisogna dei sognatori. E non lasciamoci
giù, nel gorgo infame delle umide pietre e aguzze,
ch’erano parole mie tue, nostri insozzati anni a morte.
Facciamo così, distanza di burro di culo, e fingiamoci
fratelli senza madre, e senz’aria, colla di pesce e
di bianca natura e spumosa, contingente e più.
Ogni volta, ogni pianto, tu stappi la bottiglia della sera, nel mentre
io mi fingo vapore fermo, grasso nella pentola.
Facciamo così, rispondiamo agli urli dei meccanici, ai bituminosi
richiami delle sere senza fiches, piene di piscio punito.
E saremo fratelli ingarbugliati assai, assaliti dalla strada.
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[la festa è le cose…]
la festa è le cose che distrai dal loro impiego
stamane ne hanno aperta una
nelle piazze chiuse e fetide sole
la festa è quell’uso impossibile
pell’unghie fratte cose già rimontate
ma il bisogno era aria
che masticavi impassibile
era la faccia nettata dalla madre
come non fossi tu nato
nel silenzio si donava meraviglia
se s’ammirava un altro
solo queste finzioni danno l’avvento
di un’operazione di senso (solo un altro)
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stella
Ormai si tace
primi ultimi
un roboante calcolo.
Non più si tace.
Perciò le voci insistono
insieme.
Contare non ha senso
calcolare è giorno pieno
e greve.
Tu sei schiantato,
sei irriconoscibile
in questo peso che trascuri come
il ponte affisso ancora
solo.
Attorno troverai
e il senso ripiegato
e il troppo sensante.
Un museo!
La spina elettrica!
Sa semplice chi sa il non differente
ogni ora?
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Lavacro
E qui il profilo incerto, le tenebre in faccia
senza dirne, senza tacersi il modo
dello scambio degli accenti
lungo un tono scontato. Chiavarono,
la notte bassa di quel cucinino
e la lenta musica da batteria
e si ripresero nello sputo, flaccida
consumazione d’una solitudine
le labbra gonfie su obbedienti membri.
Come il cielo riposa sul contorno.
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[accostati alla mia mano…]
accostati alla mia mano, Pierre,
è solo mano di vento e polvere
come quelle giostre piantate nei fianchi
dei maschi
le voglie di televisioni spalmate a vita
mentre tu devi soffiare l’aria
devi dare vita fasulla e niente
al tuo sangue impazzito per un verbo
per una scheggia per la tua devozione
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tu copi zarathustra
perché le mani non fanno prodigi
in questa spessa vita che s’intavola
nelle tumulate foglie d’un giorno
c’era un ragazzo che pensava il mare
e la montagna
che resisteva al cielo
il verde, la terra dei colori: tribolanti
un universo di tensioni, chiuse, spericolatamente
distribuite e il puzzo dell’allora
che traversava i modi intersecati
su fogli in piramidi, dall’accensione bella
il cielo era paonazzo puntato
ad altro cielo col capo rovesciato
lo sai, che i funghi dormono
i sonni d’ogni terra
morbidi stupiti sempre
e per altro danno vita
consistenza della polpa
celati
lontana, sta sorridendo una femmina
intravista e bruna
dosata nei dintorni
solo suoi
ché li fa spugna
passaggio
d’avidi ocelli
fiuto suo
è il lucore
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[impareranno…]
impareranno a muoversi
i tuoi umani
come figli elementari
perché
quando gl’occhi tuoi
si poseranno sulle vite
sarà tempo d’andare
il tempo aperto
e suderemo insieme
in questo spazio
inferno
d’indecifrati punti
tu non lasciare il possibile
ti rosoli il cuore
non lasciarti chiavata
in un al di là
saremo linee
e precipiteranno
insieme
inesauste
come nei gangli d’un dono
lenta
vorace
la creatura, è un mondo
se sentiremo la nostalgia
sarà vento
un passaggio solo
all’est a passo
nato
poi accenderemo
la mente
per ringraziare gli attimi
le mani, senza più testo
in certe case
spente l’anime
ciclopici gli occhi
s’intenderanno
e non sarà più peso
non sarà carne
nella catastrofe invertita
basterà lasciare
una speranza sola
dell’altro
per non figliare
i maledetti nomi
o tracce di possesso
le pieghe della storia
di quest’ora affamata
di ripercuotere
le nostre dimenticanze:
soltanto
di noi
leggero s’intende
ogni così sia
forma cordiale
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Ein Schreibkuenstler
Come una foto di Ghirri, non la puoi sbocconcellare
la vita dello scrittore per quella disumana vita
ai margini della forma, affogata a cenni
tutti i desii e le male piante e le femmine
pittate a latte e incolori di lavica lentezza
L’ingoio del suo smalto indolico, imperdonato
che strema ritmi e rose antiche
e le pietre strette dalla bocca, piena
Come lampada sfregiata dai siluri dalle rotte
nostre
la vita smantellata per un caso, nel calcolo fanatico
distesa a fondo immemore, istupidito sempre
perché non siano nascite le voci e le movenze
di scimmie stemperate, è solo
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Un’altra casa
Un tempo gli uomini risvegliavano lamenti,
non s’avevano, e il tu
le donne davano alle tombe.
Recente terra, un tempo,
incatenata al fiato del ricordo.
E famiglia fusa, fumavano
i focolari.
Tutti, femmine e uomini, incatenati
alla madre, e così andavano.
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Un’altra casa
Poi, un giorno di tanti giorni,
le redini si spezzarono.
E a una mano
capitò l’orfanezza. E siamo
tornati là quando saremo.
Il nulla è cambiato: sul suo suono,
solo, siamo stati sicuri.
Non lasciammo né ritrovammo.
I non nati.
Nel mezzo, semplicemente aderenti.
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[Ho visto il mare…]
Ho visto il mare, nelle celle di tufo blu
e c’era la memoria di guerre interne
di quella codardia contata
giù
pei grigi vicoli che alitano
bruciate femmine brune
e talianti
prima d’aprire ‘a vocca
rossa, ch’è un giro
Ho visto il mare, dalla punta nera
e cerca slancio, legata
a fili verdi,
in turbe umane onde
maestri i fanciulli
e tuffi, a mare, d’invincibile lordura
Ho visto te, in questa gabbia
d’infinite perdite,
e mi sentii adamo
che dà nome,
l’uomo solo nella sua speranza
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[Com’è bello…]
Com’è bello il mare dei filtri
l’acqua che cheta s’immortala
nell’anime dei bimbi
che corrono
a perdifiato, a nucleo
di speranza spessa
fetida e pressante
e le gambe delle mamme sole
si ripetono una funzione
avita scordata inesistente
le vedi tacere sole
Vecchia materia, su
a Torino, le sue storie
d’operai lasciati, che tornano alle case
che non c’è più fatica
il puzzo della lotta
la pietà
ma tremano i polsi, il cuore
quand’impazza, paziente
contro i muri, le voci ormai
cadute ai templi d’ogni sera
quando
ora finanche le bestiole
rapite sì allucinate
si stringono negl’agi
di corde ripassate, riviste
alla tv, dentro
Più non c’è segreto
che tenga i giorni a festa
le macchine pensate vuote
e pretenziosi lumi ch’irradiano
carezze, fuori
mentre si incastrano le facce,
la stòlta maraviglia,
nei buchi più dialettici
nati
orti a contener
potenze di consumo
marche tenute a bada
di là dalla funzione
per giorni anni secoli
di elementari mete