Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino
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Oggi, a Opere Inedite leggiamo la poesia di Alièn Rodà che mi invia una “PreMessa” con in calce una citazione di Giosuè Carducci: “Su balzi e grotte/ va il cavallo al fren ribelle”.
Poi Rodà scrive: “In ogni autentica poesia si aggirano spiriti ribelli, forze di fantasmi non ancora sconfitti, angeli ribelli, demoni interni che annunciano segretamente l’esistenza di orizzonti chiari in mondi alternativi. Dare ed esistere, fuori e dentro sé.Concetto che esclude equivoci di tipo politico, nonostante ammetta in generale una forte critica sociale, attraverso una visualizzazione teatrale del dire e del porsi in confronto con la realtà quotidiana del vivere, tra quello che succede realmente e quello che sente, pensa, inventa il poeta, un dialogo ideale e non ideologico col mondo fuori e col mondo dentro l’uomo. Tentativo di comunicare lo sconvolgimento, la passione, la forza del linguaggio poetico e la calma della riflessione.
Se nel bene e nel male c’è sempre di mezzo il potere, la poesia sceglie la bellezza e resiste finchè c’è un mondo da pensare, un sentimento da esprimere, contro i poteri mistificatori del mercato dell’attrazione. Un antagonista è sempre emarginato, ma il suo ruolo non è sempre negativo. Il ribelle non sopporta costrizioni, imposizioni, a volte sacrificando non solo il superfluo, ma anche il necessario, pur di esprimere la sua vocazione a raccontarsi rivivendo le vicende vissute dalla più varia umanità che soffre e ci vive attorno e dentro. Anche attraverso una leggera profondità, e una profonda leggerezza.
Poi, al ritorno di un viaggio in un altro verso carducciano: ‘in quel nirvana di splendori e di suoni’, il ribelle diventa nirvanescente, con l’immaginazione che è già conoscenza, raggiunge l’illuminazione…la suprema condizione di liberazione…
La realtà sta nel mettere il dito nella ferita aperta nel costato per capire se l’Uomo è vero. Anche se già questa è un’astrazione.”
di Alièn Rodà
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Nel ventre delle stelle
Rintracciare quanto roteare d’universo
C’è in un fiore,
durante la nostra tormenta
che muove una suoneria allegra
per farci ritrovare la strada sulla linea,
mentre il cielo s’accorge della goccia
che precipita sul cane che spaventa
abbaiando alla catena
fresca di pittura.
E nudo teschio di luna,
ciotola di ceramica,
fissa con occhi
pieni di saldatura.
Sfrattata da una nuvola
Un angelo mi chiama,
e non ha nastro rosa
di stella nascente,
ma è sole che si spegne,
in quella sensazione attesa,
in cui la porta sta per essere chiusa.
E ci lasciamo così, salendo,
dopo esser caduti
per un attimo nel mondo,
come una foto sciolta nel fuoco.
***
Uno, cinque, dieci
Non ho mai lavorato, mai una festa,
tanto tempo per ragionare, testa persa,
diceva sempre mio padre.
Allora non ragiono, non c’è ragione…
“Che fai tu, ragione…dimmi, che fai,
silenziosa ragione?”
Sogno…lego un occhio al fil di fumo d’oppio;
sento mani calde che mi attraversano il corpo;
arma ormai scarica mi sono sepolto,
come una barca sventrata arrivata
in un porto, dentro un’onda
dal volto di donna.
Annunciato quel dio drogato e proibito
rimasto sempre uguale alle sue domande
che col dramma si capisce
ma non cambia niente,
un dio non è sufficiente,
nella massa che si muove e mi commuove
perché non c’entro, uno fuori solo dentro;
non è rimorso ma assenza,
di denti in una bocca cucita con nastro isolante
davanti al latte che bolle nel seno in cucina che batte,
logica fonte primitiva.
Non lavoro, non ragiono; non c’è ragione;
non ho ragione?
***
W. Blake vision
Tutta la resistenza cede nelle vene
come uno sputo d’acqua esce dalla diga
dopo lo scucito di un buco d’ago.
Ogni “maledetto crepa!” si allarga.
Rigettato a precipizio su ali di farfastra,
nell’abisso un chiodo di luce mi penetra…
una ventosa seppia sulla spiaggia
attaccata come orecchio della terra:
il treno estivo sta correndo sibilo di ferro,
appare la tecnica del sonaglio
muore la lenta strategia della Troia
appena accesa l’alta fiamma di benzina.
Chi è che canta in spagnolo
Aspettando nel petto lo sparo?
Anche lui morto ad occhi aperti
Continua a guardarci.
Ci nascondemmo tra gli alberi,
ed i rami lanciarono nel vento le nostre voci
mentre i tronchi contavano i numeri
e si incidevano nel ventre le lettere,
scivolate nel taglio, bruciate o cresciute.
All’uccello più esile affidiamo le nostre anime,
e da verme striscerò dal cielo su queste righe
con poche frasi felici in costruzione verticale
che vanno a scendere e non danno mai ragione.
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Una pagina che odori di femmina:
sappia ciò di che sa una donna,
sia lei, ragazza che ha consumato
la bambina, come ogni lettera
una pagina.
***
Fibrille
Ho in valigia un fuoco di un viaggio
Ritorno e mi ritrovo scalzo, mi disgelo
Sotto il sole come sangue di passaggio.
Nelle vie nuove vicine:
fibrille, le grida, delle parole,
e nell’occhio umido del paese
rivedo le case diverse
e le donne che erano per me ragazze,
che invadevano le strade
le fantasie e le piazze,
ora passano dietro finestre,
ne riconosco le linee delle facce
memoria di un sapore dolce.
Calcolo la distanza di ogni parete
Come la musica nello spazio
Corre nella luce e fa vibrare sbarre
Trasformandole in file di sete
Di scrittura fragile su nuovi muscoli
Di dita con unghie rotte.
Rintraccio l’orizzonte dietro le spalle
Nell’assurdo ritentare
La combinazione tra essere e volere.
***
Lontana vertigine
Ogni voce un colpo di tosse nell’aria,
la mia fede crolla senza una parola,
ti vedo scendere scala dopo scala
salire in gola accendendo una scintilla
di memoria senza paura.
Come d’inverno il fiato
appeso alle labbra,
la tua pelle d’estate evapora
nel mio abbraccio che trema,
voce lontana amore…nuda.
Buttiamo a mare quel che resta
delle nostre ossa,
e lasciamoci mordere l’anima
dal cielo, presente la luna,
i nostri occhi reclama.
***
L’ultimo sogno
Il mare si gonfia in mille seni,
di nuovi saperi mi si riempiono i polmoni.
Del mio soffrire i tuoi occhi custodi,
mi spengo su una striscia d’una lacrima
e a me s’accosta la tua anima.
***
La vita in tasca
Fammi sedere oh mente nomade.
Tende in agguato nel cielo grattato
Il mio rimpianto di terra ferma
Nel petto della mia cardiopatia.
Troppo staccato su una zolla alla deriva
Sul mare oceano dall’abisso sospeso,
senza viveri, con la sola vita in tasca,
in continuo movimento su rapide
rigurgito di divinità improvvisate.
Delfini organizzati come pirati
Indicano la spiaggia dei manti nudi,
là, una palma da deserto, parla,
rifugiatisi dentro le sue ciglia
migliaia di uccelli di origine notturna.
Felina misantropia avventurosa
In posizione fetale su coperta rugosa.
Visiterò la leggenda della donna murata,
visiterò la tomba della stanza fiorita,
seguendo il profumo di ginestra di una stella,
mettendomi in tasca insieme alla vita
un pugno della mia terra, senz’acqua,
rimasta a galla, come la pelle di una barca,
perché un enorme amore non muore
ma si seppellisce al centro del cuore
dove il seme segreto della terra vive.
***
Oltreuomo
Era uno che andava con le stelle di strada
Perché odiava le donne e gli uomini non amava.
Ecco l’uomo,
morto di poesia,
quando a scatti
s’è organizzato la sua fine.
Non scaverà più la fossa
Del calore per l’inverno,
non costruirà la tana del refrigerio.
Il suo sogno,
sparso di fiori
non fu innaffiato
da lacrime d’amore.
Ma una barca svenata
Taglia la schiena del mare scacciato,
a panza all’ario
digeriamo la nostra parte di cielo,
per cinguettare.
Immersi nel fango lasciamo una ferita
Che scompare nel momento in cui s’è aperta.
Selvaggi perdiamo pelle come porci scannati,
e non ci sarà guancia senza gocce annegatrici.
E con le gocce alla gola
Evaporare in uno sbuffo
D’aria antica, d’ombre greche.
Lieto fine, happy end:
tutti i sogni finiscono in un regno,
tutti i regni finiscono in un sogno.
***
Turba
Non mi destreggio
Tra lo spettacolo delle lingue gentili.
Floscio mestiere il nuotatore di carta,
ci si scompone in mille fradice lettere.
Già la radice ha scavato la calma,
anima non più salva,
intendo distendermi in un forno
e uscirne pane.
Vorrei mangiare sempre dolci di Natale…
Dall’aria trapassato come rete pigliatutto,
dal mare attraversato come nave mercantile,
dalla luce nel cuore perforato
da spade medievali,
rivibro di superstizione e mi aggrappo alle corna
per vincere alle carte.
In una grasta faccio una buca,
ci pianto i miei piedi
e aspetto di crescere.
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Angelo Rodà, in arte Alièn Rodà, poeta, narratore, pittore e disegnatore, nato a Dielsdorf (Svizzera) nel 1975 vive a Bova Marina, in provincia di Reggio Calabria. E’ Membro Honoris Causa del C.D.A.P. Centro Divulgazione Arte e Poesia. Tra i vari riconoscimenti ottenuti il Premio speciale S. Domenichino e Il Premio Hemingway e la Menzione d’onore al Premio poetico musicale di Basilea. Ha pubblicato le raccolte: ‘Sconfinamomenti’ nel 2001; ‘Tracce in acqua’ nel 2005; ‘Il silenzio non è tacere’, nel 2007.