Madri che uccidono i figli. La scrittrice indaga e scandaglia il sentimento che separa la madre dal figlio fino al punto di portarla a sopprimerlo
È molto significativo che l’attenzione della scrittrice Romana Petri abbia messo in luce un argomento molto forte, scottante oggi come ieri: quello delle madri che uccidono i propri figli. Un argomento che in taluni casi divide l’opinione pubblica, e divide soprattutto le donne, quelle che hanno messo al mondo dei figli e che hanno conosciuto l’esperienza della maternità come un potenziamento della propria individualità e quelle che invece non hanno fatto figli e che hanno vissuto questa condizione come una privazione, un indebolimento della propria femminilità.
E’ quanto si evince dalla lettura dei dodici racconti pubblicati da Romana Petri con il titolo di “mostruosa maternità” (Giulio Perrone Editore, 2022).
Intervista a Romana Petri
di Luigia Sorrentino
Roma, 2 settembre 2022
Lei, Romana, madre a sua volta, non giudica le donne delle quali ci racconta. Non si pone con loro né contro di loro. Perché non le giudica? Che cosa vuole suscitare nel lettore?
“Una lezione che ho imparato bene è quella di Flaubert. Chi scrive deve riportare le cose come stanno, anche quando inventa. Vuol dire, raccontare mettendosi da parte, non solo senza emettere giudizi, ma nemmeno interpretare al posto del lettore. Il lettore deve essere libero di fare suo il libro, di continuarlo, di rimasticarlo dentro di sé, di stare da una parte o dall’altra. Se lo fa chi scrive lo condiziona.
Io credo in un rapporto di collaborazione tra chi scrive e chi legge. E spesso può capitare che un lettore abbia una visione di quel che scrivo io molto diversa dalla mia. Sono situazioni che mi piacciono molto, perché chi scrive è l’ultimo che può spiegare quel che fa. Nelle presentazioni ci proviamo, ma è una visione parziale. Per questo sono interessantissimi i circoli di lettura, perché si parla del proprio libro con persone che lo hanno già letto. Sono situazioni nelle quali imparo molto sul mio lavoro”.
Nel primo e nell’ultimo racconto riprende il caso di Annamaria Franzoni condannata in primo grado con rito abbreviato a 30 anni di carcere per l’omicidio del figlio Samuele, omicidio mai confessato dalla donna. La Franzoni è tornata libera nel 2019 per buona condotta, e il suo è stato, in assoluto, il caso di cronaca maggiormente seguito dai media. Nel suo primo racconto la Franzoni parla, a volte sembra pensare a alta voce. Nell’ultimo, sono due donne a confrontarsi sul caso “Franzoni” dal parrucchiere. Una è colpevolista l’altra è innocentista. Dal primo racconto sulla Franzoni emerge una generale condizione di insoddisfazione e di sofferenza della donna non percepita come grave dal marito. Cosa questa che ritorna anche nell’ultimo racconto, nel confronto fra le due donne. E’ come se dalla loro “chiacchiera” nascesse un dubbio sulla maternità, sul come debba essere o non essere una madre.
Romana, crede che non esista la madre perfetta? Pensa che dietro la “mostruosa maternità” si possa nascondere una buona dose di responsabilità nei mariti delle donne che uccidono i propri figli?
“Allora, io sono e sarò sempre convinta che l’unico omicidio ammissibile sia quello per legittima difesa. Non ce ne sono altri. Credo molto anche nella responsabilità personale, quindi una madre che uccide il proprio figlio, al dunque lo ha fatto lei. Può essere un raptus o una decisione fredda e calcolata, come il terribile, ultimo caso di Diana, lasciata sola a casa per sei giorni a sedici mesi.
Quando si parla di femminicidio, per fortuna non pensiamo mai che la donna abbia potuto influenzare con il suo comportamento l’uomo ad ucciderla. L’uomo la uccide perché è un assassino, perché non sa gestire l’abbandono e perché spesso il femminicidio è un omicidio di Stato perché le donne, anche quando vanno alla polizia non sono ascoltate.
Dunque, premettendo che nessuno può arrivare al punto da far commettere un omicidio a un’altra persona se questa non è già predisposta di suo, io direi che la responsabilità principale è della madre che uccide, poi c’è tutto il resto, soprattutto un’assenza dello Stato, anche perché purtroppo, della vita che i bambini molto piccoli fanno in casa non sa nulla nessuno. La casa può essere davvero una prigione. Vediamo gli ultimi casi. Una madre uccide il figlio perché il bambino si è accorto che lei a una relazione con il suocero; una madre uccide con undici coltellate la figlia perché quest’ultima si sta affezionando alla nuova compagna del padre; l’ultima la lascia sei giorni da sola per stare con il suo nuovo compagno, al quale, ovviamente, dice di aver sistemato la bambina presso sua sorella al mare.
In questi casi, chi può aver spinto la madre a uccidere i figli se non la fragilità della madre stessa? Le donne hanno un profondo senso di autodistruzione. Il mondo ha insegnato alla donna a non stimarsi, a non amarsi, a pensare sempre di valere poco.
Il peggio avviene sempre quando l’ego viene ferito. Pensiamo al suicidio.
Quali sono le maggiori cause di suicidio?
Delusioni amorose e fallimenti sul lavoro. Tutto quel che ha a che vedere con l’ego.
Si è mai sentito di chi si è suicidato per la morte di una persona amata, magari proprio di un figlio? Viviamo da sempre (vedi Medea) nel culto di noi stessi. Guai a chi tocca quella parte così fragile, così esposta, che ci pulsa addosso come un cuore scoperto. Appeso al petto”.
La sua narrazione esprime un forte disagio sociale che vivono alcune donne oggi all’interno della famiglia. Anche se le madri che uccidono i propri figli ci sono sempre state e infatti i suoi racconti sono ambientati in epoche differenti. Essere madre oggi come ieri è una responsabilità che incombe principalmente sulla donna nella relazione con il figlio, ma anche con il marito, o con il proprio compagno. Ci sono donne che hanno una storia difficile alle loro spalle, non sufficientemente elaborata dalla donna stessa, altre donne, invece, quelle che hanno avuto la possibilità di elaborare il proprio vissuto riescono nella maternità perché non riflettono sui figli i propri fallimenti, la propria autodistruzione. Insomma il figlicidio può celare il dubbio che la responsabilità non sia soltanto delle madri che lo commettono ma anche della società che ha inculcato loro di dover essere madri a tutti i costi?
“Anche qui dipende molto dalla personalità della donna. E non ci sono dubbi, non tutte sono nate per essere madri, la maternità deve essere una scelta. Purtroppo la donna, a differenza dell’uomo, ha un ciclo riproduttivo oltre il quale non può andare. Ecco perché a volta può capitare che sentendo la corsa affrettata del tempo possa decidere di avere un figlio prima che sia troppo tardi. Come se un possibile rimpianto possa essere più grave di una scelta sbagliata. La donna ha la possibilità di procreare, non l’obbligo.
Vedremo cosa accadrà dopo le elezioni… Già si parla di bonus per chi ha figli, di pensioni anticipate per le madri. Insomma un incentivo a “figliare” comunque. E poi c’è un fondamentale pregiudizio che ormai ho rinunciato a veder scomparire: una donna non madre non è una donna completa. Lo abbiamo mai sentito dire di un uomo? No.”
La letteratura può raccontare e far riflettere molto più della chiacchiera, del dito giudicante puntato sulla madre assassina tipico del giornalista di nera dal quale lei si discosta nettamente. La sua narrazione è potente perché mette in luce l’anima nera che è presente in ognuno di noi.
“Siamo tutti figli di Caino e non di Abele. Il lato oscuro ce lo portiamo dentro. È un seme con il quale nasciamo, veniamo al mondo e ce lo danno in dotazione. Poi dipende dal tipo di vita che affronteremo se questo seme resterà tale o diventerà una pianta; dalle persone che incontreremo e dalla nostra forza di volontà. Accade lo stesso anche per il bene, per il talento. Siamo i protagonisti della nostra vita, proprio come fosse un film, ma anche il più piccolo comprimario può avere la sua importanza. Mi viene da dire che sia per il bene che per il male, ogni tanto abbiamo bisogno di un annaffiatoio che gli dia di che crescere. Ma poi dipende da noi. La violenza non mi stupisce, fa proprio parte dell’essere umano. Però continua a indignarmi. Tutte le persone in pericolo dovrebbero essere aiutate. Simone Weil parlava di fratellanza, di uguaglianza, di giustizia. Un’ illusione così grande che alla fine anche una come lei ha rinunciato ai suoi ideali”.
Forse si potrebbe pensare che nella sua narrazione alcune donne commettano questo crimine per ragioni profonde, radicate nella loro esistenza, in altre il crimine è assolutamente superficiale. Accade a quella madre che nel suo racconto si suicida sulla Prenestina a Roma con il figlio perché è ingrassata e il marito la tradisce.
“Le donne non dovrebbero subire così tanto il giudizio dei loro compagni, perché ce ne sono proprio di indecenti che dopo il parto considerano la loro compagna nient’altro che la madre del loro figlio, solo perché dopo il parto non è più tornata immediatamente come prima. In questo la donna dovrebbe emanciparsi.
Se un compagno vive in casa con te, ma come compagno e come padre non esiste, allora non bisogna avere paura della solitudine. Meglio chiedere aiuto altrove che rischiare di farsi fare il lavaggio del cervello.
Ci vuole una forte personalità per non dare importanza a uno sguardo che ci oltrepassa come fossimo trasparenti. Restare accanto a uno sguardo così ci farà malissimo, possiamo caderci dentro e finire nell’abisso. Ma alcune donne preferiscono l’uomo al figlio, danno un’importanza determinante al desiderio che suscitano. Se di questi uomini si liberassero sarebbero profondamente più felici, più belle. Certe volte, rimanere sole è la miglior cura possibile. La solitudine come creatrice di nuove possibilità”.