Archivi categoria: MARIO BENEDETTI (POETA ITALIANO)
Quante parole non ci sono più
Tributo a Mario Benedetti
di Luigia Sorrentino
«Povera umana gloria
quali parole abbiamo ancora per noi?»
da Umana gloria, MARIO BENEDETTI
E’ già passato un mese. Il 27 marzo 2020 è morto l’amico e poeta Mario Benedetti. Eravamo in piena epidemia, chiusi nelle case, per difenderci dal nemico invisibile.
Subito dopo la notizia della scomparsa di Mario, su mia iniziativa, con la collaborazione di Fabrizio Fantoni, a partire dal 27 marzo 2020, abbiamo invitato diversi poeti famosi, giovani poeti e critici militanti, a inviare al blog, ricordi, testimonianze o articoli per rendere Tributo a Mario Benedetti.
La mia intenzione era quella di innescare una militanza poetica sulla figura e sulla poesia di Mario Benedetti poeta italiano, morto con il covid-19, in un tempo in cui tutto il pianeta si è fermato proprio a causa del diffondersi dell’epidemia.
L’auspicio, quindi, era di fermare l’attenzione dei nostri lettori, pubblicando uno o due post al giorno per ricordare per 31 giorni (un mese) la poesia di uno dei maggiori poeti del nostro tempo. Certo è che di lui non sentivamo più parlare dal settembre 2014, e cioè dal giorno in cui Mario fu colpito da arresto cardiaco con ipossia cerebrale che aveva compromesso, in gran parte, le sue capacità cognitive.
Mi è sembrato doveroso, pertanto, offrire il tributo del blog poesia a un importante poeta contemporaneo, uno dei migliori della sua generazione, noto e apprezzato da molti, fino a sei anni fa. Purtroppo di Mario Benedetti non se ne parlava più da tempo. Era caduto nel silenzio assordante dell’isolamento e della malattia.
Eppure Mario era vivo, ancor vivo, e amato dagli amici di sempre che non hanno mai smesso di fargli visita nella residenza di Piadena, vicino Cremona, nella quale Mario, in precarie condizioni di salute, era ricoverato e assistito.
Fra le tante persone che abbiamo invitato a scrivere di Mario, o su Mario, come detto prima, poeti noti, giovani poeti e critici militanti. Alcuni di essi conoscevano bene la poesia di Benedetti, altri meno, altri ancora, avevano letto solo qualche suo libro, molti non l’avevano mai incontrato di persona, o solo di sfuggita.
Comprendendo nell’elenco me stessa, sono 35 i poeti e i critici che hanno deciso di partecipare all’iniziativa, che si snoda, giorno dopo giorno, a partire dal 27 marzo, come un libro. Uno fra loro ha tenuto a precisare: “Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene e di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio.” Continua a leggere
Il sogno di vivere di Mario Benedetti
di Fabrizio Fantoni
Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.
La prima impressione che offre questa poesia Per mio padre, tratta da Umana gloria (Mondadori, 2004) è di sfogliare un vecchio album di fotografie, lasciato abbandonato da qualche parte , e poi ritrovato.
I paesaggi, le case, gli interni delle stanze dove si consuma l’intimità familiare, gli oggetti della vita quotidiana, si dispiegano sulla pagina come su una scena, convocati dal poeta in una dimensione fuori del tempo e del reale e si fanno, nello spazio della poesia, “fiaba” intesa come dimensione della bellezza sul punto di scomparire, della grazia per un attimo intravista e poi persa, proprio come le apparizioni trascoloranti che popolano le storie.
Si racconta che il faraone Micerino, essendo condannato dagli dèi a vivere una vita breve, decidesse di illuminare con migliaia di fiaccole i suoi palazzi e i suoi giardini in modo da trasformare le notti in giorno ed avere la percezione di vivere più a lungo.
Questa è la metafora più bella del poeta perché, del resto, cosa fa il poeta se non cercare di trattenere, quanto più possibile, quel poco che gli è dato di vivere?
Mario Benedetti, di certo, va in questa direzione, ponendosi, tuttavia, ad una “distanza”dalle cose – la distanza propria del sopravvissuto, di chi può narrare ciò che è stato prima del naufragio- che gli permette di imprimere all’oggetto della sua rievocazione un carattere simbolico che si fa specchio di un paesaggio metafisico interiore in cui l’essere umano appare costantemente sul punto di dissolversi:
“solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi” Continua a leggere
«L’ho letto su un foglio di un giornale. Scusatemi tutti.»
Giornale di un infante saggio (e insolente)
di Alessandro Anil
Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.
Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».
Mario Benedetti, fra un secolo e l’altro
di Elio Grasso
I.
Letture domenicali. Quando lusinghe stevensiane e privilegi d’autore strisciano sopra l’acqua del bagno caldo, raggiungono la punta del naso, compiacendone l’olfatto, e tutto è protetto dalle pareti domestiche, ostacolando il freddo novembrino. Un’altra lettura domenicale, sull’onda di un piccolo dono giunto dalla lontana Gorizia, che vorrei suggerire ai pochi felici lettori di “Poesia”: Una terra che non sembra vera. Agli altrettanto pochi dotati di buona memoria il nome di Mario Benedetti dovrebbe ricordare uno scritto su Padova, nella fortunata serie, ospitata qualche anno fa sulle stesse pagine della rivista, dedicata alle città dei poeti. Ricordo anche un’accesa recensione a I secoli della Primavera, precedente libro di questo autore schivo, timido, ma ben presente nelle nostre personali testimonianze poetiche. Una giuria composta, fra gli altri, da Silvio Ramat, Nico Naldini, Andrea Zanzotto, ha deciso di premiare questa piccola raccolta, facendola pubblicare da Campanotto. Credo, pur non conoscendo gli altri partecipanti al premio S. Vito al Tagliamento, che questa sia stata una decisione salutare, una di quelle decisioni che prendono il volo senza riserve. Così le poesie di Benedetti scendono da quei rami che egli sapientemente agita, lungo il corso dell’esperienza quotidiana e geografica (i percorsi sono quelli, vanno da Udine a Milano seguendo un’alta via di nevi e parole perenni), lungo le pieghe della terra che raggiungono le nostre case. Tempo e misura del tempo, misura dello spazio memoriale, tutto questo c’è senza che vengano costruiti rifugi trasognati. Mi sembra che il bisogno del padre, della donna, dei poeti, venga prima di tutto difeso dalle incombenze quotidiane, e poi condotto nell’alveare che contiene sì segreti, ma anche parole buone per la semina. Parole capaci di migrare con qualunque stagione. Le premonizioni del cuore si allargano nei versi di Benedetti in un modo che, di sicuro, non tengono lontano le prove tangibili del mondo: fiumi come i nostri, marine concrete e odorose, monti invalicabili e boschi attraversati da galatei famosi. Nella domenica delle nostre domeniche ci ritroviamo sui passi di Catine e Giovanni, di Esenin e Annina e Silvio, seguendo la traccia odorosa del sigaro di Vanni. Su altri terreni, baltici, ci sembra di vedere le scogliere leggendarie che l’occhio di questo poeta ha saputo trattenere, senza mezzi termini, senza facili genealogie o somiglianze. Quello che resta, appartiene ai nostri anni. Non è facile appartenervi, ma di sicuro dobbiamo insistere a studiarne principio e mutazione. Ecco, con un libro minuscolo come questo, tutto forse ci apparirà meno difficile e meno freddo.
(1997)
La dimensione potentemente elegiaca di Benedetti
Appunti sul paesaggio in Andrea Zanzotto e Mario Benedetti
di Giovanna Frene
Non ho mai conosciuto di persona Mario Benedetti, e se questo può dispiacermi ora a livello personale, mi dà però una sorta di vantaggio a livello teorico e poetico, pensando essere ottimale per leggere un autore la condizione descritta Proust in un passo del suo Contro Sainte-Beuve: “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi. Un tale io, se vogliamo comprenderlo, possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi, sforzandoci di ricrearlo in noi”. In questa distanza che la morte ha reso ormai incolmabile, Mario-Benedetti-poeta mi appare in questo suo io profondo che cerco di ricreare in me rileggendo i suoi testi, pensando che sono ciò che esattamente lui voleva rimanesse di sé stesso, qui isolata a casa e lontana da qualsiasi rumore di fondo del mondo che arrivi a disturbare questo suo puro messaggio nella bottiglia.
È in questo silenzio che mi è apparsa un’inedita vicinanza tra Benedetti e Zanzotto, il quale non a caso apprezzò e recensì alla radio svizzera Il cielo per sempre, la raccolta che Benedetti diede alle stampe nel 1989. Non è certo questo la spazio per esporre con una neppur lontana esaustività i punti di reciprocità tra i due poeti, ma un elemento che si può già da ora fissare riguarda il paesaggio. La portata dell’influenza della poesia zanzottiana ha tra le sue caratteristiche anche quella di avere tracciato degli holzwege attivi a livello geografico, sentieri che poi altri poeti hanno continuato con propri personali sviluppi, o con sviluppi del tutto altri; in questo senso, è chiaro che il cosiddetto “primo Zanzotto”, quello che potremmo dire più schiettamente paesaggistico, ha un rapporto diretto di paternità con un libro come Umana gloria, costruito e sedimentato su altri libri precedenti; anzi, è proprio da questo giovane Zanzotto elegiaco che scorga, seppur in maniera diversa, la dimensione poi potentemente elegiaca di Benedetti. Continua a leggere
Benedetti, “Un corpo a corpo con la vita, con la lingua”
“Tutta una vita per chi vi deve ricordare”. Su Tersa morte di
Mario Benedetti
di Massimiliano Mandorlo
Un senso di umile e ostinata accettazione davanti alla morte attraversa Tersa morte di Benedetti, quasi in forma di testimonianza. Fin dall’essenzialità del titolo si possono cogliere i tratti, lucidi e taglienti, di questa sofferta osservazione della vita umana nel suo «continuo affaccendarsi», nei suoi minimi, concreti e dolorosi dettagli: «il malato ai due polmoni / i pantaloni larghi, /il viso con la pelle attaccata alle ossa», «il condizionatore Hisense», «l’abito blu / che mi avevi regalato e tutto il ricamo /del foulard», «la coperta sui piedi», fino ad arrivare a particolari anatomici descritti con nudo realismo: «mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, / la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti […] Così fragile il tuo sorriso, / lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque». Quello di Benedetti pare essere un corpo a corpo con la vita e con la lingua, nel tentativo di superare una dolorosa impasse in cui riaffiorano con durezza e commozione, senza enfasi od orpelli, i ricordi indelebili di una vita: «Le parole non sono per chi non c’è più. / Si commuovono e possono dire il viso morto. / Gli occhi erano quelli che mostrava, /il vestito sepolto quello visto altre volte. / Vedere che non ci sei più, non dire niente». Continua a leggere
L’uso materico del linguaggio nella poesia di Mario Benedetti
Scarto non minimo
di Edoardo Zuccato
Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio. Ho incontrato solo occasionalmente Mario e l’ho frequentato in prevalenza nei suoi i versi. Non ho quindi ricordi personali da offrire ma solo qualche riflessione critica sulla parabola complessiva della sua opera. Rispetto a Stefano Dal Bianco, l’altro animatore del progetto di rinnovamento poetico elaborato da Scarto minimo negli anni Ottanta, Benedetti ha conservato nella sua poesia più Novecento. Il verso “che si allunga sempre più”, come mi disse lui stesso una volta negli anni Novanta, è collocabile all’interno di una tradizione di spostamento della poesia verso la prosa, nel suo caso provocando un cortocircuito fra forma antilirica e sguardo lirico. Il rasoterra di Benedetti era funzionale al suo sentimento della vita, quella mestizia cinerea che più di ogni cosa rimane addosso a chiunque legga un suo libro. L’orizzontalità del linguaggio è scossa da salti logici, occasionali slogature sintattiche e frammentazione del discorso, tratti stilistici divenuti dominanti nelle ultime due raccolte, che recuperano anche una dose di citazionismo. Frantumazione, balbettii e uso materico del linguaggio, con accumuli nominali e scarsità di verbi, spostano la poesia verso la stasi della pittura, con un solo movimento sotteso, quello verso la mineralizzazione. Continua a leggere
“E stare soli è più grande”
di Giovanni Ibello
Si è scritto tanto in queste settimane su Mario Benedetti. Devo dire che ho molto apprezzato la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog “Poesia, di Luigia Sorrentino” su Rai News abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di questo autore. Mario Benedetti sapeva individuare con esattezza il confine tra biografia e slancio universale della parola poetica. A mio avviso la sofferenza fu per il poeta non tanto una personalissima trincea esistenziale, come invece è stato scritto nei giorni passati, bensì un prezioso cifrario che gli ha consentito di sondare e decodificare l’umano, sia nelle sue espressioni più elevate che in quelle più misere: la commozione (“E piange la parola che riesce a dire”), il disarmo, la solitudine, lo smarrimento, la metastatica condizione dei fragili, il peso delle cose, “il peso degli oggetti… il loro significare peso e perdita” (come peraltro scriveva Amelia Rosselli in Documento, Garzanti, 1976).
Ha perfettamente ragione Antonio Riccardi quando scrive (in introduzione al volume Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017) di un poeta “fedele alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse”. La poesia di Mario Benedetti, certamente umile e antiretorica, si pone dunque come un atto di conoscenza essenziale della vita, dello smarrimento (come archetipo dell’esistenza) e della morte. Non si può giammai parlare di mero diarismo (a tal proposito è magistrale l’emistìchio “Si diventa altri occhi per morire dovunque”, da Tersa Morte, Mondadori, 2013). Il poeta non fa mai esplicito riferimento alle sue vicende private, ma ci mostra un’umanità desolata (“adesso che piangere è pioggia, / e stare soli è più grande”) e lo fa adottando una sintassi franta e faticosa. Va da sé che in Benedetti la forma esprime anche una co-sostanza del pensiero poetico. Con la sua testimonianza in versi, Benedetti ci confessa che “il poeta da semplice creatura che vive nel mondo diventa colui che crea e rinnova perpetuamente il mondo stesso” (questo l’auspicio di Adonis in La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, 2005). Benché si tratti di un modo di “stare nelle cose della vita” pienamente consapevoli della propria caducità, è curioso che la parola di Benedetti sembra quasi celebrare un’assenza, stringere intime alleanze con un vuoto di parole (che “non sono per chi non è più”) e di interlocutori. Continua a leggere
Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti
di Alberto Russo Previtali
La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.
In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere
Testimonianza su Mario Benedetti
Vedere nuda la vita
di Gianluca Furnari
Scrivere di Mario Benedetti è «peso non da le mie braccia», ma accolgo comunque il tuo invito a farlo, per raccontare in poche battute quello che un lettore di poesia della mia età ha cercato e trovato nei suoi versi. Stasera, tornando sulle sue poesie a distanza di tempo, scopro che si è amplificata in me una sensazione che avevo accettato solo in parte durante la prima lettura, cioè la sensazione di essere messo al muro. «E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni, / e una vita così come sempre da farmi solo del male». Sembra inopportuno, di fronte a una lingua così asciutta, parlare di commozione, e in effetti è come se questi versi mi portassero rasente al pianto, mettendomi davanti «nuda la vita», e mi costringessero a non piangere.
Per me che non l’ho conosciuto Benedetti parla solo dalle parole che ha scritto, e dal volto che campeggia sulla copertina dell’edizione Garzanti di «Tutte le poesie». Credo che l’uscita di questo libro sia stata una scossa elettrica per un’intera generazione (la mia) di lettori di poesia. Nessuno degli amici con cui ho tirato le somme, a lettura conclusa, ne aveva ricavato un’impressione tiepida; si era formata intorno a questo libro un’unanimità di sentire che ho visto replicata molto raramente, in seguito.
C’è un ricordo molto nitido che associo alla prima lettura di Benedetti, anzi alle settimane in cui la medicina dei suoi versi aveva cominciato ad agire dentro di me: ero appena uscito da una cerimonia di commemorazione funebre, e il contrasto tra la cupezza dell’ambiente e lo sfarzo della celebrazione deve essere entrato oscuramente in cortocircuito con i versi di Benedetti. Mi sono sentito improvvisamente fuori posto dentro me stesso, tramortito dalla sensazione che la mia vita fosse colpevolmente impastoiata dentro le maglie di una falsa coscienza, di una retorica su me stesso, che le parole di Benedetti avevano appena scoperchiato, additandomi però una strada alternativa, più impervia e più autentica. Non so se ho dato risposta alla domanda di questi versi, ma il loro rigore e la loro umiltà, che sembrano venire dalla mano di un bambino molto severo, mi hanno ricordato quanto sia labile il confine tra una grande avventura estetica e il presagio di una conversione morale. Continua a leggere
Il luogo della poesia di Mario Benedetti
Mario Benedetti. Il poeta che ha trasformato la morte nel morire
di Luigia Sorrentino
“E’ stato un grande sogno vivere / e vero sempre, doloroso e di gioia”, scrive Mario Benedetti in Umana gloria (Mondadori, 2004). Il verso sembra una confessione fatta in punto di morte. La voce arriva come un soffio. Imprime, in chi ascolta, coraggio, perché fa comprendere che la vita di ogni essere umano è – o dovrebbe essere – nella totalità, coscienza ispirata. Questa è la prima riflessione che i versi trasferiscono. La voce-soffio fa penetrare in chi ascolta, come una gioia.
Eppure il poeta sta dicendo che dal grande sogno della vita ci si risveglia morendo. E’ in quell’istante che il sogno scompare e lascia in chi ha sognato di vivere, una verità dolorosa e di gioia. E questa è una delle molteplici dimensioni nella quale si muove la poesia di Mario Benedetti: in Umana gloria, in Pitture nere su carta, Materiali di un’identità, Tersa morte. Siamo sempre nell’estensione del lasciarsi, del dirsi addio.
Così si legge nella prima poesia contenuta in Umana gloria:
Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono
Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.
Ma questo dissolversi no, e lascia dolore
su ogni cosa guardata, toccata.
Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.
Siamo di fronte a una poesia che s’identifica con un’entità immaginaria, una persona del suo tempo, che sostiene una verità senza alcuna retorica. Il parlante ascolta, intuisce se stesso come interiorità e rivela un’ autenticità che non sempre siamo disposti ad accettare. Il lettore è quindi invitato a liberarsi dalla sua dimensione esistenziale e a entrare in un essere di carta che parla di un io che s’identifica con il suo tempo, con uno stratagemma letterario.
Sempre la poesia porta in una dimensione del vero, dalla quale possiamo lasciarci invadere per poi ritornare a noi stessi, per calzare la maschera che nasconde il nostro volto nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni.
“E stato un grande sogno vivere/ e vero sempre, doloroso e di gioia”.
Ripetendo i due versi, seduti accanto alla persona che li pronuncia in punto di morte, tenendogli stretta la mano, avvertiamo la vibrazione, la risonanza che percuote la cassa armonica del nostro torace e si congiunge al sentimentodel morente. Siamo nella ragione poetica che è coscienza e al tempo stesso coscienza ispirata.
Aumenta l’intensità della vibrazione.
Il suono della parola pronunciata mette al riparo dalla paura, dall’angoscia, dalla menzogna, dall’isolamento, dalla solitudine.
Chi assiste trova in questi pochi versi, in solo due versi, l’adempimento della propria esistenza.
Il grande sogno del quale ci parla Benedetti, il sogno della vita che se ne va, è come una rosa ardente. Sereno, umile, il canto della voce che annuncia indefinitamente la profondità del lasciarsi. Chi ascolta è sostenuto dallo sguardo del poeta. Il filo di voce si trova su un territorio di confine: “E’ stato un grande sogno vivere/ e vero sempre, doloroso e di gioia.”
Il verbo coniugato al passato prossimo, circola dal limite della coscienza.
L’architettura del verso si protende e chiude il secondo verso sulla parola “gioia”. Lì, nel grande sogno, si accumula ogni spazio della vita, anche i momenti dolorosi, tutto.
Il poeta italiano, Mario Benedetti, un io lirico strutturale, sistematico e potente, affonda se stesso nell’esperienza scomparendo o estinguendosi proprio come fanno i sogni, in una coscienza ispirata. A essa si sovrappone la nostra storia individuale.
La scelta che possiamo fare noi come lettori e amanti della poesia?
Restare o lasciare queste parole.
È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.
Da: Umana gloria, di Mario Benedetti (Tutte le poesie, Garzanti, 2017)
Benedetti, “un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale”
di Andrea Gibellini
Mi viene chiesto di scrivere sulla poesia di Mario Benedetti e devo rispondere in tutta sincerità che la sua poesia non è mai stata tra le mie predilette. Altri poeti sono stati per me importanti. Se devo fare qualche nome, se il concetto di generazione poetica serve a definire qualcosa, poeti nati negli anni cinquanta in ordine sparso, sicuramente non esaustivo, come Pagnanelli, D’Elia, De Angelis, Ceni, Scarabicchi, Pusterla, Magrelli, Damiani, Anedda, la poesia dialettale di Villalta, come la poesia di cosciente confronto sperimentale e teorico di Giuliano Mesa, sono stati fertili letture. Ognuno ricerca e riscrive una tradizione poetica affine al proprio sentire, non penso così lontana da un percorso che si stava facendo due decenni ― metà e fine anni ottanta, in particolare ―, prima della fine del secolo scorso. Bertolucci, Luzi e Caproni, Fortini, Zanzotto, Giudici, erano in attività, Montale e Sereni da poco scomparsi (Stella variabile, il primo vero spartiacque del dopo Montale, è del 1982).
Facendo una riflessione generale, la poesia di Mario Benedetti sconta il fatto, ma il discorso è davvero più ampio, di non aver affrontato criticamente ― non per mancanza di accanimento e furore verso la poesia come dimostrano le sue dichiarazioni di poetica, ma per una sua esigenza, direi inevitabile, di stare con la creatività della poesia nel contraccolpo di una sorta di egotismo esistenziale ―, di non aver messo in atto, in sintesi, seppure in modo soggettivo, da poeta, l’urto storico tra poetiche, autori, generazioni. La discussione sulla poesia degli altri mettendo in discussione la propria. Il suo non è stato un atteggiamento arbitrario, è stato il compimento di un modo d’essere in relazione con un determinato modello di poesia. Continua a leggere
I secoli della primavera, per Mario Benedetti
di Lorenzo Chiuchiù
Adamisti – così Nikolaj Stepanovič Gumilëv chiamava gli acmeisti: non solo lo sguardo che coglie il punto culminante di una realtà; non solo l’equilibrio vertiginoso che fa coesistere nell’istante lo slancio ascensionale e la discesa presagita e imminente. L’acmiesmo è anche, dice Gumilëv, lo sguardo nel giorno in cui il mondo fu creato.
La poesia di Mario Benedetti vuol essere questo primo sguardo sul mondo. Le parole più che segni fonici o rimandi sono masse, corpi e sentimenti che compaiono da un silenzio di tenebra che sembra contenere da sempre la loro storia e il loro malcerto destino. Paratassi, anafora, refrain, coordinazione più che subordinazione, elenchi più che progressione: lo sguardo di Benedetti è fedele a un dettato puro, senza condizioni né legami; non esiste rete sintattica perché il mondo è puntuale, disgiunto e ogni sua singola realtà istantaneamente sfolgora o si acceca. In principio la storia non era, ciò che sarà non potrà se non illusoriamente diventarlo. Esiste semmai la fiaba come mito en petit tutto interno a una memoria biografica; esiste una melodia minima, a volte inconsapevole e sempre minacciata: chi è senza retorica è anche senza difese. Esistono i primi piani, gli unici possibili per vedere davvero le cose come res amissa (di qui la distanza di Benedetti dal realismo che conosce solo la res extensa). Si tratta di nominare le cose come sognava Rilke: «dirle così / come mai le cose stesse / intimamente sapevano di essere». Continua a leggere
Il pathos di una retorica antica
La decenza del pathos, saluto a Mario Benedetti
di Jean-Charles Vegliante
Se penso alla poesia di Mario Benedetti, indipendentemente dal legame di stima e amicizia che ci univa, la parola che mi viene spontanea è di un ritrovato pathos: il pathos della retorica antica, privo di facili sentimentalismi, alieno da certe forme di drammatizzazione alle quali purtroppo ci stanno abituando le espressioni (anche scritte, anche “poetiche”) dei social media, e altre frenesie del blogging. Dopo decenni di scritture incentrate sul logos, sia di recupero sia di contestazione, sia da ultimo di seduzione e riflessività e maniera, con una notevole risonanza europea, di tutto rispetto, scoprendo Umana gloria ero rimasto colpito – o, come diceva Emily Dickinson, “aggrappato pei capelli” – da versi quali
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.
(Umana gloria, 2004 – prima poesia)
ove il pathos, attanagliato fra l’esibita solitudine e l’ansia di dispersione, in senso (credo) anche psichico, si sostiene innanzitutto dal ritmo isocrono (tre volte due ictus) internamente variato dalla modulazione scalare delle posizioni metriche (5, 6, 4), riaffermato dalla triplice allitterazione (so, t-, per). Tutt’altro che sentimentale; o, se si volesse volgarmente dire, “di pancia”; o, all’americana, “romantic”. C’è, nel semplicissimo dettato di questa frase-verso, una perizia invidiabile, già collaudata da anni di “gavetta” in Scarto minimo (con Dal Bianco e Marchiori), attraverso il superamento delle ricerche di neo-avanguardia e delle reazioni espressionistiche o cosiddette “innamorate” successive. Siamo messi davanti a una pura (o “tersa”) dizione che potremmo forse candidare – come un tempo si fece con quella del primo Saba – all’idea di classico. Eppure, dovevo leggere ben altro – comprese alcune prose, critiche e non, del poeta e collega Benedetti –, riflettere sulla mia stessa formazione di stampo strutturalistico e partecipare a certi esercizi di traduzione collaborativa, prima di impegnarmi, secondo i miei modesti mezzi, nella difesa e diffusione (ancora più modesta, quest’ultima!) della poesia di Benedetti in Francia. – Così per una scelta (M. Benedetti, De noirs poèmes) su Le nouveau recueil di Maulpoix a fine 2009 [http://www.lenouveaurecueil.fr/Benedetti.pdf], circa due anni dopo i primi cordiali scambi elettronici con Mario. – A scanso di equivoci, aggiungo tra parentesi che il grande Pascoli medesimo è colà pressoché sconosciuto: ci son voluti sei-sette anni per trovare da pubblicare un librino (saggio e scelta antologica), L’impensé la poésie, debbo dire di scarso successo. Questo passa il convento. Insomma, un compito non facile, anche se alcuni testi hanno trovato da subito un pubblico “comune”, il più arduo da toccare in letteratura, e sono stati messi in musica anche per giovani ascoltatori (Giovanni Peli, Accorgetevi). Continua a leggere
Lo sguardo ripensato di Mario Benedetti
di Carmelo Princiotta
Rileggo Umana gloria. Le poesie di Benedetti sono spesso scritte come un ripensamento dello sguardo. I suoi verbi fondamentali sono guardare (anche vedere) pensare, dire, andare e venire. L’io è uno sguardo: «Io che sono delle cose negli occhi / ma non so dire come sono quando le guardo». E le cose? «Le cose che si vedono / sono storie di gente morta». Oppure: «Le cose arrivano dalla pubblicità / o da dentro i suoi occhi / dove nessuno vede perché ci sono solo i morti». Friulano estremo, come annunciato da Slavia italiana e Slovenija, Benedetti ha poi vissuto altrove, pur continuando a scrivere di quella frontiera, e da una frontiera non più geografica ma diciamo pure metafisica, quella fra vivi e morti.
L’andare è quasi sempre un andare via. Benedetti è un poeta del mancamento: il suo tempo prediletto è l’imperfetto. Ha una percezione elegiaca del tempo, un sentimento della vita come perdita. E si direbbe che a volte gli manchino le parole così come gli mancano i morti o come gli è mancata la terra sotto i piedi, durante il terremoto del ’76. In fondo alla poesia di Benedetti c’è In fondo al tempo, con la sua scena tellurica primaria: «Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna». «Scrivo per fratture» ha detto in un’intervista. E davvero a volte i suoi passaggi strofici, i suoi vuoti sintattici, sono delle crepe che rischiano di inghiottirci, come le gole del pavimento o come «la bocca dei defunti». Così è per il vuoto, ma anche per il pieno, gli elenchi nominali in cui le cose si accatastano come in un crollo, alla rinfusa, pezzi di vita, vite fatte a pezzi. Niente è al suo posto, tutto è dislocato, incongruo: «Sono venuti giù i sassi, / il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo. / Siamo scappati via dagli occhi, il vento nella testa». È la surrealtà dei terremoti, in cui tutto si dispone come in una fiaba del terribile. Molte poesie di Benedetti sono fiabe del terribile. L’inanimato si anima, tutto si muove. Si avvicina e si allontana, distorcendo la percezione del quotidiano: «Vengono vicini enormi i ceppi, le scale / i cerchi delle botti, come per andarsene». La realtà si ferma solo nei quadri. Chissà se è da qui che viene l’ossessione pittorica di Benedetti. Ferma vita è una poesia di augurio, uno dei pochi testi che si aprono al futuro, verbo che in poesia s’impara a coniugare da Fortini. È tutto un saliscendi in questa poesia, tutto un andirivieni. Per fermare le cose bisogna ripensare lo sguardo che le ha viste, amate, perdute. Il verbo più toccante di Mario Benedetti è il verbo stare, seguito a ruota dal verbo tenere, tenere insieme, come in Quadri. Tutto va via, anche gli occhi, di cui è disseminata questa poesia: «I tuoi occhi con i nomi delle mele e delle pesche».
La «visione intera» si scompone. Si ha una percezione metonimica del mondo. Tutto perde consistenza, tanto che c’è poi bisogno di ridire che cosa è l’io, che cosa sono le cose. Tutto è sempre qualcos’altro. La prima incongruità di questa poesia è il verbo essere, a meno che non venga modulato dallo stupore infantile della favola, del sogno: «C’era…». Oltre alla scomposizione, c’è una sovrapposizione, come in dissolvenza: «Era perché non poteva restare niente di tutto questo / che gli occhi facevano i matti». Si ha una percezione analogica del mondo, che certo Benedetti mutua da Milo De Angelis, ma poi riconverte nelle sue particolari dissolvenze, o, con termine zanzottiano, sovrimpressioni, come nella splendida Log, Ambleteuse, dal titolo che giustappone Slovenia e Francia all’indimenticabile finale: «E un albero di fiori / sale sullo slargo della marea / perché la mano è così, amore, / lei va alta fra i tuoi capelli», con quell’insensato e strepitoso connettivo, che fa un sorgere da un gesto il paesaggio fino a confondere gli amanti e ciò che guardano, o pensano a occhi chiusi: la mano con l’albero di fiori, i capelli con lo slargo della marea. Perché nelle poesie friulane di Umana gloria, quasi sempre le più belle dell’intero libro, le persone portano con sé i paesaggi: «Davanti il cielo che è venuto insieme a lui / gli alberi che sono venuti insieme a lui». Tutto è però ferito dalla natura, e dalla cosiddetta civiltà, dalle sue fabbriche, fibre sintetiche, pubblicità. Non per niente, dietro la «povera umana gloria» di Benedetti ci sono le «povere forme eterne» di Pasolini. Continua a leggere
Alberto Bertoni su Mario Benedetti
Un ricordo di poesia
di Alberto Bertoni
Al di là dei ricordi personali, non molti ma qualitativamente molto alti, di Mario Benedetti conservo un ricordo di poesia al quale sono affezionato in modo particolare. Era forse il 2007 e mi ero assunto da poco l’incarico di curare da solo il “Meridiano” dei romanzi più belli di Alberto Bevilacqua. Passavo dai corridoi dell’open space letterario alla Mondadori di Segrate, quando un amico “che poteva” mi passò quasi sottobanco la stampata del libro inedito di Benedetti che sarebbe uscito di lì a non molti mesi nello “Specchio”, chiedendomi un parere da esprimere nel giro di pochi giorni: un parere per nulla vincolante, il libro sarebbe stato comunque pubblicato a prescindere dal mio giudizio, ma solo un’impressione competente. Ovviamente accettai, poiché Umana gloria, pubblicato nella stessa sede tre anni prima, mi aveva colpito per una compattezza ottenuta tutta a posteriori, cioè riassemblando in mirabile unità i diversi “materiali per una voce” che Benedetti aveva scandito nella temporalità lunga di una storia compositiva cominciata fin dagli anni Ottanta, com’era appropriato e quasi naturale per i nati come lui e come anche me nel 1955.
Io dunque attribuivo a Umana gloria una valenza duplice: quella di condensare lo sviluppo tardonovecentesco del mio asse poetico prediletto, la strada maestra che – con ripetute vedute sull’abisso – congiunge Montale e Sereni, Giudici e Zanzotto; e l’altra che imbocca decisamente – nella sua varietà ricombinata in officina – una via diversa, quella del nuovo secolo/millennio che cominciava prima di tutto a rifiutarsi di risolvere e di chiudere “poeticamente” in unità prosodica, sintattica, tematica le antitesi, le antifrasi, le contraddizioni che sono intrinseche a quel Reale non mimetico ma insieme gnoseologico e metodologico che è il Reale dell’epoca nostra. Non è difficile accertare che le peculiari di queste contrapposizioni per così dire ontologiche sono, nel caso della poesia di Mario (che sull’espressione poetica di questo Reale di secondo grado ha buttato tutte le sue fiches di autore dotatissimo), sono dialetto/non dialetto, Friuli/non Friuli, correlazione oggettiva/sua risoluta negazione, autobiografia/suo capovolgimento oggettuale-impersonale, narrazione/trasalimento lirico, nitore fotografico/dimensione onirica, “una volta”/adesso, lucidità impietosa/fragilità, sguardo crudele/”stupore bambino”, sublime alto/sublime basso, variazioni sulla dialettica di endecasillabo e settenario/intercalare di un verso lungo esametrico o whitmaniano, paesaggio naturale/paesaggio figurativo, culturale, mentale… Continua a leggere
«Al cuor non si comanda»
di Roberto Galaverni
Se è vero che al cuor non si comanda, quella di Mario Benedetti è una poesia che non ho mai davvero amato. Lo dico con tutto il rispetto dovuto alla sua storia di poeta, e anche con un po’ di rammarico. Sono stati altri, tuttavia, i poeti della sua generazione, o comunque di anni vicini ai suoi, a cui ho guardato con più interesse. Non so nemmeno dire con sicurezza il perché. Forse è semplicemente una scintilla che non è scattata, forse invece non mi ha mai convinto del tutto quel suo capofitto nelle vicende personali, quel suo disinteresse per tutto ciò che non lo riguardasse in prima persona che aveva come rovescio una specie di priorità, di diritto di precedenza riservato alle sue stesse premure. Se il punto di forza della sua poesia è stata l’intensità, nei momenti migliori davvero disarmata, della sua spinta evocativa (per un lungo tratto, che poi è il suo migliore, i versi di Benedetti nascono da un continuo e ossessivo ubi sunt?), a me questa sua esclusività è sembrata sempre anche una scorciatoia, o comunque qualcosa che rischiava di esserlo.
Detto questo, è altrettanto vero che ritengo Umana gloria un libro notevole, in particolare per alcune poesie capaci di arrivare e lasciare il segno. Sono quelle, del resto, che più spesso vengono ricordate, tra cui ovviamente Che cos’è la solitudine. Ma a queste aggiungerei almeno Borgo con locanda, che è splendida, e Fine settimana. Per me Benedetti sta tutto o quasi in questo suo libro, il che poi significa nei suoi primi venticinque anni di poesia, e dunque nei vari libretti di cui Umana gloria costituisce la sintesi e insieme il coronamento. È una tipica poesia di fine secolo, la sua, una poesia, diciamo, del dopo Settantasette. Il riflusso ideologico, il ripiegamento nella dimensione privata, il ricorso alla poesia come possibilità di resistenza insieme derelitta e ultimativa, l’importanza delle amicizie poetiche, e via dicendo. Continua a leggere
Mario Benedetti, un incontro mancato
di Valerio Magrelli
In tanti anni di letture pubbliche, convegni, dibattiti e incontri vari, mi è capitato di incontrare centinaia di poeti. Ma in una situazione così variegata, ciò che più mi ha colpito, arriverei a dire, sono stati gli incontri mancati. Tra questi, purtroppo, devo includere quello con Mario Benedetti.
Penso che ci vedemmo solo una volta, di sfuggita, nulla più di un saluto, di una stretta di mano, anche se questa, ci ricorda Paul Celan, rappresenta in ultimo l’essenza della poesia, l’atto che traccia il suo stesso meridiano.
Certo, ho conosciuto bene Donata Feroldi, compagna di un tempo, e posso dire di aver appreso qualcosa della scrittura di Mario anche dai lunghi discorsi che facevo con lei, magari partendo dalla problema della traduzione che tanto ci univa, per poi proseguire parlando di versi. E io ritrovavo Celan, in tanto dolore, in tanta compostezza, in quella che mi è sempre parsa una sofferenza addirittura eroica: “Mondo non mondo, mio mondo nero”. Per questo, non potendo ricordarlo come uomo, voglio almeno salutare le sue parole incise nelle ossa (“Mandami le ossa”), in una esistenza tanto atroce quanto intensa, come l’oliva che dà il suo dono solo sotto il torchio. Continua a leggere
Le parole hanno fatto il loro corso
La pietas di Mario
di Alberto Casadei
Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque
(da Tersa morte, Mondadori, 2013).
Questo componimento rappresenta Mario Benedetti attraverso i nuclei generatori della sua poesia. Il primo gesto è quello del separare o disperdere o disgregare: l’essere unito in una determinata condizione, per esempio quella data dal proprio nome, è solo un caso o un errore. Bisogna credere alla coesistenza di realtà diverse, non ai tentativi di fonderle per dare loro una “continuità”, ossia un senso. Così, fin dall’apertura di Umana gloria (2004), “Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi”.
È un atteggiamento riconducibile ai filoni schopenhaueriani in vario modo consolidatisi nel XX secolo. A Mario erano cari Michelstaedter e Bataille: seguendoli, riflette tra l’altro sul valore di “morcelé”, la condizione del frammento, l’essere frammentato in sé (Materiali di un’identità, 2010, p. 12). Il primo gesto della sua poesia non è l’“esporre i frammenti”, come nella grande tradizione umanistica alla Eliot, è “diventare un frammento”, proporsi nella condizione di verità che non è data dall’esterno, da un credere ad Altro o anche alla razionalità autosufficiente, ma è raggiunta dal toccare ogni volta il nadir, il “subietto dei nostri elementi”, il pezzetto casuale e irriducibile.
In questa direzione è andata tutta la poesia di Mario con Pitture nere su carta (2008), il libro più celaniano della sua opera. Nella ricerca dei fondamenti disgregati, capita di doversi confrontare con l’idea di Dio. Le due Supernove sono il frutto di questo incontro, mediato dal Dante dell’Empireo (pochi altri artisti hanno osato confrontarsi con quella parte del poema sacro), e il risultato è una semplice e perentoria riscrittura: “de l’alta luce che da sé è vera” diventa “eco di luce che non da sé è vera”. Quanto creduto per fede non esiste più, ma una qualche verità resiste come eco. Continua a leggere
Il silenzio tenace di Mario Benedetti
di Lorenzo Babini
La mancanza di Mario Benedetti è per me innanzitutto legata ad alcuni ricordi personali, di quando cioè, tra gli anni 2011 e 2013, lo incontrai diverse volte, sempre in compagnia di Tommaso Di Dio. Rimasi sin da subito colpito da quella figura silenziosa, appartata e indifesa, le cui parole sembravano uscire a stento. Non ho avuto modo, tempo o fortuna di instaurare una consuetudine con lui ma posso dire che la mia percezione di allora fu che quel silenzio umile, grave e profondo avesse qualcosa da dire alla mia esperienza.
Ricordo che ne parlai una volta con Massimiliano Mandorlo, al termine di un reading che avevamo organizzato in un bar vicino a via Venini a Milano, in quel quartiere che oggi viene chiamato NoLo e di cui fino a pochi anni fa se ne ignorava l’appeal. Era venuto ad assistere a quella lettura di giovanissimi poeti anche Mario, che abitava in quella zona. La sua figura, da cui traspariva l’esposizione dolorosa e radicale dell’uomo di fronte al destino, aveva quella sera affascinato alcuni di noi, nonostante nessuno di noi lo avesse sentito pronunciare una sola parola. Questo accadeva per me prima di conoscere la sua poesia.
Più tardi, leggendo la sua opera, riconobbi la stessa presenza che era dell’uomo: la presenza cioè di un silenzio fragile e tenace, nato dall’umile aderenza alle cose, seriamente impegnato con il proprio vissuto e improvvisamente capace di esprimere, in un due versi slogati, dalla sintassi anomala, verità disarmanti sull’esistenza. Continua a leggere
Mario Benedetti, poeta del suono
di Corrado Benigni
Poeti del suono e poeti dell’immagine. Mario Benedetti appartiene senza dubbio alla prima categoria. La tessitura della sua lingua è prima di tutto musicale: una poesia “per legame musaico armonizzata”, verrebbe da dire citando Dante. Tanti nodi suonosenso tengono insieme la trama dei versi di Benedetti.
Dopo Amelia Rosselli, credo sia stato il poeta che meglio ha fatto risuonare la pagina poetica come una partitura musicale, e questo senza alcun artificio o pre-intenzione, ma con un impasto di naturalezza e lavoro artigianale sulla lingua, che è proprio dei poeti veri; una lingua sfuggente e inimitabile anche quando appare semplicissima. L’analogia, come capacità di connettere elementi e mondi lontanissimi, nei suoi versi è prima di tutto analogia di suoni, voci e ritmo.
Ho sempre avuto grande stima e ammirazione verso la poesia di Benedetti, che pure è lontana dal mio stile. Questa distanza tra noi ha però reso ancora più affascinante ai miei occhi la sua scrittura. Soprattutto dopo l’uscita di “Pitture nere su carta”, un libro coraggioso e fuori dagli schemi, che a mio avviso ha spinto più in là e più a fondo le possibilità della lingua poetica. Il titolo tuttavia non deve trarre in inganno: centrale non è l’immagine, ma il suono, con il quale Benedetti è riuscito in modo straordinario e spiazzante a tratteggiare vere e proprie figure dell’inconscio, che rimandano, per impressione, ai capolavori di Goya. I segni neri lasciati sulle carte, come dice il titolo, sono la traccia visibile che i suoni della sua poesia ci consegnano, quasi testimonianza di un dovere cui non è stato possibile sottrarsi. Come in tutti i suoi libri, realtà e favola si mescolano sulla pagina, che diventa così una potente tela allegorica. Continua a leggere
Epistéllō, invio
Il poeta Alessandro Ceni scrive di Mario Benedetti, poeta italiano, usando un’antica tecnica: l’epistola (epĭstŭla, in greco epistolḗ, derivante di epistéllō “mando, invio”).
Ceni risponde quindi, alla sua maniera, alla mia richiesta di inviare al blog “qualcosa di scritto” per ricordare Mario Benedetti. Ceni sceglie la forma epistolare e si rivolge a me, ma parla di Benedetti. Un intervento davvero notevole. Ceni, pur essendo agli antipodi della poesia di Benedetti, non indugia a riconoscere nel poeta friulano, prematuramente scomparso, la capacità e la dote della vera poesia.
Luigia Sorrentino
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Cara Luigia,
accolgo volentieri il tuo invito a scrivere, a buttar giù qualcosa, su o intorno a Mario Benedetti.
Di persona non l’ho conosciuto né mai mi pare ci siamo incrociati in occasione di qualche lettura. L’unico contatto con lui fu molti anni fa ai tempi della rivista “Scarto minimo”. Se non ricordo male, inviai delle poesie per l’eventuale pubblicazione e la sua risposta (non rammento se epistolare o telefonica) fu che, parole sue, essendo io già noto (già allora, a suo parere) potevo fare a meno di essere pubblicato lì (evidentemente si privilegiavano poeti meno “noti” o esordienti). Nessuna replica da parte mia e nessuna ulteriore notizia da parte sua.
Dal punto di vista poetico, sicuramente ci situiamo non proprio agli antipodi ma inequivocabilmente a parecchie miglia di distanza l’uno dall’altro. Ciò non toglie, però, che non abbia apprezzato la sua poesia, la sua asciutta e acuta ricerca. Voglio dire, cioè, che pur su posizioni diverse, sotto il profilo dell’indagine e del lavoro sulla lingua una certa consonanza può sussistere. Non solo. Poiché ho sempre tenuto presente di un autore (poeta, artista o altro) il suo “come”, vale a dire il modo in cui ottiene l’esito finale del proprio lavoro (lo stile è l’opera), senza dare alcun peso al “cosa” e al “perché”, i quali sono contenuti ed espressi dal “come”, Benedetti (almeno quello che mi è capitato di leggere) può interessarmi. Questo per dire che anche di poeti lontani o molto lontani o addirittura incompatibili è necessario riconoscere la qualità (e con ciò superare d’un balzo ogni faziosità rappresentata da linee, scuole, gruppi, conventicole eccetera). Continua a leggere
L’ora dell’azzurro cupo
Nota di Alessandro Bellasio
«altrove il sole ha la luce»
Poche le voci nitide, necessarie e immediatamente riconoscibili nella loro cifra lirica essenziale, come quella di Mario Benedetti. Una voce abitata allo stesso modo dall’allarme e dall’immedesimazione, dove la parola sa farsi a un tempo lucida e inerme, sapiente e commossa, e decisivo ne è il valore testimoniale, l’inaggirabile frontalità dell’esser vivi. Una parola esposta, come vuole il magistero di Celan. In essa tocchiamo con mano il significato della sentenza secondo la quale «la poesia è un dono fatto agli attenti». L’opera di Mario Benedetti è imbevuta fino allo spasmo – mai gridato, mai esibito, eppure netto e tangibile – di questa attenzione acuminata e partecipe, della cui energia segreta si alimenta l’evento lirico. Un’attenzione strenua, una fedeltà alle cose fatta di riserbo e di pudore, capace, con quel suo tono smorzato, con il suo calore trattenuto, di creare sempre uno spazio di intimità con il lettore, pur nella frattura e nei sussulti dello sguardo e del sentire, così connaturali allo stile di Mario Benedetti.
Un’intimità che passa principalmente da quel nucleo di disarmo che è forse la cifra stessa dell’opera, del poeta. In un’antica intervista, a proposito di Umana gloria, Benedetti ebbe a dire: «penso che la parola indifesa e colloquiale ma spaesante sia quella dell’uomo che muore, noi moriamo con queste parole, con queste pause del respiro». E Benedetti, con tale parola disadorna e rigorosissima, fatta via via degli elementi più semplici e umili del vivere (Umana gloria), dei suoi scarti e delle sue scorie inassimilabili (Pitture nere su carta), o ancora dei suoi frammenti mnestici e delle istantanee della caducità (Tersa morte), ha progressivamente, inesorabilmente portato la sua poesia – e insieme a essa noi tutti, suoi devoti lettori – in territori sempre più estremi, folgorati dal «brivido di stare», nel luogo senza ritorno in cui si incontrano parola, esistenza e verità: quel confine che non è più la vita, non è ancora la morte, ma in virtù del quale soltanto possono dispiegarsi ed essere tutt’uno la vita e la morte. Continua a leggere
Benedetti, un io poetico che non uccide
TRA IRREALTÀ E LACRIME
Stefano Bottero
«Siccome hai esercitato il tuo spirito a concepire tutta
l’esistenza in categorie estetiche, è naturale che
il dolore non sia sfuggito alla tua attenzione»
Søren Kirkegaard, Aut-Aut
Nella poesia di Mario Benedetti l’io poetico rapisce, proietta la propria cognizione singolare di un dolore che accompagna senza uccidere. Non la semplice consapevolezza del dolore, ma del ruolo del dolore nella vita che scorre, in cui ogni cosa è già stata – tragicamente – data. Se vogliamo, la consapevolezza heideggerriana dell’angoscia che si rende radice dell’esperienza sensibile, che «non vede un “qui” o un “là”, da cui si avvicina ciò che minaccia».
Le vite nei versi di Benedetti si muovono senza direzione, prive di punti cardinali, perché ogni cosa, ogni dolore, è diventato un punto fermo in una costellazione generale, troppo grande per essere compresa con la logica. «Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto». Un’indicibilità che non scoraggia, e si rende invece radice formale dei suoi versi. «Penso a come dire questa fragilità che è guardarti, / stare insieme a cose come bottoni o spille». «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole».
Anche la morte è nella sua opera un luogo in cui le cose scorrono. Non si palesa in essa la consolatoria cessazione del nostro rapporto con ciò che non siamo. È proprio in questo, io credo, che la poesia di Benedetti sia ancora unica: nel riuscire a cogliere ciò che esiste anche nella fine, anche nel totale annichilimento della conclusione.
Scrisse così, nel Capitolo secondo di Pitture nere su carta (2008).
Non l’ascolto, sta la veglia, senza.
Carriole di muri, non raccontate.
Nessuno, nel finire degli occhi.
Neanche i visi. Hai abitato,
abbastanza, il corpo.
Abitato. Qua. Un sole, una pioggia.
Le scarpe, le scarpe ricordate.
I corpi, i due corpi, i tre.
Rimasti, nella loro casa.
Nella loro casa rimasti.
La cognizione dell’essere qui e adesso, ed essere allo stesso tempo relegati nell’inconsapevole. Non lo sguardo idiota di un Principe Myškin, non il cedimento allo stereotipo tardo ottocentesco de ‘la coscienza nell’allontanamento dal reale’. Tutto l’opposto: il riconoscersi razionalmente nello iato che separa ciò che siamo da ciò che è stato. Da ciò che è rimasto, ed è rimasto – sempre – abbastanza. Così non è l’esistenza in senso lato a filtrare nella composizione di Benedetti, ma un’esistenza consapevole del proprio inevitabile essere trascorsa. Anche le prime cose che ci hanno regalato consapevolezza, lo leggiamo in Tersa morte, non differiscono dal resto: «Dentro i discorsi si perde / la prima cosa che il bambino ha guardato».
Il dolore non è mai anticamera della fine, ma cartina tornasole di una verità esistenziale: ciò che ci definisce è l’incongruenza tra chi siamo e tutto il resto. E non il resto della bellezza o del vero, per Weil mere «cose impersonali e anonime», ma il resto di ciò che compone il presente fisico. Che compone l’adesso.
Il corpo, colato in vetroresina,
si muove lentissimamente.
Dove? Sembra fisso, vuoti i movimenti.
È là? Si muove, un poco sempre.
Tra irrealtà e lacrime.
C’è tutto in questa sottile confusione tra la prassi del corpo e l’estetica del verso. La consapevolezza sacrale di sé, del proprio muoversi nel vivere, non trova risposte né sana il dolore. Essa è invece la domanda, l’interrogazione continua dello sguardo che contempla l’indicibile e lo rende poesia. «Anche per me / la stessa cosa, la stessa cosa vostra, un dolore violento, / cosa succede? cosa mi sta succedendo?».
Rendersi conto di quanto la sua opera, la sua domanda, aderisca al presente di questo aprile, porta con sé un leggero imbarazzo. Lo stesso di quando, da bambini, gli adulti indovinavano cosa stessimo provando con le parole esatte di una deduzione indelicata.
Il cane del nulla
di Andrea Cortellessa
«Scusatemi tutti.»
Due foto, alla fine della storia. La prima l’hanno vista tutti; è quella del Mario Benedetti “sbagliato” messa in pagina da «Repubblica». L’altra l’ha scattata Viviana Nicodemo e l’ha pubblicata qui Milo De Angelis. Due immagini che, come si dice, dicono più di mille parole. La prima dice della trasandatezza criminale del nostro tempo (dove a fare più rabbia è la coazione burocratica di dover “coprire” – nel minor tempo possibile, con la minore cura possibile – un “fatto” di cui non frega nulla; perché nulla, in verità, frega di nulla; e allora meglio, tanto meglio, sarebbe stato il silenzio – cioè il nulla, appunto). La seconda, semplicemente, continuerà a guardarci a lungo. (Ma tutte e due si riguardano; l’una non si capisce senza l’altra: e per questo, insieme, ci riguardano.)
E poi il video. Esequie in remoto: come tutto, ormai (ma come tutto, al di là delle apparenze, già era diventato da un pezzo). È stato detto che ricordano quelle di Mozart nella fossa comune. Già; ma quella che ci ricordiamo è la scena di Amadeus, dove lo squallore aveva un suo accattivante package hollywoodiano; era uno squallore glamour. Qui invece lo squallore ha la brutalità, la letteralità della plastica e del cemento, del vento freddo nel microfono; delle parole al vento di un prete impaurito, che va di fretta. Lo squallore osceno di chi, a futura memoria, comunque registra; e di chi, come me in questo momento, comunque propala. Continua a leggere
L’umile scrittura di Mario Benedetti
di Giancarlo Pontiggia
Ho qui davanti a me La casa, il libretto con il quale Mario Benedetti, appena trentenne, esordiva nel 1985 per le edizioni «Polena» di Emy Rabuffetti.
Non versi, ma una lunga prosa divisa in sei parti e trentun capitoli: non versi, eppure già versi, perché la poesia di Mario non è tanto una poesia che va verso la prosa, quanto una poesia che sbalza fuori dalla prosa, tra i buchi, gli strappi, le ferite, i rari baluginii di una scrittura esilissima che deve per forza farsi poesia, per non morire del poco e del niente al quale si è offerta.
Una scrittura umile, porosa, proprio come le cose, le strade, le stanze di cui è pervasa, che non vengono però descritte, e neanche evocate: sono materia che fluttua in vortici freddi, scuri, quasi annichiliti, come se venissero da lontano, da una terra che non è più nostra, da una sorta di ade raggrumato: ombre, non corpi. Anche per questo il poeta sente il bisogno di reduplicazioni, quasi avvertisse l’esigenza di trattenere un oggetto, un nome, una parola, prima che si inabissino nel nulla, nello «Sprigionato nulla» di Pitture nere su carta: «Dove dicono che sia il cielo, dove dicono che sia il cielo» (V). Così come, più di vent’anni dopo: «Un sabato, un sabato, un sabato, / anni». Un grido di inappartenenza che si slancia in coaguli ripetuti, dove lo stesso nome sembra in realtà volgersi al suo vuoto, al niente in cui si versa.
Franco Buffoni, per Mario Benedetti
Caro Mario,
sei finito a Piadena, in provincia di Cremona, nel momento peggiore: il luogo meno indicato per poter sopravvivere nella primavera del 2020. Ma lì c’era Donata che poteva venirti a trovare.
Ricordo quando ti preoccupavi per lei e mi telefonavi, ma lei non doveva saperlo.
Ricordo Giuseppe Genna, che vi frequentava nei tempi belli a Milano.
Ricordo anche il tuo esordio in poesia: per poco non finisti nei Quaderni, come Stefano e Antonio e Gian Mario. Tu eri un po’ più vecchio e restasti fuori.
Ricordo quando mi venisti a trovare all’oncologico di via Ripamonti: nel 2000, ero appena stato operato di cancro al polmone. Era anche appena uscito Il profilo del Rosa. E subito dopo apparve il libro di Stefano Ritorno a Planaval. Quando ti ebbi ben spiegato l’intervento subito, durato sei ore, ti limitasti a dirmi che si vive bene anche con un polmone e mezzo: “L’importante è che funzioni questa”, e con l’indice della mano sinistra ti toccasti la fronte. Continua a leggere
La stanza dei poeti
E’ stato un grande sogno vivere
di Luigia Sorrentino
Se io dicessi: “Questa è la stanza dei poeti”. Quanti ne entrerebbero e quanti ne uscirebbero?
(Silenzio)
Che cosa determina e definisce il poeta e la poesia?
(Silenzio)
Il successo in vita di una persona che scrive poesie, è decisivo?
(Silenzio)
Quando il valore di un poeta o di una donna poeta è indiscutibile?
(Silenzio)
Valgono forse premi, riconoscimenti a definire il valore di un poeta o di una donna poeta?
(Una voce, la mia)
Forse in alcuni casi sì. I Premi e i riconoscimenti internazionali possono avere un valore. Continua a leggere
Mario Benedetti (poeta italiano)
Povera umana gloria, quali parole abbiamo ancora per noi?
di Claudia Crocco
Quando ho incontrato per la prima volta Mario Benedetti, era appena morto Mario Benedetti. Mi è tornato in mente leggendo i post Facebook di chi segnalava l’errore di «Repubblica». «Repubblica» ha pubblicato un articolo sulla morte di Mario Benedetti poeta italiano, ma corredato dalla foto di Mario Benedetti poeta uruguaiano. Mario Benedetti poeta uruguaiano è morto nel maggio 2009, quando io ho conosciuto Mario Benedetti poeta italiano. Mario Benedetti poeta italiano ci rideva su, aveva ricevuto chiamate che chiedevano conto di quella presunta morte. Chissà cosa direbbe oggi, vedendo la foto sbagliata associata al suo nome su un giornale nazionale. Penso che si arrabbierebbe, perché si arrabbiava spesso per cose del genere – per il mancato riconoscimento dato a lui e alla sua poesia. Per ricordarlo, ho deciso di scrivere di questo.
Ci sono varie idee di poesia oggi, spesso concorrenti fra loro. Benedetti non fa nulla per sembrare à la page: non esita a usare la prima persona, parla di ricordi privati e personali, talvolta si rivolge a un tu femminile. Per il pubblico della poesia italiana del ventunesimo secolo tutto questo è terribilmente fuori moda. Umana gloria, infatti, non ha ancora avuto il riconoscimento che merita. Eppure Umana gloria è uno dei libri cult fra i venti-trentenni che appartengono alla ristretta cerchia di cui sopra. Come si spiega? Credo che, alla base, ci sia un’originalità che Benedetti condivide con pochi altri: da Umana gloria a Tersa morte, ci mostra come sia possibile scrivere poesia lirica senza essere desueti. Questo esercita ancora un certo fascino su chi inizia a scrivere versi oggi. Ecco un esempio: Continua a leggere
«Accorgetevi»
di Maria Borio
In un sonno lunghissimo, mentre il silenzio dai confini della zona rossa si allarga, si potrebbe sognare un fiume: le onde sono deboli ma costanti e sorreggono molte zattere di pino. Si può immaginare di sognare tanti morti e di sentire freddo ma anche di vedere le stelle, perché nell’universo, dove manca l’atmosfera, le stelle bruciano senza riscaldare. I corpi passano sopra le onde, come i numeri della statistica scivolano sugli schermi dei computer in una ripetizione studiata con la migliore retorica.
Se questo sogno potesse essere per un attimo condiviso con tutti, vorrei che tutti all’improvviso sentissero, come un ronzio intenso nelle orecchie, una sola parola: accorgetevi. È una parola di una poesia di Mario Benedetti.
Pensiamo, allora, che tutti possano sentirla per un tempo prolungato, come se fosse detta in un contrappunto tra il basso e l’acuto: “accorgetevi, non abbiate solo vent’anni / e una vita così come sempre da farmi solo del male”. Mario Benedetti, nato a Udine nel 1955, se ne è andato il 27 marzo 2020. Accorgetevi, sì.
Accorgetevi della retorica del comunicare e dell’apparire. Chiedete di più, pesando ciò che vale, bucando lo schermo. Con una poesia nuda, spogliata, nella povertà dell’autenticità, empatica fino alla radice, completamente esposta nel dolore e nell’affetto, Mario Benedetti ci ha messo in guardia. Continua a leggere
La materia povera di Mario Benedetti
Venerdì Santo
Il cielo sta su nel pensiero di piangere.
Sulla strada
gli uomini sono andati metà muro, metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.
Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,
vorrei perdonargli di morire, cosa fare.
A sapere bene forse potrei dire:
anche per noi una visione intera
con uno specchio sopra, con un cielo.
Mi tengo al suo sguardo perduto
così particolare, così solo,
senza romanzi, con il campo che non è un mondo.
Non so andare avanti.
Ogni tanto
i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch.
Ogni tanto sogno bambini bellissimi
nell’acqua effervescente di una strada.
E io li vedo di schiena,
qualcuno ci vede,
io sono di schiena nei colori.
Mario Benedetti, Venerdì Santo, in Umana gloria, Mondadori 2004
COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
Questa poesia appartiene alla silloge forse più significativa di Mario Benedetti, Umana gloria, incentrata sul valore e sul senso di una morandiana «materia povera», capace di riportare la civiltà — mitizzata nei riti agresti e in un’inquieta ricerca interiore — a un’essenzialità del vivere che, per il generale tono carsico, accomuna il poeta friulano a Pier Paolo Pasolini e, anche, Scipio Slataper. Continua a leggere
Qui durano i libri
di Guido Mazzoni
Nessuno conosceva la fragilità meglio di Mario Benedetti. Dalla fragilità discende il suo sguardo sul mondo, che indugia sul nulla cui ogni persona o cosa è destinata e al tempo stesso sullo stupore di essere vivi. «Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia: |quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini», si dice dei vicini che sono venuti a vegliare il padre morto in uno dei testi più belli di Umana gloria. Angoscia e stupore hanno la stessa origine; nascono dalla certezza che ciò che esiste è transitorio, dalla «paura in ogni mano, o braccio, passo, | che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano». In questo senso la prima poesia di Umana gloria contiene già tutti i temi dell’opera successiva:
Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.
Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.
Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.
Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi. Continua a leggere
Il tempo verticale di Mario Benedetti
GIAN MARIO VILLALTA RICORDA MARIO BENEDETTI
Ogni ricordo di Mario Benedetti che mi viene in mente porta con sé un luogo, non solo gli spazi aperti, i “posti” belli o brutti, ma a volte la stanza di una casa o il tavolo di un bar, il vagone di un treno, l’interno di un’auto. La sua presenza è sempre stata intensa, per me, di cose da dire e da tacere, di vicinanza o dispetto, di un’intensità che coinvolgeva tutto quello che c’era intorno. Anche quando si parlava, come si dice, “per parlare”, o quando si dice di “parlare di niente”, quando si sta insieme perché c’è qualcosa che accade, accade e basta (basta perché l’accadere è di più di qualsivoglia sua descrizione, e allo stesso tempo perché davvero basta, non gli occorre altro).
E’ questa l’amicizia, che si rivela a noi stessi quando c’è una continuità della voce dell’altro nei nostri pensieri. Quando anche il suo corpo parla e muove intorno a sé uno sguardo che ci sorprende e – sì, davvero – ci com-prende. Non importa se poi i caratteri portano a scontrarsi, o il sentire non è in sintonia, o se ancora qualcosa dell’altro ti è addirittura, a volte, insopportabile. Mario non è mai stato una persona empatica, anzi, proprio perché lo era al massimo grado, temeva e cercava di prendere distanza dall’empatia. Incorrendo per questo talvolta in equivoci. Anche se poi ti capitava di sentirgli sgorgare inattese autoaccuse, dichiarazioni enfatiche, scuse non richieste e imbarazzanti richieste di comprensione. Ciò non gli impediva di essere tagliente e odioso qualche ora più tardi. Non tollerava che fosse sprecato un solo pensiero, una sola occasione di vita. E non accettava che non si assaporasse o detestasse qualsiasi cosa al massimo, non accettava che non ci si esponesse o nascondesse al massimo.
Aveva le sue preferenze, le sue idee, ma quello che contava era che non si doveva mai mollare la presa sull’istante che si stava vivendo. Il tempo per lui non scorreva soltanto in avanti, ma aveva una dimensione verticale, scoscesa, che in ogni momento chiedeva a sé e a te di esserci, lì dove eravate, lui con tutto sé stesso e tu con tutto te stesso. Per questo “parlare per parlare”, “parlare di niente” a volte era di più che parlare di un qualche altro argomento, di qualcosa che si poteva inquadrare in un contesto e così tenere a distanza da sé. Come facciamo spesso, anche troppo. Mario era capace di gesti detestabili come di inattese affettuosità: essere lì con te in un modo che ti stanava da te stesso, solo questo gli importava, metterti di fronte alla percezione del tuo essere dov’eri, in quel momento, in quel respiro verticale del tempo, come fa la sua poesia. Continua a leggere
La testimonianza poetica di Benedetti
Si deve morire, e non sembra vero
Pitture nere su carta, MARIO BENEDETTI
IL RICORDO DI MAURIZIO CUCCHI
Avevo conosciuto i suoi versi, prima della persona, e ne avevo subito apprezzato il valore di una attenta, voluta ricerca di normalità autentica. Una parola, la sua, capace di registrare il sentimento quotidiano dell’esistere, la sua umile bellezza, di cui sapeva cogliere il senso tra esperienza diretta e presenze trasmesse nel tempo da una realtà locale, partendo da quella delle sue origini friulane, a cui non poteva non essere legato. Siamo poi diventati amici, abbiamo passato ore molto vive insieme, abbiamo lavorato insieme, anche, nel segno di una fiducia credo davvero reciproca e solida.
La cattiveria del destino aveva posto fine alla sua opera già molto prima, purtroppo, che alla sua stessa vita. E parlo di un’opera poetica che si era utilmente mossa nella necessità di un progetto interno che lo aveva portato da un dire d’ampio respiro, aperto nel suo svolgersi a un passo dalla prosa, a una scrittura resa decisamente scarna e a suo modo impervia. Fino a una sintesi in Tersa morte, di cui avremmo voluto poter conoscere gli ulteriori sviluppi. Continua a leggere
Benedetti, straniero alla propria morte
Ecfrasis
di Antonella Anedda
“Ho freddo ma come se non fossi io”. In questi versi c’è il mondo di Mario Benedetti, morto il 27 marzo 2020 a sessantaquattro anni.
Chi ha ascoltato le sue letture ricorda come fossero il rendiconto di una distanza all’interno della quale però succedeva qualcosa di sorprendente: Benedetti scavava con il suo linguaggio uno spazio di indifferenza dove inaspettatamente si accendeva una promessa.
Può sembrare un paradosso, ma dire come se non fossi io ci allontana da quella prossimità che avrebbe impedito di scriverlo davvero. Si guarda se stessi, si constata la presenza del gelo e insieme si scandaglia quello che siamo di fronte alla percezione. Dire “come se non fossi io” significa aver attraversato lunghe distese, essere saliti, caduti, risaliti. Freddo, fossati, torrenti, case color ocra, pitture nere come quelle dell’amato Goya, incubi e strappi luminosi.
Mario Benedetti a Nimis in Friuli sul bordo della Slovenia, il paese della madre. Il confine è il sigillo di un’identità che può essere spostato facilmente, è la prova della storia che agisce sulla geografia. Perché se la “storia è fievole” la storia è anche un fiele che corrode. Il confine mostra a tutti noi cosa possiamo diventare e cosa possiamo smettere di essere. Tenuta e smarrimento, coerenza e contraddizione.
La lingua, come il paesaggio (Cividale con la sua arte è a pochi passi) è colta e periferica, attraversata da scosse, sedimentata in fossili, acque di torrente. Fa corpo con quello che guarda, non può prescindere dal dialetto, ma, come hanno riflettuto i suoi amici e poeti Stefano dal Bianco e Gian Mario Villata, invece di usarlo Benedetti se ne lascia “investire”, lo patisce per poi trasmutarlo nell’ italiano estraneo, straniero e straniato di chi è vissuto ascoltando una lingua diversa. Dal dialetto si coagula un quotidiano fatto di suoni fitti di consonanti, fatica, sprofondamenti, ma in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti) e pensieri, da altri spazi aperti al vento, alle ginestre, alle maree come la Bretagna, con quella materia che aveva già accolto la poesia di Paul Celan. Continua a leggere
Mario Benedetti, il poeta dell’inverno
MILO DE ANGELIS RICORDA MARIO BENEDETTI
Milano, 28 marzo 2020
Mario Benedetti, uno dei pochissimi poeti del nostro tempo. Non scorderò mai la prima volta che l’ho visto negli anni ottanta. Era appena uscito un suo libro, Moriremo guardati, che mi toccò profondamente a partire dal titolo, con quel suo verso pieno di strappi e slogature e quel suo “parlato” che all’improvviso svettava in alto. Andai dunque a trovarlo a Padova, dove Mario Benedetti dirigeva una piccola e originale rivista, Scarto minimo, insieme a Stefano Dal Bianco e a Fernando Marchiori.
Mi colpì subito quello che Mario diceva della poesia, le sue simpatie per Celan e Mandel’štam, il suo disprezzo per tutto ciò che gli pareva gioco, evasione, esperimento. Ma ancora di più mi colpì quello che Mario non diceva, i suoi lunghi silenzi, la tensione spasmodica del suo ascolto affilato e attentissimo, la capacità di far convergere in questo silenzio le parole degli altri. Era una giornata rigida di gennaio e non poteva che essere così. Mario è un poeta dell’inverno e l’inverno è la sua stagione naturale, la stagione del raccoglimento, del riparo tra le mura di casa, delle coperte di lana. E anche la sua parola sembra provenire da un luogo freddo e lontano, ai confini della Slovenia, quel Friuli “oltre il Tagliamento”, come lui diceva, fermo nel suo eterno dopoguerra di mille lire, Settimana Enigmistica e wafer Saiwa, umili cascine e umili sale da pranzo, un mondo di “interni” disadorni, descritti nella loro povertà, nello spazio inerme dove un tavolo o un bicchiere acquistano una luce sacra, come gli oggetti dell’ultimo Van Gogh, per citare un artista carissimo a Mario.
E il destino ha voluto che anche il nostro ultimo incontro fosse invernale. Continua a leggere
Addio a Mario Benedetti (1955-2020)
«Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?»
(da Umana gloria M. BENEDETTI)
Mario è morto il 27 marzo 2020. Viveva dal 21 marzo 2018 in una residenza a Piadena, in provincia di Cremona. Nel 2014 era stato colpito da un arresto cardiaco con ipossia cerebrale, ma si era ripreso e stava bene, anche se non ha più scritto nulla. E’ morto nell’infuriare di questa epidemia terribile che è il COVID- 19.
Mario Benedetti verrà temporaneamente tumulato nella tomba di famiglia di Donata Feroldi, l’amica di una vita, a Piadena, perché lui aveva espresso il desiderio di essere sepolto acconto al padre a Nimis, dove aveva vissuto, in Friuli. Ma le circostanze emergenziali in cui tutti ci troviamo, non consentono di farlo subito.
Lunedì 30 marzo ci sarà, in tarda mattinata, una piccola cerimonia funebre al cimitero a Piadena. Date le circostanze, sarà un semplice saluto, al quale parteciperanno tre o quattro persone.
Da Umana Gloria
È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.
*
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto su un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
*
Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.
*
Come dire che due ragazzi camminano
sulla breve salita
e la notte cammina
in quel breve salire,
e in questo poco tempo noi siamo vivi,
erba, fiume laggiù
che mormori a tutto il vuoto e a me
l’eco del salire dei corpi?
*
Non sapevo se le mie parole erano le stesse
per tutti, la mia notte
se era la stessa nessuno lo diceva.
Valli, ogni volta che venivo,
erba ripetevo, adesso è ancora questa erba,
e alberi, toccarli, dire alberi.
Viale che non guardo,
rimasto come lo sapevo ma neppure un viale.
E cammino anche più in là di me
adesso che piangere è pioggia,
e stare soli è più grande.
Mario Benedetti, da Tutte le poesie (Garzanti, 2018)
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Dall’Introduzione all’intervista di Luigia Sorrentino a Mario Benedetti (RAI Radio Uno, 2012)
Così raccontava di se stesso nell’intervista radiofonica (n.d.r. “Per il verso giusto” – I poeti su Radio Uno) – realizzata nel 2012 da Luigia Sorrentino: “Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa.