“La frontiera è un canale di nebbia, di suono, di assenza di peso, di quasi niente, di niente visibile, riconoscibile. È stanza buia, la cui uscita è un andare in porto, un tornare a casa. Terra che è mare. Vastità che è piccolezza. Non uno scomparire, un dileguarsi di ogni cosa nell’indistinto, anche se è vero che poco importano un petalo o una galassia, un anno o un giorno (Nel respiro più lungo). Ciò che conta è altro. È il dopo, la riva da vedere ancora, la possibilità di un’altra scelta, la speranza «anche solo / di un minimo gesto», «aprire una porta / nel vento con le nubi e il sole / che vanno e vengono». Dopo, riva, scelta, speranza, aprire una porta nel vento, fare del vento, del respiro una casa.
Che cosa c’è dietro la riva, dietro la spiaggia, la banchina, dietro Ravenna o più ancora Marina di Ravenna, il canale, la pineta come «una preghiera scura che vacilla» (Troppo)? C’è ancora terra? Anche in questo caso l’interrogativo non è quello giusto. Forse dovrebbe essere quello a cui Luciano Benini Sforza stesso risponde. Che cos’è Ravenna o una città simile a Ravenna? Una città che «è una sintesi in bilico, / aperta, / un pavimento che riaffiora dal terreno, / dove scorre la pioggia / e ristagna, / dove il muschio / cova l’arsura e viceversa» (Prospettive umane). In sintesi e in bilico, precisione millimetrica e andare a tentoni, il muschio che cova l’arsura e l’arsura che cova il muschio là dove ci si aspetterebbe fango. (…)
Jean Soldini, estratto dalla Prefazione a Dopo questo inverno Continua a leggere→