La virtù dei buoni libri

Un libro che riapre sentieri interrotti

di Franco Ferrarotti

Ecco un libro geniale e originale. Per questo va segnalato, letto e meditato. È un libro che parla di libri, ma, come dice bene l’Autore nell’avvertenza posta all’inizio, non è un libro di recensioni. Non è, in altre parole, uno di quei libri – temo che si tratti della maggioranza – che sono prodotti, oserei dire, incestuosamente mercé altri libri.

Contro tutte le apparenze e le prime impressioni, che a torto Voltaire riteneva le più giuste, (méfiez-vous de la première impression; c’est la bonne), questo libro non fa parte e non rientra nella cultura libresca. È vero che spesso, troppo spesso, quando gli scrittori parlano dei loro colleghi lo fanno in termini molto libreschi e intellettuali. Parlano e scrivono come se dovessero venir letti, e giudicati, solo da colleghi e intellettuali.

Questo libro è diverso. È un’altra cosa. Ha la virtù che hanno i buoni libri – una esigua minoranza nella sterminata produzione di molti editori, degradati ormai a meri stampatori, portati a vendere libri come se fossero carciofi o patate o altra frutta di stagione. Questo libro fa parlare i morti. Ne resuscita l’intento profondo. È una chiamata dall’oltretomba; richiama un passato ormai ritenuto lontano, che invece ha ancora cose importanti da dire nel presente o addirittura contiene i semi dell’avvenire.

C’è un merito ulteriore, che non va sottaciuto. Questo libro non parla solo di libri best-seller. Parla anche, se non soprattutto, di libri poco noti al gran pubblico. Oppure parla di libri divenuti noti o anche celebri per le ragioni sbagliate. Ma parla anche di «rivisitazioni» critiche necessarie, non più rinviabili, vale a dire di libri riscoperti pienamente, valutati solo generazioni dopo la loro prima pubblicazione.

Il successo commerciale non è ritenuto un test decisivo per il valore di un libro. Tutti sanno che Honoré de Balzac fu subito famoso. La sua «comédie humaine» vendeva molto. I suoi contemporanei – la borghesia francese in ascesa – vi si rispecchiavano come in uno specchio di alta fedeltà. Stendhal, invece, del suo trattatello De l’amour, aveva venduto tre copie in otto anni. Non solo nessuno lo comprava. Non lo toccavano neppure. Lo sconsolato Stendhal confessa, a malincuore: «On dirait qu’il est sacré. Car personne n’ytouche». Curioso com’era, si fa dare dal libraio – una specie di libraio in via di rapida estinzione – nomi e indirizzi dei compratori. Li va a trovare. Che delusione! Almeno due di loro avevano comprato il libro credendo che si trattasse di un Kamasutra. Ma Stendhal, con La Certosa, Il Rosso e il nero e i Souvenirs d’égotisme dava un appuntamento ai lettori di centocinquant’anni a venire. Inutile dire che l’appuntamento è puntualmente scattato. Continua a leggere

Kikuo Takano (1927-2006)

Kikuo Takano

WALTER SITI SULLA POESIA DI KIKUO TAKANO

La prima cosa da fare, credo, ragionando intorno alle poesie di Kikuo Takano, è difenderle contro una lettura banalmente “poetica”: il vuoto, lo smarrimento dell’anima, il miracolo della natura (“rabbrividiscono i fiori di mimosa”),l’amore per la vita – genericità che potrebbero richiamare, e soddisfacendo le nostre basse voglie di sublime, certo ermetismo attardato di provincia. La sua poesia è invece per eccellenza grammatica e antisentimentale, violenta asimmetrica esigente; una poesia che non ha paura di riconoscersi contraddittoria, di tacere quando è il caso, e che non cerca il facile plauso. Non per niente nasce, storicamente, dal disastro del Giappone post bellico; Takano ricorda, lui diciottenne, l’incontro in treno con una sopravvissuta di Hiroshima. La poesia si riconosce spezzata come in quel momento il paese, la sintassi è squassata, il metro ( per quanto si può capire dalle traduzioni, e posto che il paradigma di linearità che vige laggiù sia confrontabile al nostro) si disarticola in membri brevissimi e lunghissimi, il verso libero e contundente si impone come esigenza psicologica; “Arechi”, Il nome della rivista che ospita le sue prime prove e mature, in giapponese significa letteralmente “deserto”, “terra desolata”. Aridità, desolazione, frammentazione sono prima di tutto di bei dati fisici, creaturali – per salvarsene esprimendoli l’unica via è quella della cultura, che per Takano è fin dall’inizio, una cultura razionale, lucida, di matrice filosofica e scientifica (mai dimenticare che è stato un buon matematico, autore di importanti ricerche sulla formula del pi greco). Continua a leggere

Arthur Rimbaud (1853 -1891)

Arthur Rimbaud

AUBE

J’ai embrassé l’aube d’été.

Rien ne bougeait encore au front des palais. L’eau était morte. Les camps d’ombres ne quittaient pas la route du bois. J’ai marché, réveillant les haleines vives et tièdes, et les pierreries regardèrent, et les ailes se levèrent sans bruit.

La première entreprise fut, dans le sentier déjà empli de frais et blêmes éclats, une fleur qui me dit son nom.

Je ris au wasserfall blond qui s’échevela à travers les sapins: à la cime argentée je reconnus la déesse.

Alors, je levai un à un les voiles. Dans l’allée, en agitant les bras. Par la plaine, où je l’ai dénoncée au coq. A la grand’ville elle fuyait parmi les clochers et les dômes, et courant comme un mendiant sur les quais de marbre, je la chassais.

En haut de la route, près d’un bois de lauriers, je l’ai entourée avec ses voiles amassés, et j’ai senti un peu son immense corps. L’aube et l’enfant tombèrent au bas du bois.

Au réveil il était midi. Continua a leggere

Una poesia di Alessandro Ceni

Alessandro Ceni

Io sto qui e da qui
vedo collassare le stelle, implodere i volatili,
cabrare verso il loro dio le nubi
per poi precipitare in lacrime e piogge;
vedo cadere tutto e tutto
ininterrottamente
la foglia, l’ala, il vento
che incitano il bambino giù dal tetto
e la polvere dalla tasca buona del cadavere,
persino volare in aria per un momento
l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò
ma senza che mai nulla
giunga mai veramente al suolo,
così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella
sua nube.

Io, dalle volute di fumo umide e
dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo
siano venuti degli uomini, credo,
ad ardere i campi e con essi la mia vita;
sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta:
i figli cessano di crescere i genitori non muoiono
in ogni frutto traspare la sua gemma:
rivedo mio padre quando aprì la botola
e discese nel buio e nulla seppe mai più di me,
riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che
                                                                                 non torna,
ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico
negli abissi del mare o perché gli uccelli credono
col loro canto di far sorgere il sole.
Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il
                                                                        proprio amore
e non perdonano e sono spietati
e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode
a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro
                                                                                      esistenza
e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza
fino alla follia, covone dopo covone, con metodo,
contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della
                                                                                                vita
per abituarti a guardare ogni cosa

come da dietro una vampa.

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Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Meglio star zitti? raccoglie centosettanta stroncature firmate da Giovanni Raboni in quarant’anni di attività critica: interventi talvolta garbati, più spesso sarcastici e addirittura spietati, tesi a mettere in discussione il valore e il significato di prodotti artistici (romanzi, poesie, film, spettacoli teatrali) e di fenomeni di costume. Ne fanno le spese nomi blasonati: Woody Allen, Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Giorgio Gaber, Ernest Hemingway, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Inflessibile nella difesa della qualità, Raboni condanna la deriva consumista della produzione culturale italiana del dopoguerra, rivendicando la responsabilità primaria del critico militante: essere per il pubblico una guida attendibile e onesta, chiamata a distinguere il “vero” dal “falso”. Compito che va sempre più assumendo i toni di una solitaria e disperata sfida etica.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere

Letture pubbliche di poesia, festival di poesia: e perché no? Anche se appaiono ormai lontanissimi i tempi, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in cui ci siamo entusiasmati per questa nuova forma di comunicazione e, sembrava allora, addirittura di aggregazione, non per questo sembra il caso di metterne in dubbio la legittimità e il senso. Piuttosto, può valere la pena di chiedersi che cosa a suo tempo si prevedesse o sperasse e che cosa, poi, si è davvero verificato, anche per non cadere ulteriormente nelle stesse illusioni. Continua a leggere

Carlo Porta, la grande passione di Patrizia Valduga. La migliore traduzione dei suoi versi scritti in dialetto milanese

El sarà vera fors quell ch’el dis lu,
che Milan l’è on paes che mett ingossa,
che l’aria l’è malsana, umeda, grossa,
e che nun Milanes semm turlurù.

Impunemanch però el mè sur Monsù
hin tredes ann che osservi d’ona cossa,
che quand lor sciori pienten chì in ista fossa
quij benedetti verz no i spinten pù.

Per ressolv alla mej sta question,
Monsù ch’el scusa, ma no poss de men
che pregall a addattass a on paragon.

On asen mantegnuu semper de stobbia,
s’el riva a mangià biava e fava e fen
el tira giò scalzad fina in la grobbia.

Carlo Porta Continua a leggere

“Il dolore è una cosa con le piume”

Max Porter

DAL RISVOLTO

Una sofferenza indicibile che travolge e stordisce.
Un uomo, studioso di Ted Hughes, è rimasto solo con i due figli, nella loro casa di Londra, dopo la morte della moglie. I tre devono fare i conti con un tempo che si è fermato, con un dolore ingombrante come una presenza. Fino alla visita inaspettata di uno strano personaggio che ha le piume e l’aspetto di un corvo. Un corvo dotato di un feroce senso dell’umorismo, un po’ baby-sitter, un po’ terapeuta, ma soprattutto amico. Un corvo che potrebbe aiutarli a venire a patti con la sofferenza e a dare un senso a un evento terribile. Sogno o realtà? Quello che è certo è che i ricordi feriscono, ma a poco a poco leniscono anche. E giorno dopo giorno il tempo ricomincia a scorrere.

Fiaba, romanzo, poesia, questo libro è una struggente storia sul dolore, sulla perdita, e sulla forza dell’immaginazione e delle parole che aiutano a vivere.

Un autentico caso letterario, una storia sul senso della perdita e sul ricordo come cura.
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Francesco Filia, da “Parole per la resa”

Francesco Filia

Eco – notte – la spiaggia ghiaia e ciottoli
solcano, netti, la pelle. La schiena inarca
il desiderio che ci abita, attende
tra costellazioni e il vortice
di un cielo lontano e adesso sappiamo
che questo contare e ricontare le stelle,
misurarle con le dita a sestante, un gioco non è.
Il gonfiarsi cupo delle onde. L’enorme
abbraccio degli abissi. La vita
primordiale che li abita, noi due lì giù
annegati obliati avvinghiati, cibo
per l’eterno. Il buio abita
il mare, il firmamento oltre le stelle, il solo,
il vero, l’unico buio. La voragine del cielo.
La furia cobalto di questa marea. L’immenso che ci travolge. Continua a leggere

Roberta Dapunt, la libertà del bene

Roberta Dapunt

Piange sottovoce il sangue,
violenta al risveglio un’asfissia di sonno.
Pesa poco l’immensità versata, è ritmo di poca virtú.
Duole la cadenza delle tempie, a favore di questa miseria indifferente
che esce dal mio naso. Che esce.
Guardo ed è rossa vita senza storia, la mia esposta all’aria.
Io credo di poter vedere in questo una serena illusione,
e sono grata al corpo e a ciò che questo incarnato bagaglio
ancora può nell’universo dei versi:
esce in questo sangue il meglio di me.
È l’unica verità che vedo in questo momento,
la libertà del bene che esce. Che esce e finisce in terra,
dritto sangue e senza esitare si conclude. In terra.
Cosí anche il resto di me che cade, si rivolge al suolo questo corpo,
facile orizzonte davanti a me.

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Nadia Fusini, “María”

«Sono venuta a confessare un delitto». È una creatura docile e gentile a proferire questa frase terrificante. Si chiama María, ha la fissità di una statua e negli occhi una luce ardente, la stessa dell’isola da cui proviene. L’agente di polizia che in Questura redige la confessione, pur intuendone la pericolosa ambiguità, resta ammaliato e desidera immediatamente conoscere ogni cosa di lei – forse perché, a volte, orientarsi nella vita di una donna significa per un uomo avvicinarsi con ostinazione a se stesso. Fra l’aspirazione al divino e la condanna di avere un corpo, María racconta la sua storia. E rievoca quando rinunciò a tutto per andare a vivere con quello che sarebbe diventato suo marito e insieme il suo carceriere: le loro notti di amore accanito e la vergogna del giorno dopo, la gabbia della gelosia e il miracolo della libertà che non si compie mai. Ammette di essere finita nel labirinto di una passione tanto ineluttabile quanto assassina. Adesso sta scappando, alla ricerca del suo unico figlio. Continua a leggere

Alfredo de Palchi, “Nihil”

ESTRATTI

è il mio mitico fiume ed è mia intenzione di
scendere con aneddoti e versi nella giovinezza degli
anni prima che accadesse la caccia alla vita e fossi
spinto a un esilio di vituperi, d’invettive, sevizie,
accuse, prigionia, cronache malvage di anonimi vili
reporter, invenzioni abolite poi dalla legge;
rimangono le ferite e sei anni spenti; ma qui, invece
gli aguzzini usurpano ancora persino il loro funebre
fosso.

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Brunetto Latini, opere poetiche

S’eo son distretto inamoratamente
e messo in grave affanno
assai piú ch’io non posso soferire,
non mi dispero né smago neiente,
membrando che mi danno
una buona speranza li martire,
com’eo deggia guerire:
ché lo bon soferente
riceve usatamente
buon compimento de lo suo disire.

Brunetto Latini, Poesie (Einaudi, 2016)

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Gaio Valerio Catullo, Le poesie

RISVOLTO

I poeti d’amore sono una specie estinta, lamenta Ceronetti. Erano d’amore i poeti che morivano giovani, mentre oggi «invecchiano, fanno il beta-bloccante, la ricucitura coronarica, una pastiglia al giorno, conferenze a Harvard, cure per lo stress in Svizzera». Un motivo in più per amare Catullo, che della passione devastatrice ha conosciuto «tutti i gradi: la cristallizzazione stendhaliana, l’adorazione, l’esecrazione, il tradimento, la vergogna della propria schiavitù, eroe del beau rôle e chicchirichì del professor Unrath». Continua a leggere

Valerio Magrelli, “Millennium Poetry”

Millennium Poetry, Viaggio sentimentale nella poesia italiana“, a cura di Valerio Magrelli, voce narrante nell’opera, è in uscita con Emons: audiolibri, (2019).

Valerio Magrelli, professore di Letteratura francese all’Università di Cassino, scrittore, traduttore, critico letterario, è uno dei più affermati poeti italiani contemporanei. Per la sua attività letteraria ha ottenuto molti premi, fra cui il Mondello e SuperMondello, il Premio Viareggio per la poesia e il Premio nazionale per la traduzione.

Le sue ultime raccolte di poesia  Poesie (1980-1992), Il commissario Magrelli e Il sangue amaro, sono tutte pubblicate da Einaudi.

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Il bacio nella poesia e nell’arte

Un libro d’amore mai pubblicato, un libro sui baci nella poesia e nell’arte per San Valentino. Si tratta di una selezione di poesie con immagini di baci d’amore, baci proibiti, legittimi e illegittimi, baci d’affetto, senza dimenticare i baci di tradimento, scelti  da Alessandro Barbaglia, scrittore e libraio.

Fra gli autori antologizzati Neruda, Valduga, Heine, Rostand, Szymborska… ma l’elenco continua.

CAIO VALERIO CATULLO
Dammi mille baci

Viviamo, o mia Lesbia, e amiamoci,
e le dicerie dei vecchi severi
consideriamole tutte di valore pari a un soldo.
I soli possono tramontare e risorgere;
noi, quando una buona volta finirà questa breve luce,
dobbiamo dormire un’unica notte eterna.
Dammi mille baci, poi cento,
poi ancora mille, poi di nuovo cento,
poi senza smettere altri mille, poi cento;
poi, quando ce ne saremo dati molte migliaia,
li confonderemo anzi no, per non sapere (il loro numero)
e perché nessun malvagio ci possa guardare male,
sapendo che ci siamo dati tanti baci. Continua a leggere

In memoria della Shoah

In occasione della Giornata della memoria a Novara giovedì 24 gennaio 2019 alle ore 18, nella sala Genocchio della Biblioteca Negroni (corso Cavallotti 6), presentazione  dell’antologia internazionale “Nell’abisso del lager. Voci poetiche sulla Shoah” a cura di Giovanni Tesio.

Nell’abisso del lager, la prima antologia internazionale di poesie sull’Olocausto, è in libreria dal 20 gennaio 2019.  Le voci poetiche più intense della Shoah sono per la prima volta riunite in un’antologia da cui emerge il valore di testimonianza, di presa diretta e di riflessione, che non attenua l´importanza anche estetica delle poesie di Paul Celan o Nelly Sachs, di Dietrich Bonhoeffer o Mario Luzi, fino ad Antonella Anedda e Erri de Luca.

 

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Lettere d’amore sull’arte e la poesia

 

 

Giovedì 31 gennaio 2019
ore 18.30 (in lingua italiana)
Presentazione libro
FLORIAN ILLIES
L’invenzione delle nuvole. Lettera d’amore sull’arte e la poesia
In occasione dell’uscita della traduzione italiana, in collaborazione con Marsilio Editore
Con l’autore interviene il giornalista Dario Pappalardo

Casa di Goethe
Via del Corso, 18
00186 Roma

Dall’Ottocento di Caspar David Friedrich, passando per l’espressionismo di Gottfried Benn fino alla tragedia della Prima guerra mondiale con Georg Trakl e alla Pop Art di Andy WarhoI, Illies ci accompagna attraverso due secoli d’arte e letteratura. Ad affascinarlo non sono solo le vite dei pittori e le loro opere: come nella tradizione di un novello Warburg lo sguardo dello storico dell’arte tedesco è capace di trovare percorsi latenti, fili nascosti, rimandi e simboli che mostrano in una nuova luce i segni del passato. Si scopre così, in una personalissima e suggestiva camera delle meraviglie, perché nel loro Grand Tour i pittori dell’Ottocento scegliessero di fermarsi in piccoli e dimenticati borghi italiani per studiarne la luce e il panorama unici, o in che modo, da Goethe in poi, il Vesuvio sia diventato un’ossessione per molti artisti tedeschi, fino a domandarsi se il Romanticismo non fosse davvero una malattia e, nel caso, se fosse curabile. Nel racconto di Illies immagini quotidiane e luoghi d’elezione di scrittori e artisti riemergono pieni di luce, colore, di struggente bellezza.

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Mia Lecomte, “Di un poetico altrove”

Le migrazioni planetarie messe in opera dai rivolgimenti storici e politici della fine del secolo scorso stanno sconvolgendo gli attuali assetti nazionali e sottoponendo le popolazioni a un rimescolamento identitario e linguistico a cui conseguono culture ibridate e la messa in discussione della legittimità dei canoni letterari. Le cosiddette letterature transnazionali allofone vengono disegnando la mappa sempre più allargata di un nuovo universo letterario costituito da scrittori “ubiqui”, inclassificabili, la cui produzione narrativa e poetica sfugge alle definizioni di genere e pone l’accento sulle dinamiche linguistiche inerenti alle scritture in transito. Continua a leggere

Stefano Carrai, “La traversata del Gobi”

Stefano Carrai

Scrivere un libro di poesia significa sempre fare i conti con la storia, quella personale e quella della forma che configura l’esperienza, la mette quasi in trama e la rende più leggibile di quanto non fosse, per così dire, dal vivo… È sotto questa costellazione che si colloca il libro di Stefano Carrai”.

Niccolò Scaffai

da “La traversata del Gobi”, di Stefano Carrai, (Nino Aragno Editore, Torino 2017)

Intermittenza

Per un fiasco che ho visto
sgraziato
            ​non abbastanza panciuto
vestito di brutta paglia sintetica
mi sono ritrovato
nel nostro magazzino

fatti i compiti attaccavo etichette
e mettevo sui colli
sigilli di stagnole colorate…

Ma il tempo sleale

           babbo
ti aveva surclassato
con la novità del supermercato

dall’emarginazione ci salvò
l’unico membro tuo che non sia
seppellito con te

la tua gamba amputata
buttata ancora calda
dai guardiani di Schweinfurt
tra i rifiuti

             ​per legge

ti assicurò l’impiego
mi garantì gli studi.

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Massimo Morasso, “L’opera in rosso”

Massimo Morasso

di Giancarlo Pontiggia

Anima «dedita al suo fine», giardiniere «in un giardino smisurato», fanciullo heideggerianamente «destinato-a-scrivere», l’io lirico che abita queste pagine sente l’arduo compito che gli è stato affidato: «triturare l’apparenza, / sfondare i limiti del senso», rammemorare al lettore l’unità profonda di spirito e vita, presenza e memoria. Ogni oggetto materiale, ai suoi occhi, si fa simbolo, ravviva «lontananze irriducibili», svela patti, alleanze, l’eden che fu prima della storia, e prima di ogni diaspora, «il quid che unisce rocce a scheletri».

Al pari di un monaco medievale – evocato nella poesia d’esordio – egli sa di non essere che uno strumento di potenze più alte: sul modello sublime dell’opera dantesca, si fa umile scriba, si limita a trascrivere ciò che gli viene dettato. Non gli sfugge la difficoltà del compito, l’irriducibilità della parola, la forza oscura e contraddittoria dei fatti: eppure non rinuncia alla sua caccia spirituale, a invocare i suoi nomi, i suoi luoghi fatali e privilegiati: «il mio giardino / e un bimbo, un arcipelago / in tempesta, e tutto intorno Genova, / scalena e verticale». Nel catino di un’infanzia ormai remota, nelle letture che lo emozionarono un giorno, era già la radice di ogni dopo: l’aurea isola di Stevenson conteneva ben altre mappe, ben altri tesori. Continua a leggere

Stefano Dal Bianco, “Ritorno a Planaval”

Stefano Dal Bianco

In questo libro, scritto in un ampio arco di tempo, dal 1993 al 2001,  ripubblicato nella Collana Gialla di Pordenonelegge  (LietoColle, 2018) Stefano Del Bianco riflette tra le cose e i luoghi della sua realtà quotidiana. “Ritorno a Planaval” è in un certo senso il diario lirico, la registrazione dei movimenti anche minimi di uomo – il poeta stesso – che si osserva esistere.

Uno dei libri di poesia più amati degli ultimi vent’anni viene qui riproposto con una ricca postfazione di Raffaella Scarpa, un intervento di poetica dell’autore e un saggio di Fernando Marchiori.

IL VETRINO

Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.

È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno
lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire
lo raccolgo e lo butto»,
e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio
perché non se ne andasse o scomparisse
tra le frange del tappeto o altro.

Ma il bagno libera i pensieri e al momento
di uscire dalla stanza un’altra
memoria ne prendeva il posto,
e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni
è diventato un’ossessione, un’ossessione
all’ultimo secondo regolarmente rimossa.

E oggi mi sono impuntato,
mi sono concentrato più di ieri
e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:
è stata una vittoria graduale
di una memoria su altre memorie.

Ho allungato la mano e con sorpresa
il vetro non ha opposto resistenza:
è stato docile, si è fatto raccogliere
come se per tutto questo tempo
avesse atteso me, il mio intervento.

Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere
per rispetto o per amore l’ho posato
sul nero della scrivania, davanti a me,
e scrivendo lo contemplo e raccolgo
la sua storia di cosa legata alla mia,
uno stesso appartamento ci contiene.

Sono orgoglioso di averlo salvato
e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.
Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte
lo metto all’ aperto e me lo guardo
perché c’è la luna, perché ritorni,
nella chiara altezza di cobalto, il cielo. Continua a leggere

Daniela Attanasio, “Vicino e Visibile”

Daniela Attanasio /credits ph Dino Ignani

Di Luigia Sorrentino

La poesia di Daniela Attanasio è epigrammatica, si concentra sulla realtà con versi brevi e arguti che hanno un tono caldo della voce. La sua è una voce estranea all’enfasi, anzi, la sua poesia si concentra sul silenzio che sgancia la parola e per lasciare sulla pagina uno spazio bianco, tra un verso e l’altro. Uno spazio meditativo per lei che scrive, ma anche per chi legge. Nel tempo della meditazione e dell’ascolto entra tutta la vita e ciò che cattura la nostra osservazione ci immerge in una realtà potente.  Nei momenti in cui la sua poesia si fa “fisica” le emozioni arrivano nel nostro sguardo come “un’ultima  goccia di luce lunare scivolata sugli occhi con il gusto delle lacrime”.

da VICINO E VISIBILE di Daniela Attanasio, (Aragno, 2017)

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Maurizio Brusa, una vita scalza

Maurizio Brusa

di Maurizio Cucchi

Io lo ricordo ancora da ragazzo, con quella sua aria timida e acuta, tremante e viva, che a dispetto di tutto e di una sofferenza intima e profonda che lo ha sempre accompagnato, ha continuato a essere la più nitida e rara evidenza del suo essere, del suo carattere. Uomo sensibilissimo e poeta raffinato, nei temi e nella scrittura, Maurizio Brusa ha sempre coltivato la letteratura non come un’ancora di salvezza, ma come una prova di verità, e di una verità, quella della sua esistenza, dove il dolore, purtroppo, ha sempre prevalso. Ma tra le sue virtù c’era anche, nella piena consapevolezza della più oscura sofferenza, la nobiltà d’animo del silenzio e del distacco solitario, della discrezione nemica dell’enfasi e di ogni banale forma di retorica autoesibizione. La sua, come dice il titolo del libro che abbiamo da poco pubblicato, è stata una vita scalza, dunque asciutta, ruvida e senza orpelli o infingimenti. E così è stata la sua opera, la sua poesia, che è tutto ciò che ci rimane, e non è certo poco, ed è qualcosa da raccogliere nella sua completezza, e su cui ritornare. Con il rimpianto, si capisce, per la troppo prematura scomparsa dell’uomo, tanto amabile e intenso nella sua tenera, affabile e trasparente innocenza.

Da La vita scalza, di Maurizio Brusa, (La Collana Stampa, 2017)

Su questo angolo di strada
non si dimentica
chi porta esilio.
Per lo spicchio d’osso che ti piega
(le unghie troppo curate)
la passeggiata che finiva
al mercatino di bigiotti e ambra. Continua a leggere

Le lettere d’amore di Emily Dickinson

Appassionato,  mistico, tenero e doloroso: nell’opera di Emily Dickinson l’amore è declinato in molte forme diverse, tutte intense, sempre liriche. Anche quando la poesia si fonde con la prosa, come in Lettere d’amore. In questa raccolta epistolare c’è tutta la vita di Emily Dickinson: le prime lettere alle amiche del cuore, i biglietti di San Valentino, le missive indirizzate all’amato giudice Lord; il rapporto duraturo con l’amica e poi cognata Susan Gilbert e la morte dei genitori; la relazione letteraria più che ventennale con Thomas Higginson; lo scambio con il «Master», un destinatario che, se mai è esistito, rimane ancora misterioso. L’amore di Emily Dickinson è tutto spirituale eppure compiutamente terreno, pervasivo di ogni aspetto della vita e sorgente di poesia. È forza motrice dell’universo, sotto il cui segno ogni vivente arriva a vedere la luce. Le Lettere d’amore di Emily Dickinson sono l’espressione pura e sublimante di questa potenza primordiale cui tutti dobbiamo e vogliamo soggiacere. Continua a leggere

La zona poetica di Giovanni Pascoli

di Fabio Izzo

ll poeta che più di tutti interpreta le contraddizioni dello sviluppo del capitalismo è Giovanni Pascoli, il primo letterato italiano a limitare, in maniera implicita, gli argomenti poetici. La sua distinzione vuole che l’anima dell’arte sia universalmente sviluppata e che questo sviluppo sia raggiungibile evitando il contatto diretto con la produzione industriale. D’altro canto i futuristi si dedicano al feticcio macchina e al mondo industriale abbandonando l’uomo e i suoi sentimenti, schierandosi con l’imperialismo e in spregio a qualsiasi dialogo con il passato dichiarano morta l’arte tradizionale. Nato in Romagna lì dove le industrie del Nord cominciano a fare spazio all’agricoltura del centro su dell’epoca, zona in cui le ribellioni contadini si appropriavano dei valori dell’anarchia.
Pascoli vuole restituire all’uomo la carica eroica che è andata perduta dopo il Risorgimento.

Pascoli divulga in campo letterario quello che di solito è discusso nelle riviste politiche dell’epoca, cioè lo sfruttamento del capitale straniero sull’industria italiana L’Italia, nella sua visione, è tutta proletaria e di conseguenza borghesi e operai devono allearsi contro lo sfruttamento europeo, imporsi al rispetto internazionale, migliorare le proprie condizioni. Se tutto ciò è generalmente contestualizzabile nello spirito dell’epoca, soprassedendo sulla propensione colonialista, vediamo che quello che è davvero originale nel poeta è la ricerca di una forma artistica e addirittura estetica in grado di riprodurre queste idee senza il ricorso alla forzatura politica. Pascoli intuisce l’oppressione dell’uomo, limitato dall’avanzante industrializzazione, e il suo temperamento gli impedisce di ignorare la questione. Il suo limite è quello di vedere le classi italiane unite , così la sua sincerità poetica lo porta a evitare la finzione dei grandi temi. Pascoli è diviso tra la sua intuizione dell’uomo che tende a liberarsi e svilupparsi e la convinzione che la società industriale sia l’ostacolo più grande.

Pascoli scioglie i suoi dilemmi isolando dal complesso della realtà gli elementi che a suo parere rendano immune l’essere umano dai mali del capitalismo. Inizia così una ricerca dedicata a una realtà dove gli uomini abbiano comune possibilità d’esprimersi. Eguaglianza e pieno sviluppo industriale coincidono, secondo il poeta infatti un nucleo sentimentale uguale è in tutti noi, basta saperlo ritrovare, acquistando coscienze e mettendoci in comunicazione alla pari con gli altri superando quindi le vessazioni imposte dal capitalismo. Se si accatta globalmente la società capitalista si perde il dono della poesia. Questa area sentimentale è una zona poetica che definisce l’uomo sviluppato. Stiamo ovviamente parlando del “fanciullino” che esiste e resiste negli individui, nelle società ingiuste dove l’uomo è oppresso , aliena e limitato, non ascoltato.

L’obiettivo del Pascoli non è sociale, ma estetico, l’arte serve a svegliare il fanciullino, non esiste arte che non implichi la necessità individuale di esprimersi al di là delle limitazioni imposte dalla società borghese capitalista. L’artista moderno è obbligato a scegliere i propri temi in seguito a una serie di rinunce, i grandi temi sociali lasciano posto all’intimismo. Continua a leggere

Lucio Mariani, in memoria di te

da Farfalla e segno (Crocetti, 2010)

Giochi d’acqua

Né una stella né un demone o un’avèrla
mi chiesero di esistere. Pure ti parla
ancora e ti sorride uno dei mille
e mille giochi d’acqua, un caso della forma,
la drupa lavorata dalle prove del tempo
fatta colma di sangue, che guardi e accarezzi.
Né una stella né un demone domanderà
quando vorrò morire. Ma insiste l’ora e l’ombra
si propaga sulla spalla, insiste nelle frazioni
e i multipli a devastare puntigliosamente
mentre rifiuto il fratello sconosciuto
che mi rende
i suoi occhi malati nello specchio.
Non mi chiede una stella di scrivere la vita
e con le dita stringere il sogno e la memoria.
Ma
la penna e l’ago della mia ferita.

*

da Canti di Ripa Grande (Crocetti 2013)

Mikonos

Sono tornato all’isola dei venti
dove svetta e governa fra i gerani
il girasole.

Dove la canna inarca lance al meltemi
che fa calva la roccia e scala al mare,
farneticando fra rovigli bruni
fra bruni grilli e brune lagartíglie
in concerto di fasci sibilanti sulla battigia,
tentativi di turbine, poi mille costure all’acqua.

Strappa il cielo una nuvola.
Il bavero del vecchio caicco
si gonfia, è un fico maturo,
vola come un messaggio verso Delo
porta sacra del divino intervallo.
Qui una regola di civiltà pietosa
non consentiva nascita né morte.

Laggiú tra le sedie cresciute sulla spiaggia
Chatzidakis piange la sorte del postino
con tutte le corde delle correnti di mare.

Si scorda dove porta la strada. Continua a leggere

Enzo Ragone, fare il verso al mondo

Questa notte è vorace.
Divora tutte le altre notti.
Nel suo ventre buio
non c’è spazio
per il riavvolgersi del tempo
né per gli intervalli dei nostri silenzi.
Ingoio la tua carne
e la mia anima
in questo sacrificio rituale
che è attesa dell’alba.
Dormo e negli occhi
ho le forme danzanti
del respiro della tua felicità.

La pietra di Sarajevo

Solo tu sei la pietra
che nelle vene materne
così uguali alle ferite del mondo
ha accolto la differenza
tra le parole dell’ultima sura
E le prime verità
dettate da un Dio lontano.
Solo ti sei la pietra
che nessuno ha mai pensato di usare
per costruire muri
tra un tempio e l’altro.
Solo tu sei la stessa carne
di quattro anime diverse.
Solo tu eri la materia identica
di tutte le tombe
prima che questa guerra
trasformasse per sempre
il nostro modo di morire.
Solo tu hai un cuore così forte
per sopportare tanto dolore
e raccontare al mondo
che non ha occhi per guardare
di che colore è il sangue degli invisibili.

 

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Francesco Tomada, un poeta di frontiera

di Giovanni Ibello

La poesia di Francesco Tomada trae origine dal nucleo stesso della parola, dalla sua funzione più minima e immediata: Francesco, goriziano nato nel 1966, è un poeta di frontiera e pertanto conosce l’importanza dell’unire, la fatica di costruire ponti. La sua attività di “nominazione” è certamente un rischio (anche se calcolato), poiché la “nuda parola” si presta al lirismo, alle cadute di stile e, più in generale, alla retorica. Tomada, invece, pur fiutando il pericolo, lo accetta, lo fa suo; anzi, si destreggia tra queste “mine” con grande disinvoltura. Del resto, basta veramente poco a far crollare una poesia (soprattutto quando, come in questo caso, si fa richiamo a una parola che è “origine”): un verso sbagliato, una parola distonica, un aggettivo che non aggiunge, un accento che stronca il suono. Ed è proprio in questo rischio – cercato prima e ammansito poi – che l’autore si esalta e riesce a declinare la sua visione delle cose. Il suo stile, ancorché narrativo, fuga ogni artifizio letterario e definisce, appunto, il confronto tra la parola e l’oggetto nella sua forma più essenziale. “A ogni cosa il suo nome”, recita – tra l’altro – il titolo di una sua superba raccolta di poesie. Tomada è un poeta vero, conosce l’arte della rastremazione, il peso delle parole; le lascia libere sul foglio rinunciando ai vincoli della punteggiatura. Sa creare legami elettrici col vuoto, perché non teme la mancanza di fiato, non teme di guardare nella bocca del fucile. La sua poesia è “kamikaze”, sfacciata, estroversa nella dolcezza e schiva nel disarmo. Rischia di travolgere il lettore proprio perché è estremamente materica. Eppure, questo poeta vive di insight, di guizzi improvvisi, di approcci epifanici che estendono i confini del reale. Non deve sperimentare perché i suoi versi sono elementari, nel senso più nobile del termine, privi di virtuosismi. Tomada, è dunque un “poeta del possibile”: riesce a censire tutte le fragilità della bellezza, la tenerezza degli affetti, ma anche il dramma della perdita, della morte prematura, della prigione del corpo. Ecco perché, nella sua estrema dolcezza, esiste un demone che giace supino, una bestia che non si fa scrupoli ed è pronta a ghermire la preda come a dire che “non si scende a patti con la poesia”.

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Nadia Agustoni, “Lettere della fine”

Nadia Agustoni, Lettere della fine. Vydia 2015

di Giuseppe Martella

Da un punto d vista retorico, quella di Agustoni in “Lettere della fine” appare come una poetica della sineddoche monca o preclusa: la parte sta per l’intero ma l’intero (la fine) non viene mai raggiunto. Più precisamente, poiché la sineddoche è una specie della metonimia che assieme alla metafora costituisce uno dei poli generativi del discorso (Jakobson), diciamo che quella di Agustoni è una poetica della metonimia interdetta, nel doppio senso che da un lato essa è preclusa ma dall’altro è anche detta fra le righe. In generale, semplificando, poiché la metonimia (funzionando sull’asse della contiguità) sta alla metafora come una mininarrazione sta a una minidescrizione, e poiché queste due figure sono i nuclei generativi della configurazione del discorso in generale, diciamo che quella di Agustoni è una poetica della figura incompiuta, amputata, interdetta. Infatti in questo testo le figure del discorso sovente non si concludono e il lettore rimane così intrappolato nelle lettere del testo. Anche in questo senso tecnico, qui si tratta proprio di “lettere della fine”. E questo è uno degli artifici principali che l’autore usa per la messa in mora del soggetto e per la sua decostruzione strategica. Qui si realizza insomma, nell’interazione fra le parole e le cose, in modo radicale e a livello complesso (cioè sintattico e discorsivo) quella poesia della grammatica auspicata da Roman Jakobson, uno dei maggiori linguisti e critici della poesia del Novecento. Ma è ovviamente anzitutto la distruzione sistematica della sintassi abituale che genera l’inafferrabilità del soggetto del discorso e l’indeterminazione delle sue figure, che corrisponde a quella delle forme di percezione del mondo da esse evocate. Insomma, la decostruzione sintattica ha come effetto la mutilazione e la mobilitazione del mondo ambiente di riferimento (Umwelt) e del mondo della vita in generale (Lebenswelt), per lo spettatore coinvolto nel naufragio del senso. L’io poetico ci appare pertanto come una sorta di rapsodo o se si preferisce di hacker, cioè come colui che è in grado di manipolare, tagliare e cucire strategicamente il codice disponibile per produrre dei programmi genetici eversivi o dei virus mutanti. Con un qualche debito verso le “parole in libertà dei surrealisti” e verso le ben note tecniche di cut-up di William Burroughs e compagni: “Le scarpe i fogli le sere nelle buche/di terra le sere che mastichi il pane/l’azzurro è tutta la vita/gli occhi sono la casa/avrai segno come i più piccoli/quelli vuoti di sé che non sanno mai/non sono mai altri.” (35) L’espressione asintattica, unita al roco dettato sottovoce e alla concreta iperreale luminosità delle immagini, non consente la fissazione del punto di vista, la prospettiva unica, il quadro compiuto, cioè quella totalizzazione che nella dialettica negativa di Adorno equivale al falso.

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Marco Santagata e Vincenzo Manca, “Un meraviglioso accidente”

Come è nata la vita sulla Terra? Come si sono formati gli organismi viventi a partire da materia inerte? Qual è il segreto del meccanismo riproduttivo che assicura una sostanziale identità tra gli individui della stessa linea generativa? E, infine, dove si colloca la specie umana in questo strabiliante anche se sempre meno misterioso processo?

Per rispondere nel modo più semplice a domande così complicate un matematico-informatico, Vincenzo Manca, e un letterato-scrittore, Marco Santagata, hanno scelto di raccontare la nascita e l’evoluzione della vita sul nostro pianeta, a partire dal Big Bang, come la sceneggiatura di un film, descrivendo con la giusta tensione narrativa ambienti, personaggi, azioni, sequenza cronologica e i passaggi indispensabili per seguirne la trama.

Così, pagina dopo pagina, incontriamo tutti i principali protagonisti – atomi, molecole, monomeri, polimeri, membrane, cellule, cromosomi, organismi e specie – e le svolte epocali di quella grandiosa e meravigliosa avventura iniziata 3 miliardi e 800 milioni di anni fa con la comparsa della protocellula LUCA, un aggregato di molecole in grado di generare copie di sé capaci di generarne altre, dalla quale provengono tutti gli esseri viventi.

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Samuel Beckett, l’epistolario 1929-1940

IN COPERTINA
Ritratto di Samuel Beckett (1920 ca).
GETTY IMAGES/HULTON ARCHIVE

RISVOLTO

Samuel Beckett è stato a lungo conosciuto, e venerato, anche per la sua aura, dovuta all’aspetto fisico, all’inaccessibilità e al singolare dono per cui certe sue battute – scritte o recitate che fossero – entravano subito nella leggenda e nell’uso quotidiano. Ma soprattutto colpiva, intorno a lui, una zona di silenzio, che era in primo luogo una cifra stilistica. Così, di fronte alle sue lettere straripanti torna in mente il celeberrimo slogan inventato dai produttori di Ninotchka per la Garbo: Beckett parla! Sì, perché nelle sue lettere Beckett parla, moltissimo, e di tutto: del suo primo datore di lavoro, «Mr Joyce»; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion; delle numerose lingue che abitava, e da cui spesso si sentiva posseduto; Continua a leggere

Eliot, le parole si muovono soltanto nel tempo

di Bianca Sorrentino

Tempo, eterna ossessione dell’uomo; inafferrabile, rivelatore, impietoso per chi fa i conti con la propria caduca, mortale esistenza. «Tempo» è anche la parola con cui T.S. Eliot sceglie di aprire i suoi Quattro quartetti, dopo aver dimostrato nel suo capolavoro, The Waste Land (1922), quanto la Poesia costituisca un fluire ininterrotto, rispetto al quale le contingenze hanno ben poco potere; con un approccio rivoluzionario, in un momento desolante sia per le vicende di portata epocale sia per alcune circostanze private, l’autore, novello rapsodo, aveva cucito tra loro versi provenienti da culture e secoli lontani, dando vita a un canto nuovo eppure ancestrale, un respiro all’unisono in cui la Filomela di Ovidio avrebbe potuto condividere con l’Ofelia shakespeariana il suo destino di vittima, un prodigio letterario per il quale Tiresia, l’indovino della classicità, avrebbe saputo parlare al Novecento in virtù di quella forza che accomuna il mito alla poesia, la capacità di trascendere i confini spazio-temporali.

Questa universalità, documentata empiricamente ne La terra desolata proprio attraverso l’applicazione del metodo mitico – in base al quale il mŷthos diviene cioè paradigma per il presente –, nei Four Quartets viene indagata attraverso una meditazione altissima e rarefatta. Le passeggiate nella campagna inglese, lontana dalla polvere sotto la quale giace la capitale in guerra, forniscono l’occasione al poeta per riflettere sul senso della memoria, della ciclicità, del concetto di principio che finisce per compenetrarsi con quello di fine. Non è raro che in questo cammino gli elementi del paesaggio siano figura dei moti dell’animo, segnato nel profondo e reso consapevole dallo scorrere del tempo: si tratta di versi frutto di un’età matura, per di più limati nel corso di sette, lunghi anni (1936-1942), durante i quali la strada è riuscita a levigare le asperità di certe visioni. Così, in uno slancio di rinnovata fiducia e riscoperto senso del sacro, gli occhi si posano su un’arcana primavera invernale, un palpito di vita che ancora resiste dentro i ghiacci.

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Luigi Trucillo “Altre amorose”


La struttura dell’aria

 

La vita non vissuta,
desiderata
amata,
scoccata come una freccia
che centra l’inafferrabilità del lieto fine
è fatta di immagini e parole
molto più che di esperienza,
con alcune eccezioni
piene di comò e cassetti
che ogni tanto si aprono
e ci trovano
poggiati nella struttura dell’aria.

 

Davanti al tuo numero di telefono

Di notte
i corpi soli brulicano
senza interferenze,
e il tuo numero di telefono
affonda dentro le dita
che non si toccano.
Ma poi la tua assenza incombente
diventa un formichiere
che mi succhia dal petto
il brulichio delle cifre
come una moltitudine
del niente.

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Vittorio Bodini

Vittorio Bodini

Da Foglie di tabacco (1945-47)

1.
Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d’un dado.

4.
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi dei morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

Quando tornai al mio paese nel Sud
Io mi sentivo morire.
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Lina Bolzoni, “Galassia Ariosto”

A cinquecento anni dalla prima edizione, le avventure di Orlando e Angelica continuano ad affascinare, a dimostrazione che un classico è tale se vive attraverso i secoli, dialogando con i suoi lettori e ispirando opere nuove, capaci di confrontarsi con le rivoluzioni che coinvolgono gli strumenti espressivi e i modi della comunicazione. Ma quali sono i percorsi che portano un’opera a vivere attraverso la storia? E che ruolo svolgono le immagini che ne hanno accompagnato la nascita e la diffusione? E, ancora, le moderne tecnologie sono inconciliabili con i tempi della lettura, con l’impegno che richiedono la scoperta e la degustazione di un classico? O possono aiutare a ritrovare dimensioni dimenticate o trascurate della tradizione? La storia dell’Orlando Furioso, poema del Rinascimento che da subito è diventato un best seller in tutta Europa, è un terreno fertile per affrontare questi temi. Continua a leggere

La sfida estrema di un grande poeta

RISVOLTO

Apparso negli Stati Uniti nel 1996, questo libro raccoglie la sfida estrema di un grande poeta: testi stesi direttamente in inglese, altri autotradotti dal russo. Un trasloco del poetabile, la verifica di un intero arsenale verbale e musicale alla prova di un’altra grammatica, di un diverso «codice di coscienza». Continua a leggere

Fabio Franzin, “Erba e aria”

Fabio Franzin

«Da alcuni decenni il nome di Fabio Franzin è ben noto ai lettori di poesia; che lo associano principalmente al tema del lavoro, della fabbrica, e a tutto il groviglio di vite e contraddizioni di quel mondo. (…) Eppure nella già vasta opera di Franzin non è affatto assente almeno un’altra armonica, che dagli interni/inferni industriali conduce verso l’auscultazione del mondo naturale, e con esso della memoria che il paesaggio evoca. (…) A questa seconda intonazione poetica appartengono i testi di erba e aria; per i quali dunque non si può certo parlare di assoluta sorpresa, ma piuttosto di paziente continuità con le proprie radici poetiche. E tuttavia (…) il lettore non può non avvertire stavolta un moto di stupore: non per i temi o l’ambientazione, dunque, né per la scelta dialettale già ampiamente sperimentata, sì invece per la leggerezza, per l’impalpabile felicità dello sguardo e dell’espressione, che si confronta con gli elementi basici del paesaggio naturale attraversato dalla storia umana: l’erba, l’acqua, l’aria, le ali, i fiori, e il dedalo di sentieri, viottoli e stradine che in quell’ambiente si inoltrano. Continua a leggere

Angelo Lumelli, “Bianco è l’istante”

Angelo Lumelli

L’osservatore di segni deve essere veloce.
Un buon allenamento è giocare a flipper; fin che la pallina gira è un buon segno, accompagnato da suoni e lucine.
Molti santi filosofi l’hanno capita per tempo, allungando il gioco oltre ogni termine.
Ogni tanto qualcuno, sventurato, prende di mira un segno, per venirne a capo.
In quell’istante il gioco si ferma.
Il segno che è stato preso di mira si volta con aria calma e interrogativa, al punto che l’osservatore comincia a guardare se stesso, a cominciare dalla punta delle scarpe.
Un segno fermo è una sentenza. Continua a leggere

Wisława Szymborska, “Amore a prima vista”

Wisława Szymborska

 

Amore a prima vista

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E’ bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Wisława Szymborska
Traduzione di Pietro Marchesani

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