Daniela Attanasio, Il ritorno all’isola

“Il ritorno all’isola” di Daniela Attanasio, Nino Aragno Editore, 2010 (10 euro).  

<<“Il ritorno all’isola” è un libro sulla dignità del vivere ricercando e sperimentando la bellezza. Questa parola, che si pronuncia con sempre maggiore difficoltà come fosse una debolezza o un modo fatuo di osservare la realtà, è stata censurata, per vizio estetizzante, dalla dittatura della contemporaneità.  Io però sono refrattaria a ogni censura così come a ogni definizione – idealismo, realismo, orfismo… – e dentro la contemporaneità ci sto stretta. “La contemporaneità non è tutto il mio tempo” diceva Marina Cvetaeva -che di cose illuminanti ne ha dette e scritte molte. Invece bellezza è una parola che va pronunciata, urlata; è un bene della vita, una risorsa rigenerante di cui non si può fare a meno perché quando scarseggia, la quantità mancante viene riempita di volgarità e violenza -con tutto quello che ne consegue in campo sociale, economico, etico. In questo libro c’è l’amore perché c’è la vita, ed è il motore di questo sperimentare la bellezza, quello che fa accendere qualche scintilla senza la quale “è impossibile la vita, tutta un’intera vita”, come riporto ad apertura del libro. Ne “Il Ritorno all’isola” racconto questo andare verso e tornare alla bellezza in luoghi e tempi diversi. Non solo l’isola e la natura, ma la città nel suo degrado urbano contiene bellezza, quella della diversità delle razze, della luce improvvisa che illumina un particolare, di un sorriso sulla faccia di un barbone che ti dice grazie, del germoglio su un alberello di hibiscus, innaffiato dai gas di scarico, che malgrado tutto vive. “L’acqua della poesia scorre su cose sporche e /zone d’amore come sui rauchi rumori /di questa piazza/ sulle sue solitudini di razza”, è scritto in una poesia della raccolta.

Potrei parlarvi di altre cose, del tempo che non muore ma che riversa vita vissuta nel presente producendo nuovo linguaggio e nuova poesia -e questo in fondo è il senso dei versi : “Niente s’è spezzato. Nata. E sono ancora dentro quella nostalgia di vita che è una nascita”.
Non c’è frattura fra passato e presente, il tempo non si spezza: quanto è accaduto neppure la morte lo può ammazzare e la bellezza passata ci rimane addosso, il tempo la fa tracimare e la riconsegna al presente .
Potrei parlarvi dell’isola, come grumo di terra dai confini stretti dentro un orizzonte di mare sconfinato -come fosse la parola di un poema, la pagina di un libro…
Ci sono delle prose-poesie a fine raccolta che si sono presentate da sole, memorie che non sono andata a cercare, manifestano quanto c’è d’imprevedibile nella linearità di un racconto, quel fatto o quella storia che pure non essendo miei mi hanno segnato e spostato dalla mia solitudine. Perché non siamo soli al mondo ed è importante e commovente lasciarsi contagiare da altre solitudini e da altre intelligenze. E infatti a questo punto, nel libro c’è uno scarto, un dire in terza persona, la presenza di una voce esterna che è forse la coscienza di Amelia Rosselli, la parte sana del suo cervello malato.>>
di Daniela Attanasio

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Maurizio Cucchi, La maschera ritratto

“La maschera ritratto” pubblicato da Mondadori, Milano 2011, (euro 18) dopo “Il male è nelle cose” Mondadori, Milano 2005, è il secondo romanzo di Maurizio Cucchi, appena uscito nelle librerie.

La trama
Il tepore di un vagone semivuoto in una limpida giornata d’inverno, il conforto di una gita domenicale nei luoghi dell’infanzia e poi un incontro inatteso, un tuffo al cuore… può capitare così, in una giornata qualsiasi, quando “si è ormai cresciuti e non si ha più paura del mondo”, di scoprire che l’immagine che abbiamo di noi stessi, messa insieme negli anni tassello dopo tassello, si basa su un errore. Il protagonista di questo nuovo romanzo di Maurizio Cucchi si trova d’improvviso a dover fare (o rifare) i conti con due figure fondamentali, il padre e il nonno, entrambi prematuramente scomparsi in circostanze misteriose. Un pellegrinaggio che da una Milano affogata nella nebbia lo porta prima al confine con la Svizzera, nella località dove il padre ha trascorso le sue ultime ore, e poi in Sicilia, a Catania, città d’origine del nonno. Un pellegrinaggio che gravita intorno al personaggio di Tina, una donna meravigliosa e piena di forza, di allegria, di mistero, al tempo stesso musa e guida nella ricerca che a sua volta la impegna del marito e del padre, svaniti lasciandosi dietro ferite di ambiguità e assenza. Percorsi convergenti e osmotici che accomunano il protagonista e Tina nel periglioso attraversamento di una mitologia personale e familiare, portandoli a una progressiva, sofferta, nuova concezione di sé.

Qui sotto il video dell’intervista di Luigia Sorrentino a Maurizio Cucchi su La maschera ritratto che inizia con la lettura di un brano dal libro fatta dall’autore (durata: 8 minuti)

[flv]http://www.rainews24.rai.it/ran24/clips/2011/02/cucchi_27022011.flv[/flv]

Cronache di poesia del Novecento

In occasione della presentazione a Roma, a cura di Gaffi Editore, del libro di Maurizio Cucchi Cronache di poesia del Novecento, (presso il Centro Culturale Bibli, mercoledi 16 febbraio alle 18.30) vi proponiamo la prefazione di Valeria Poggi che ha curato l’edizione del libro.

Maurizio Cucchi scrive su quotidiani e riviste da circa quarant’anni. Mettere mano a un materiale vasto e complesso che include articoli, recensioni, saggi che toccano la poesia italiana e la poesia straniera, la narrativa italiana e la narrativa straniera, ma anche articoli che coinvolgono il rapporto tra società reale e cultura, e, per concludere, testi che affrontano la pittura e la scultura, la musica e la canzonetta non era certo impresa da poco. Ma la priorità di una scelta, quella della poesia, era inevitabile. Maurizio Cucchi è poeta, ma è anche, per professione promotore di poesia attraverso il suo lavoro di consulente editoriale, di direttore di collane, di presidente e membro di giuria di premi letterari. L’idea di raccogliere in un libro gli scritti della sua militanza di critico di poesia Maurizio Cucchi l’ha maturata nel tempo anche in ragione di un progressivo “distrarsi” delle pagine culturali dei quotidiani che, costantemente , diminuivano l’attenzione per la poesia a vantaggio di una narrativa sempre più di consumo e/o di surrogati della poesia.
Si trattava a questo punto di selezionare e di organizzare il materiale. Ecco allora la scelta di dare al libro una impostazione di cronaca, di testimonianza reale del percorso della poesia italiana a partire dagli anni Settanta. Maurizio Cucchi si è laureato nel 1971 con una tesi dal titolo  ‘La poetica di Risi e Zanzotto in prospettiva post-ermetica’: si trattò di un evento, allora, per una facoltà universitaria, assegnare una tesi di Laurea su due autori viventi appena cinquantenni (infatti il correlatore, noto italianista, pur elogiando il lavoro, confessò di non avere elementi per giudicarlo perché non conosceva i due poeti in questione). Da qui traggono spunto i testi che vanno a costituire il primo capitolo del volume: i Saggi. Da Risi e Zanzotto il percorso è poi articolato dando spazio a quegli autori che negli anni Sessanta, in alternativa al Gruppo’63, lavoravano ad una ricerca poetica che rinnovasse il verso e la forma e che al tempo stesso coinvolgesse il lettore per contenuti che gli potevano appartenere: basti ad esempio ricordare Giovanni Giudici e la sua Vita in versi. Continua a leggere

Patrizia Valduga, Poeti innamorati. Da Guittone a Raboni

«Fuoco di paglia è amore di poeta, / perciò è vorace, ed è così fugace». Questo dice Attila József.
«L’amore dei poeti è come l’amore degli adolescenti, che vogliono essere quello che non sono, che vogliono che gli altri siano quello che non sono, che vogliono dare l’amore a chi non lo vuole, che perdono l’amore appena lo possiedono, che se ne stancano appena lo conquistano, che pensano di poter davvero possedere una persona, davvero conoscerla interamente e definitivamente»: così scrive Patrizia Valduga, una delle poetesse più note per i suoi versi d’amore, introducendo un’originale antologia
Poeti innamorati, Da Guittone a Raboni da lei stessa curata per Interlinea Editore, euro 10.

“Questa piccola scelta antologica sui poeti innamorati, (da Guittone d’Arezzo fino a Giovanni Raboni), potrebbe essere testimonianza, in qualche modo, della storia del sentimento amoroso, oltre che, naturalmente, di quella della nostra lingua, e del gusto di oggi nei confronti della lingua poetica. Fino al Quattrocento nessuno avrà quasi niente da ridire, ma subito dopo ci sarà chi lamenterà l’assenza di quello e la presenza di questo. Perché, ad esempio, non ho messo Buonarroti? Perché, a mio parere, si è scambiata per grandezza poetica la rudezza di un geniale dilettante. Perché non ho messo Penna? Perché la sua voce mi sembra assai flebile. Perché non ho messo Gozzano? Perché, tolte le polverose carabattole della nonna, quello che resta è già tutto in Pascoli. E così via. Perché ho messo poeti che da anni dichiaro di non amare? Perché sono grandi intellettuali che hanno lasciato un segno, da vivi o da morti, nella storia della nostra letteratura.”
(Patrizia Valduga)
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Margaret Atwood, il diluvio della poesia

Margaret Eleanor Atwood, nata nel 1939 in Canada a Ottawa, è poetessa e scrittrice.
La sua è una voce a cui dobbiamo prestare ascolto.”
             a cura di Luigia Sorrentino 

“In Canada non esiste un volk unitario ed è difficile individuare i tratti di una identità nazionale… Cosicchè l’unico elemento unificante sembra essere la terra, il paesaggio, e la sua capacità di sovrapporsi prepotentemente alla storia e al gesto degli uomini. Di fronte alla terra, di fronte a un referente ancora forte, l’uomo riacquista la lentezza di un suo senso paradigmatico, perenne. Nella poesia “Insanie progressive di un pioniere” Atwood sembra illustrare le vicende di un ulisside antico che avverte nell’impatto con la terra la propria finitezza. ‘Si fermò, un punto/ su un foglio di carta verde/ proclamandosi il centro,/ senza muri né confini/ ovunque, il cielo smisurato/ sopra di lui, non / circoscritto,/ e gridò./ Fatemi uscire!'”
                                                                    di Fernando Bandini

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“Margaret Atwood conosce la paura, sa delle cose che strisciando ti avviluppano il cuore come un sudario di muffa sul pane. Sa di come hai giocato all’assassinio nell’oscurità, e di come, dopo un bicchiere o due di vino, una volta impiccasti qualcuno per i suoi occhi azzurri.
Conosce la storia di tua madre violata da un cigno (la cameriera nella foto di famiglia ha un fumetto invisibile sopra la testa. Sgualdrina.) Sa di quando calpestasti con forza la pietra nella landa e, vedendo la gamba affondare fino al ginocchio, esclamasti: “Un momento. Questa mi appartiene” e solo una ragazza senza mani si protese per consolarti. Lei sa cosa vuol dire fare questi giochi con te…
Ma viene l’ora in cui la vita si piega in due su se stessa. Il diniego temuto che balza fuori e ti accrechia nella Casa dei Divertimenti all’improvviso sembra poco più che terrore sui trampoli. Avviene qualcosa che, con un tonfo sordo, ti arresta il cuore. Il tempo in cui hai iniziato sta per finire. Tuo padre non è più un uomo anziano, è un uomo che muore.
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“Caino”, Il buio era me stesso

In occasione del debutto romano di “Caino” di Mariangela Gualtieri per la regia di Cesare Ronconi, vi proponiamo il trailer dello spettacolo che debutta domani 10 febbraio alle 20.30 al Teatro Palladium di Roma.

“La vicenda di Caino parla di noi, profondamente, con spietatezza.
È possibile avvicinarsi a Caino senza paura? Pensare che è talmente d’amore la sostanza siderale di cui siamo fatti, che se non siamo amati diveniamo deformi?
Abbiamo riflettuto su questa pagina per lungo tempo. Alla fine ci pare di avere compreso: questa pagina di Antico Testamento non vuole farsi comprendere. Dice che i conti non tornano, quando si è a ridosso di colui che gli ebrei chiamano il Santo Benedetto.
Dopo il fratricidio, Caino costruisce la prima città. Ci somiglia nella sua furia fattiva, lui e i suoi discendenti costruttori. E in fondo la storia umana, quella che studiamo, è una lunga lista di atti violenti e di nomi che quegli atti hanno compiuti o subiti, una lunga lista di un fare che ha causato innumerevoli morti, devastazioni, fondazioni e distruzioni e nuove fondazioni. Tutta la storia pare il prosieguo della storia di Caino. Continua a leggere

Filippo Strumia, “Pozzanghere”

Anticipazione Editoriale: Pozzanghere di Filippo Strumia, (Einaudi, Torino, aprile 2011)
Ho conosciuto Filippo Strumia a “Ritratti di poesia” nella bella cornice del Tempio di Adriano, a Roma, ed è stato un bell’incontro. Mi è apparso immediatamente schietto, diretto, e ha subito stabilito con me – nella conversazione che facevamo e con il pubblico che ci seguiva – una buona relazione. Abbiamo parlato del suo rapporto con la poesia. Un rapporto tenuto per lunghi anni segreto, e vissuto in modo solitario. Fino a poco tempo fa, infatti, l’unica attività che svolgeva Filippo Strumia era quella di medico, di psichiatra e di psicoanalista.

Perché hai tenuto nascosto per così lungo tempo il tuo rapporto con la poesia?

“Siamo tanti personaggi, stati d’animo, visioni del mondo, spesso inconciliabili e reciprocamente scandalosi. Siamo individui e moltitudini. “In ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente” diceva Pessoa. La psicoanalisi mi ha aiutato a dare voce, dignità, possibilità espressiva ai diversi aspetti di me stesso. Comprese le corde mute, quelle che non hanno mai risuonato e attendono l’occasione per esprimersi. Il lavoro mi ha permesso di diventare una specie di politeista. Rumi, il poeta persiano, nell’introduzione alla sua opera racconta di una canna strappata. Il vento, soffiando nella canna, suscita una vibrazione che vola in cerca di un cuore. Ha bisogno, cioè, di una cassa armonica che la tramuti in musica, emozione: la nostalgia del canneto. La poesia, credo, agisce fra l’indicibile e il suono. Siamo zeppi di vibrazioni mute, pensieri non pensati, sentimenti non percepiti che attendono e premono, misconosciuti. Abbiamo gli occhi stipati di usignoli, che premono, sbattono contro le pareti, quasi a farle esplodere. La psicoanalisi e la poesia aiutano a percepire le nostre corde, anche le più recondite. Ma questo laboratorio emotivo, o forse alchemico, richiede anche la privatezza e il silenzio.”

Spesso accade che le persone scrivano poesie ma non lo dicono, le tengono nascoste, quasi a sancire un’indicibilità, qualcosa che non può essere rivelato agli altri. Come ti spieghi questo fenomeno, tu che sei anche psicanalista… Perché la poesia viene vissuta come un segreto?

“Il laboratorio dell’anima, il crogiolo, richiede privatezza, deve essere protetto. Ma non questa è l’unica ragione. Credo che sia molto difficile per gli esseri umani dare valore a ciò che proviene davvero da sé, che non derivi, cioè, da segnali condivisi di branco. La soggettività, essere se stessi, è l’ultima conquista dell’evoluzione di noi ex scimmie. Ogni volta che diciamo Io, diamo un morso alla mela d’Adamo, attingiamo all’albero della conoscenza. E’ un atto scandaloso, colpevole e magnifico. Continua a leggere

Valentino Zeichen, “Poesie giovanili” 1958-1967

DIARIO FAMILIARE
di Valentino Zeichen

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stato parcheggiato a Kantride (Fiume), in una colonia marina che protraeva la chiusura oltre l’estate, per albergare orfani autunnali. Mia madre era tisica, ormai all’ultimo stadio, e così l’avevano ricoverata in un sanatorio vicino a Laurana, sulla costa. Dopo mesi di sparizione senza che avessi sue notizie, mi avevano confidato la verità. Una vigilatrice mi aveva preavvisato: mia madre sarebbe venuta a trovarmi, compatibilmente con le sue condizioni di salute. L’incertezza sulla data angosciava le mie aspettative giornaliere. L’edificio della colonia doveva risalire agli anni Trenta; ricordo una costruzione a due piani con tanti oblò; un lungo porticato di colonne cilindriche, e la facciata esposta a ponente, verso il mare. Dopo giorni pieni di aspettative e vuoti di notizie, le mie cieche congetture sul futuro, svanirono.
Per qualche motivo che mi sfuggiva, la visita tanto attesa, era stata anticipata, quasi affrettata per l’indomani, domenica. L’orario previsto per i visitatori era dalle due del pomeriggio alle cinque. Era da cinque mesi che cercavo di rivederla. Il mare antistante pareva gonfio d’ira come un’idra; le onde avanzavano ingigantite dalla bora, mi avrebbero travolto, e sarei annegato prima di rivedere mia madre? Era un mare dalle tinte livide, infuriato, inadatto per una cartolina illustrata del Quarnaro, anche se era solo Carnarius: divoratore di carne.
Mi trovavo a un lato del porticato, distante da altri visitatori, sorvegliato da una vigilatrice che doveva consegnarmi a mia madre. Quando mi intravide da lontano, accelerò il passo; mi sorrise appena scoprendo i suoi magnifici denti. La guardavo; volevo muovermi, ma ero come paralizzato da un’ignota paura. La lunga separazione da lei mi aveva disaffezionato dalla consuetudine di correrle incontro e saltarle al collo. Era rimasta alta e slanciata come la ricordavo. Venne verso di me e mi accolse tra le sue braccia, al rallentatore, come se avesse esaurito le sue forze, alquanto a disagio, dovuto alla mia rigidità. Mentre mordicchiavo un dolcetto, lei parlava con la mia guardiana, informandosi dello stato della mia salute; ero stato a lungo malato e non ho mai saputo il genere di malattia.
Per tutta la durata della visita ci dicemmo poco o niente: solo consueti diversivi: “Guarda, c’è una nave al largo”. Mi sentivo assalito da cupi presentimenti, e tra questi quello più ovvio che mi suggeriva il suo pallore cadaverico; in me moriva la speranza di rivederla. Fra noi altalenava uno struggente disagio; ogni nuova parola pronunciata poteva essere l’inizio di una nuova frase che precedeva il commiato. Alternavo lo sguardo tra il viso di mia madre e le ombre sghembe del colonnato, che si allungavano e impallidivano fino alla sparizione del sole. Indisponente, oppresso da tanti presagi, non facevo che informarmi su quanto tempo mancava ancora alla fine della visita, come se volessi troncarla e mandare via mia madre prima del sibilo della sirena che poneva termine alla visita. Sullo sfondo sbiadiva un raggelante rosseggiante, adombrato dagli altri pini marittimi. Le cose intorno si decoloravano perdendo luminosità. Continua a leggere

“Caino”, di Mariangela Gualtieri

Sarà in scena al teatro Palladium di Roma il 10, 11, 12 febbraio 2011 (alle ore 20.30) e il 13 febbraio (alle ore 17.00) “Caino. Il buio era me stesso” di Mariangela Gualtieri, per la regia di Cesare Ronconi.
Il libro, con il testo scritto, è appena uscito (gennaio 2011) nella Collezione di Teatro Einaudi (10 euro).
E, proprio in realazione al testo, la Gualtieri precisa: “Mi sono tenuta a una certa distanza dalla pagina biblica, lontana da qualunque tentativo esegetico, attratta piuttosto dal silenzio che regna intorno alla figura di Caino e dalla potenza di questa icona: si staglia solissimo in un deserto abbagliante, a muso duro, con un fratricidio che pesa sulle spalle, la maledizione della terra, la lontananza dal volto della divinità. E poi eccolo dare inizio, con la costruzione della prima città, alle nere arti della tecnologia rese nere più che altro dallo smarrimento dell’etica che non ha seguito l’immenso sviluppo tecnico. […]
L’enigma del male, il mysterium iniquitatis, è un fondale che non possiamo non indagare, anche se non siamo capaci dell’immensa apnea che richiede. Questo è il mio primo tentativo, ancora impregnato dell’ombra che ho cercato di attraversare, colpita dalla reticenza di questo tema ad avere una parola definitiva. Non la si potrà mai pronunciare, per fortuna. Nessuno la possiede per intero: chi ha creduto di possederla ha troppo spesso seminato dolore. Io ho potuto solo balbettare.” 

Nella tradizione biblica Caino è stato il primo a nascere da una donna, il primo a uccidere, il primo a essere marchiato a vista, il primo dannato per l’eternità, il primo a fondare una città: ultima creazione della Compagnia del Teatro Valdoca, “Caino” esplora una delle figure simbolo della cultura occidentale. La produzione sulla quale la Compagnia è impegnata da tempo, è diretta da Cesare Ronconi e scritta da Mariangela Gualtieri. Il testo inquadra come “Caino in modo quasi profetico somigli proprio a noi, uomini e donne di questo tempo. Come lui siamo andati lontanissimo dalla terra feconda, dal volto di Dio, e ora anche l’idea di avere ‘un prossimo’ si va sempre più scolorendo”.

Cesare Ronconi, tra i fondatori di Valdoca, propone una lettura registica che sovrappone diversi piani di racconto, moltiplicando i punti di vista di una storia narrata anche nel Corano e che è stata ripresa dagli scrittori di ogni tempo.

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Francesco Napoli, “Poesia presente”

Francesco Napoli ci presenta una nuova antologia della poesia contemporanea, dal titolo “Poesia Presente” Raffaelli Editore 2011 (euro 18,00) . Un libro che oltre a percorrere e analizzare gli ultimi decenni della poesia italiana contemporanea dal 1975 al 2010, indaga, preliminarmente, alcune domande: “A quando far risalire l’inizio del Novecento? A quando una sua eventuale fine? […]” Come spiega Francesco Napoli, “il ‘vuoto letterario’, di cui parla nella rivista Nuovi Orizzonti Pasolini (1971), aprì gli anni Settanta, segnati da una Koiné letteraria e linguistica: la ripresa dell’allegoria, l’allargamento ad altre aree, soprattutto a quella anglofona, e la rottura con la Neoavanguardia. […] L’ingresso degli anni Ottanta ha mosso invece i temi del neo-volgare, ‘dell’interdialettalità della lingua’, e della necessità di assorbire la prosa nella poesia […] Lo sguardo va poi agli anni Novanta, visti come un periodo poetante nell’Essere, rivolto al mondo e al trascendente, fino a toccare le soglie del nostro tempo dove i poeti appaiono un’espressione fertile e in costante evoluzione: una presenza attiva.”

Gli autori di “Poesia Presente” sono: per gli anni Settanta Umberto Piersanti (1941), Giuseppe Conte (1945), Maurizio Cucchi (1945), Patrizia Cavalli (1947), Cesare Viviani (1947), Milo De Angelis (1951), Mario Sant’Agostini (1951), Roberto Mussapi (1952), Giancarlo Pontiggia (1952), Gianni D’Elia (1953), Valerio Magrelli (1957). Per gli anni Ottanta Eugenio De Signoribus (1947), Loretto Rafanelli (1948), Rosita Copioli (1948), Roberto Carifi (1948), Umberto Fiori (1949), Tiziano Broggiato (1953), Giovanna Sicari (1954-2003), Giancarlo Cavallo (1955), Alessandro Ceni (1957). Per gli anni Novanta Mario Benedetti (1955), Franco Marcoaldi (1955), Antonella Anedda (1958), Gianfranco Lauretano (1962), Antonio Riccardi (1962), Massimo Morasso (1964), Davide Rondoni (1964).

Francesco Napoli poi fa riferamento ai poeti che sono “Alle soglie” del nuovo secolo, il Duemila e scrive: […] “Si può dire che la situazione non è ‘definitivamente terminale’ nè di ‘momentanea sospensione’  per adottare una formula di Stefano Giovanardi. Piuttosto appare come una fertile espressione, in costante evoluzione, una presenza attiva. Cosa potrà restare di questi ultimi, […] certo non è dato sapere, ma che resterà qualcosa è sicuro. Non penso che svanirà nel nulla: il dover cantare la vita nella sua totalità di Gabriel Del Sarto (1972); la fresca e incisiva dicitura di Mario Fresa (1973); la riuscita e equilibrata inclinazione al poema storico-epico di Alessandro Rivali (1977); la ‘lingua attenta, stupita (…) come un prodigio’ di Alberto Pellegatta (1978); o slanci e rifiuti, grida e richiami di Vladimiro Cislaghi (1970); la riuscita distensione poematica di Gabriela Fantato (1960); il già fermo e ben costrutto poetare di Luigia Sorrentino; la ricerca dell’equilibrio possibile tra ‘i pensieri di dio’ e ‘quelli degli uomini’ di Anna Buoninsegni; la riflessione in versi sulla relazione tra l’io e il ‘tu-Padre’ di Adele Desideri; l’energia dei versi di Francesca Serragnoli (1972).”

Francesco Napoli (1959), è critico letterario, consulente editoriale e giornalista, ha pubblicato numerosi saggi sulla poesia italiana contemporanea in riviste specializzate quali “Prospettive Settanta”, “Otto e Novecento”, “ClanDestino”, “Atelier” e “Poesia” e in volume ha curato per Leonardo Editore “Milano racconta”, “Napoli racconta” (1993) e “Milano visione” (1997). Per Alfredo Guida Editore il volume “Viaggio nel mezzogiorno” di Giuseppe Ungaretti (1995). Per Jaca Book l’antologia “Poesie di Alfonso Gatto” (1998). Ha pubblicato, sempre per Jaca Book, il volume di conversazioni critiche sui poeti contemporanei “Novecento prossimo venturo” (2005).

www.raffaellieditore.com

Maurizio Cucchi, “Cronache di poesia del Novecento”

“Cronache di poesia del Novecento” a cura di Valeria Poggi, è l’ultima pubblicazione del poeta Maurizio Cucchi (Gaffi Editore, euro 18,00).
Si tratta di un libro che raccoglie per la prima volta in un unico volume, saggi, introduzioni, “ritratti” e recensioni scritte da uno dei più noti poeti italiani del Novecento. Un lavoro iniziato dal giovanissimo Maurizio Cucchi negli anni Settanta fino ad arrivare ai giorni nostri. Nel corso di quasi quarant’anni Cucchi ha studiato e scritto di poesia forse più di ogni altro autore della sua generazione – e di questo gli siamo grati – pubblicando saggi in riviste letterarie, accademiche o militanti, introducendo opere di autori di generazioni e tendenze diverse. Molte le sue recensioni uscite su vari quotidiani e settimanali: La Stampa, Belfagor, L’Unità, Panorama, QN, Linus, Il Giornale, Paragone, (solo per citarne alcune).

In “Cronache di poesia del Novecento” viene raccolta per la prima volta un’ampia scelta dei suoi interventi che coinvolgono i protagonisti italiani del Novecento: Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, ma anche grandi figure del secolo, come Saba, Ungaretti, Rebora.
Spiccano, dal resoconto di Cucchi anche figure di primissimo piano del secondo Novecento, come quella di Zanzotto, Raboni e Risi, per proseguire con la scoperta di poeti giovani come Umberto Fiori, Giuseppe Piccoli, Antonio Riccardi e la rilettura di autori celebri come Umberto Bellintani, Giancarlo Majorino, senza dimenticare gli “identikit” di Milo De Angelis, Valentino Zeichen e Giovanni Giudici.

Presentazione a Milano
La prima presentazione di “Cronache di poesia del Novecento” sarà a Milano, giovedì 10 febbraio 2011, ore 21:00 alla Casa della Poesia – Palazzina Liberty, Largo marinai d’Italia 1. La serata è a cura di Giancarlo Majorino.
Intervengono: Maurizio Cucchi, Giancarlo Majorino, Amos Mattio, Valeria Poggi e Antonio Riccardi.

www.lacasadellapoesia.com

In memoria di te, Luciana Notari

“La pietà e la paura” , Passigli Editore, raccoglie Tutte le poesie di Luciana Notari, poeta che, come scrive Elio Pecora nella prefazione al libro “ha creduto alla poesia e s’è largamente adoperata perché in molti ne godessero. Ha curato antologie poetiche, laboratori nelle scuole, letture pubbliche alle quali ha chiamato i maggiori autori dei nostri anni. Inoltre, ha presieduto un’associazione culturale assai attiva, (l’associazione culturale “Guterberg” di Terni, di cui è stata fondatrice e presidente), ha partecipato con passione a difese dell’ambiente, si è battuta per quelle libertà che ignorano divisioni e diseguaglianze. E’ stata una donna bella, di una bellezza luminosa. E chi le era amico ha potuto ammirarne la forza e il coraggio quando una terribile malattia l’ha straziata e, nel 2006, l’ha portata alla morte. […]”

Il volume, è curato da Roberto Deidier, poeta e critico, che così scrive nell’introduzione all’opera della Notari: “Come una lenta, inesausta riappropriazione, una faticosa riconquista, sui territori della pagina, di quanto la vita ci sottrae, con la temibile complicità del tempo, la poesia di Luciana Notari s’impone a se stessa, alla stregua di un vasto repertorio di esperienze che inevitabilmente coinvolgono il lettore in un rapporto di empatia, di passione condivisa. Sola virtù per Jacopo Ortis, la compassione si eleva sulle altre virtù “usuraie”, sprigiona la stimmung, circoscrive lo spazio comune del riconoscimento di una stessa finitudine; infine diviene sorgente di un linguaggio attraverso cui è ancora possibile addomesticare il dolore, limitare il senso della perdita, per farci comprendere che in ogni processo di spoliazione avviene una scoperta, anch’essa irreversibile sul piano del vissuto, ma sempre riscattabile attraverso la parola della poesia. […]”

è il corpo il padrone
malato ed irato,
che tira le reti di pesci
morenti, che scuce
i fili tenaci
con l’anima forte
che sola ora piange

Da: La pietà e la paura Tutte le poesie di Luciana Notari, Passigli Poesia – Collana fondata da Mario Luzi –  (euro 30)

Nel libro sono presenti:
Animanimalis Forum Quinta Generazione Forlì, 1991
La vita è nella vita Edizioni del Leone di Venezia, 1994 (Premio “Alpi Apuane” 1995)
Aiuole di città (Premio Nazionale “Tracce” Pescara, 1996)
Il destino della foglia Edizioni Crocetti Milano, 2003
Poesie per San Valentino (Inedito)

Davide Rondoni, ‘Avere addosso Baudelaire’

“Ancora lui, come uno che si mette in mezzo alla strada con le braccia spalancate. O che per quanto resti di lato, appoggiato al muro, ha uno sguardo metallico e di fuoco, che ti inchioda passando.
Ancora Baudelaire da leggere e rileggere, cioè tradurre. E soprattutto da avere addosso come un lupo, come ali di farfalla grandiosa e tremenda che si chiudono o che si aprono sul petto.
Da avere addosso come la peste o come un ‘bacio’ sogg. di ‘cosa vuole’. Un nemico che bacia e morde forsennato. E svela il tuo volto, lettore ‘fratello’, in questa lotta. Il tuo, più che il suo volto che resta velato nel prodigio di malinconia e di furia dei versi di questo libro dall’architettura profonda e incompiuta.
Molti versi portano via, rapimenti improvvisi ancora dopo centocinquantanni. E sono come il mare che ci viene a riprendere. E anche se non ci ricordavamo di lui, del mare, ecco che ci parla urlando e sussurrando in un uomo che girava con gesti un poco rigidi e che parevano misurati, ma erano cauti perchè vestiva abiti troppo logori, che potevano sdrucirsi.”

Con queste parole Davide Rondoni introduce un’opera letteraria di rara bellezza, che ha rivoluzionato la letteratura poetica mondiale: I fiori del male (euro 18,00) di Charles Baudelaire da lui interamente tradotta per la Salerno Editrice. Questa edizione (con  testo originale a fronte) presenta un libro minuscolo, quello che in gergo si definisce ‘un tascabile’, da portare sempre con sè, come una piccola Bibbia o un Corano. Difficile misurarsi con un grande come Baudelaire, ma la nuova traduzione che ne fa Rondoni (che aveva già tradotto Baudelaire nel 1995 per la casa editrice Guaraldi) è al tempo stesso, inedita ed esemplare. Un coraggiosissimo gesto d’amore

“Persino Giorgio Caproni” scrive Rondoni nella nota al libro “ch’ebbe la pazienza di leggermi tra i primi e la ventura di incoraggiarmi a scrivere poesie, di fronte al verso di Baudelaire indietreggiò. Lui che sapeva bene cosa sia la traduzione e quali rischi comporti, si riparò in parte dietro una versione in prosa, esponendosi ad una traduzione in versi solo per alcune parti, come mostra la bella recente di quel suo lavoro travagliato (Venezia, Marsilio, 2008). ”

L’opera. Un viaggio immaginario, tragico e commovente, nell’animo umano, tra slanci amorosi e cadute nella noia e nell’angoscia. Baudelaire trova infine nell’arte – in questi versi intensi e appassionati – la bellezza che, sola, salva dal degrado del mondo.
 

Davide Rondoni ha fondato e dirige il «Centro di poesia contemporanea» dell’Università di Bologna, è poeta e traduttore, direttore della rivista di poesia «clanDestino», editorialista dell’«Avvenire» e «Il Tempo». Tra le recenti pubblicazioni: Ballo lentamente con le tue ombre (Pescara 2009); Vorticosa dipinta (Torino 2006). Ha inoltre curato, insieme a Franco Loi, l’antologia di poesia italiana Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000 (Milano 2001).

 

 

www.salernoeditrice.it

Arianna Gasbarro, ‘Alice in gabbia’

Arianna Gasbarro, pubblica il suo romanzo d’esordio, ‘Alice in gabbia’  Miraggi Edizioni (euro 12,00). La vita di Alice è apparentemente perfetta: 28 anni, un lavoro a tempo indeterminato e un fidanzato che ama, ricambiata. Non le resta che cercare casa e fare dei figli, guadagnandosi il paradiso terrestre di una vita normale. Eppure di perfetto non c’è nulla. Il surreale sarcasmo di Alice fa scoprire al lettore situazioni che suo malgrado conosce fin troppo bene, nascoste dietro la maschera della normalità di un’ordinaria giornata in ufficio. Il badge che scandisce malignamente il tempo. La routine del ritmo aziendale che diventa ossessione. Le manie degli impiegati, a un passo dalla psicosi. La sindrome antisociale dell’open-space. Le figure clownesche dei capufficio, tronfi della loro incompetenza. I giorni che invece di allargarsi in un presente vivo si spengono con monotonia uno sull’altro. Le pause – caffè, sigaretta – sono le uniche boccate di sollievo. Finché Alice non scopre la pausa-papera! Osservando da dietro la recinzione dell’azienda i pennuti che vivono liberi nel loro stagno, ad Alice si rivela una nuova filosofia di vita, una possibilità di salvezza, di liberazione…

                                                                                                       Intervista di Luigia Sorrentino
                                                                                                       Roma, 22 gennaio 2011

Arianna, quanti anni hai?
“Ho appena compiuto trent’anni”.
Mi sembra di averti conosciuto ieri, e invece era l’anno 1996 se non sbaglio… Allora eri una liceale. Amavi moltissimo i classici greci e latini. Sorprendente per l’età che avevi. E poi, non a caso, un giorno, mi è arrivato il tuo primo libro, “Alice in gabbia” …
Come nasce questo lavoro?
Alice in Gabbia è nato circa un anno fa, in un momento molto particolare della mia vita: avevo appena deciso di lasciare il lavoro per dedicarmi finalmente alla scrittura. Mi ero resa conto che le due cose non potevano coesistere e ho deciso di provarci, semplicemente perché non potevo farne a meno, perché per me era troppo importante.
In realtà in quel momento stavo lavorando a un’altra storia, ma i pensieri di Alice premevano per uscire fuori, per dar voce a un aspetto della nostra società contemporanea che avevo avuto modo di vivere in prima persona nel corso degli ultimi anni. Sapevo che prima o poi quelle considerazioni e quella rabbia per un mondo del lavoro che per troppi aspetti a me non piaceva avrebbero iniziato a svanire, allora ho messo da parte l’altro progetto e in pochi mesi è nato questo libro.
Quando hai capito che da grande volevi diventare una scrittrice?
“Credo di averlo sempre saputo, sin da quando a sedici anni leggevo fino a notte fonda i classici latini, ma anche Calvino e Oscar Wilde. Però ho trovato il coraggio e la forza di farlo solo alla vigilia dei trent’anni, quando in un certo senso mi sono detta: o ora o mai più.”
Come vivi oggi? Lavori o ti dedichi 24 ore al giorno alla scrittura?
Da un anno a questa parte mi dedico interamente alla scrittura, sia come scrittrice che come traduttrice. Sono due attività che convivono bene insieme, tradurre romanzi dall’inglese all’italiano è una palestra linguistica che mi appassiona, anche se richiede molto tempo ed energia.”
Quanto c’è di te in Alice?
“Devo ammettere che il personaggio di Alice ha delle solide basi autobiografiche e che se non avessi vissuto in prima persona l’esperienza di un lavoro full-time a tempo indeterminato non avrei mai potuto spiegare le dinamiche psicologiche che si creano in quella sorta di gabbia di cristallo. L’esilarante ossessione per il badge, l’ansia per una quotidianità sempre uguale giorno dopo giorno per quarant’anni, il bisogno di evasione in un mondo immaginario popolato di demonietti, clown sanguinanti e papere che filosofeggiano.
La storia che racconti è molto interessante. In un’epoca in cui si parla molto dei problemi dei giovani legati all’occupazione, al lavoro che non c’è, arrivi tu e capovolgi il punto di vista: parli infatti di quelli che il lavoro ce l’hanno ma che non ce la fanno a tenerselo…
“Credo che la disoccupazione consenta di chiudere gli occhi su un altro grave problema legato al mondo del lavoro, di cui però nessuno parla.
Alice non riesce a tenersi il lavoro perché, a parte lo stipendio a fine mese, non ha nessun altro stimolo. Avrebbe una gran voglia di crescere, di continuare la propria formazione all’interno dell’azienda, ma per il suo capo lei non è altro che un moderno Charlot, inchiodato alla scrivania e pronto a svolgere le proprie mansioni, categoricamente di routine.
Ciò spalanca le porte all’enorme disagio di non trovare un senso per la propria quotidianità, ma anche all’inquietante consapevolezza che un contratto a tempo indeterminato con un’azienda privata è una sicurezza illusoria. L’azienda potrebbe fallire e Alice si ritroverebbe sul mercato del lavoro senza un’adeguata formazione, senza aggiornamenti, senza la possibilità di riciclarsi con dignità.
Il capovolgimento dunque è solo apparente. Il messaggio politico è che ai giovani bisognerebbe garantire un Paese che non sia precario, un Paese competitivo e desideroso di crescere, un mercato del lavoro fluido e vitale, non l’illusione di un contratto che in fin dei conti non garantisce affatto un futuro sicuro.”
Quand’è che il ritmo aziendale per coloro che lavorano a tempo indeterminato può diventare un’ossessione?
“È una questione molto personale, alcuni accettano quel ritmo di buon grado, mentre ad altri invece va stretto e difficilmente potranno liberarsi di un senso d’oppressione e ribellione latente.
Credo che uno dei fattori scatenanti sia l’utilizzo improprio del badge da parte dell’azienda, quando per un minuto di ritardo al lavoratore ne vengono addebitati dodici di punizione. Questa cosa genera un’ansia che cresce di giorno in giorno e va a sommarsi alla routine delle pause-sigaretta, pause-pranzo, pause-caffè che ogni giorno si ripetono con un ritmo sempre identico, fino a far pulsare la quotidianità di un battito che se per alcuni può essere in qualche maniera rassicurante, per altri sembra un tango strangolante che si protrarrà fino alla pensione.
È come immaginarsi di tornare a scuola, ogni giorno con la campanella alla stessa ora, l’ora di religione il sabato, i compiti il pomeriggio e l’interrogazione il giorno dopo. Per tutta la vita. Mai un diploma, una conclusione: la vita che scorre via in un ritmo estraneo dettato dall’alto.”
Attraverso il sarcasmo la tua protagonista svela profonde verità che mostrano l’altra faccia della medaglia, di cui mai nessuno parla, “il lavoro schiavo”, il lavoro che non rende liberi, bensì schiavi e che colpisce determinate fasce di lavoratori…
“Ho vissuto in prima persona questa realtà, quindi, come ti dicevo, certamente il libro parte dalla mia esperienza personale. Però è stato fondamentale vedere il modo in cui i miei colleghi reagivano agli stessi cappi che a me sembravano strangolanti.
La cosa più interessante è stato notare uno squilibrio totale tra la dedizione dei lavoratori, che effettivamente rinunciano alle proprie pause, al tempo per la propria vita privata e i propri figli senza poi di fatto ottenere alcun riconoscimento, e dall’altra parte l’atteggiamento strafottente di una classe dirigente che non solo spesso è incompetente, ma che pure pretende dai lavoratori sacrifici che i manager invece non hanno alcuna intenzione di fare.
Sembra un servilismo servo/padrone, sovrano/suddito. Un esempio lampante è quando un’azienda non concede ai dipendenti un giorno di chiusura in occasione di un ponte, ma poi tutti i manager se ne vanno in vacanza. È assurdo e alla lunga, secondo me, pericolosissimo.”
A un certo punto Alice però scopre la pausa-papera…che le cambia la vita… perché proprio la papera?
“La papera rappresenta la totale armonia con la propria natura. È uno di quegli animali che capita di osservare nei parchi e sui quali non ci si sofferma molto, se non per domandarsi che senso abbia la loro esistenza. La papera vive, galleggia, nuota, mangia il pane, si gode la propria semplice esistenza di papera.
L’uomo non riesce a vivere in quel modo, è a disagio con la propria natura primordiale quindi infarcisce la propria quotidianità di problemi e occupazioni totalmente superficiali, per poi lamentare di non avere il tempo per godersi la vita.
Ma proprio osservando le papere, Alice si rende conto a un certo punto che la sua quotidianità è totalmente priva di senso rispetto a quella di una sciocca papera galleggiante.”
In realtà il messaggio che viene fuori dal tuo romanzo è chiaro e inequivocabile. E’ un’esortazione rivolta a tutti gli esseri umani: “riprendetevi la vostra vita! Godetevi la vita, bene unico ed irripetibile”…
Va bene… ma come si vive senza lavoro?
“Il punto non è lasciare il lavoro e vivere senza, ma ritrovare un senso in quello che si fa. Alice non è un elogio dell’ozio, ma anzi quanto di più lontano ci possa essere dal concetto attuale di bamboccioni e simili. Il messaggio è quello di fermarsi un attimo, osservare i binari sui quali viaggiano le nostre vite, rendersi conto che spesso non sono stati costruiti da noi ma imposti dall’alto e a quel punto cercare un senso alla nostra quotidianità, che per noi, solo e unicamente per noi, abbia valore.
Poi si può tornare sui binari, purché si abbia una consapevolezza concreta e tangibile di ciò che si sta facendo.
Riprendersi la propria vita vuol dire anche solo lottare perché l’azienda non chiuda ogni anno ad agosto e i dipendenti possano scegliere di andare in vacanza dove e quando vogliono. Almeno quello, almeno la libertà di poter disporre del proprio tempo libero.”
Cosa pensi degli scrittori contemporanei? Li leggi, o non ti interessano?
“Generalmente preferisco leggere i classici, ammesso che titoli di trent’anni fa possano considerarsi tali. Leggo poco i contemporanei, in genere quelli consigliati da amici che hanno la mia stessa sensibilità letteraria.
Adoro andare in libreria a comprare i libri, non compro quasi mai su internet, però c’è così tanto chiasso negli scaffali di contemporanea che solitamente poi mi oriento su testi completamente diversi, ad esempio di cinema.”
I tuoi ‘mostri sacri’… i tuoi scrittori preferiti, chi sono ?
“Wilde, Calvino, Nabokov, Svevo, Henry Miller, Kureishi, Kundera. E senza dubbio Woody Allen, che considero un vero e proprio autore e del quale condivido lo sguardo sarcastico e catastrofista sul senso dell’esistenza dell’uomo.”
In quanto scrittrice, quali sono gli obiettivi che ti prefiggi?
“Per il momento solo continuare a scrivere, mettere su carta le visioni surreali che si affollano nella mia mente e dare voce al momento storico che stiamo vivendo, perché in futuro possano comprenderci (e perdonarci).”
A chi dedichi il tuo “Alice in gabbia”? Chi dovrebbe assolutamente leggerlo?
“Vorrei che lo leggessero i ragazzi all’ultimo anno di scuola perché potrebbe dargli il coraggio di puntare sui loro sogni, anche se si sentiranno dire che ‘è impossibile’.
Vorrei che lo leggessero i manager, dell’industria e dello stato, per ritrovare la dignità della propria posizione e guardare con occhi diversi, più attenti e preoccupati, gli individui demotivati alle loro dipendenze.
Io l’ho scritto per i miei genitori, perché potessero comprendere e accettare la scelta che ho fatto un anno fa e che, senza il supporto della filosofia della papera, non poteva sembrare che folle.”

Bioblibliografia
Arianna Gasbarro è nata a Roma nel 1980. Appassionata da sempre di letteratura, ha tentato di condurre un’esistenza normale, ma dopo tre anni di clausura in un ufficio ha deciso di stracciare il suo contratto a tempo indeterminato per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Attualmente vive tra le colline del Chianti, dove persevera nella sua attività di scribacchina sommersa da libri e dizionari.
Alice in gabbia è il suo primo romanzo (nonché la dimostrazione che tutto è possibile).

www.miraggiedizioni.it

Francesco Dalessandro, ‘L’osservatorio’

Lettera di Gabriella Sica a Francesco Dalessandro su  L’Osservatorio, di Francesco Dalessandro, Moretti  & Vitali (2011).

Caro Francesco,

sei sempre stato una figura discreta del paesaggio romano poetico, più appartato di altri appartati, o comunque tale sei apparso a me nel corso di anni e ormai decenni. Hai fatto parte di una rivista romana, “Arsenale”, coeva a “Prato pagano”, ma senza che ci siano stati scambi o reciproci sconfinamenti, chissà perché: semplicemente un altro spicchio di quella Roma dei primi anni Ottanta così ricca e feconda. Su questa rivista, convergevano Gianfranco Palmery e la rimpianta Giovanna Sicari e devono essere stati anche per te anni memorabili. E gli amici di “Prato pagano” sono stati anche i tuoi e pure tua è stata la rinnovata fiducia nella poesia. Ma sei sempre stato una figura appartata.

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Michael Kruger, Il coro del mondo

Protagonista della scena culturale tedesca e austriaca e attento lettore di letterature straniere, fra cui l’italiana e l’israeliana, Michael Krüger è un nome di primo piano nella lirica tedesca, insignito dei più prestigiosi premi nazionali. In italiano è già apparso come poeta, saggista e narratore. Il coro del mondo (Mondadori 2010 (euro 15), tratto dall’antologia tedesca “Archine des Zweifels” (2001), dalle raccolte “Kurz vor dem Gewitter” (2003), “Unter freiem Himmel” (2007) e dalla recente “Ins Reine” (2010), è un itinerario in una poesia vicina e comprensibile, estranea alla mistica della parola ma con la grande liederistica romantica alle spalle. Kriiger è un malinconico, un “amico della morte” che tende l’orecchio al “cantico dell’inanità” ma fa parlare il visibile – la natura viva, acque, boschi e animali ora tangibili ora alieni -, gli uomini in perenne ricerca di giustificazioni e anche un suo io che dice cose che non si aspettava di dire. Inatteso per noi anche il suo ironico ma cordiale “undicesimo comandamento”: “non morire, / ti prego”. E la storia? Per l’ironico, per l’irridente non conta granché, e meno ancora conta la grandezza: “Una mucca pascola davanti alla casa / l’ultima di una fila di mucche. / Una loro antenata, bianco-marrone,/ fu presentata a Napoleone, / poco prima che incontrasse Goethe a Weimar”.

Questa raccolta, curata da una poetessa e traduttrice come Anna Maria Carpi, comprende versi pubblicati in Germania tra il 2000 e il 2010: essa presenta perciò al pubblico italiano nel modo finora più ampio e articolato la poesia di un autore che si caratterizza per l’asciutta esattezza intellettuale della sua pronuncia e per l’efficacia della sua meditazione in versi, capace di coinvolgere i temi più diversi con ironia e tensione al tempo stesso.

Come vanno le cose

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
L’errore si scoprire il mondo lo rimpiangiamo da un pezzo.
Ogni colpo di vanga, ogni osso ritrovato, ogni speranza dissepolta:
la loro inefficacia è dimostrata da un pezzo. Le rovine
si edificano su progetto, anche questa una vecchia soluzione per dopo.
Sulle macerie artificiali abitano famiglie, accanite
a distribuire foto a colori: istantanee senza garanzia.
Si parlava di una piccola lista di obiezioni,
ridicolaggini, non mette conto di parlarne: non mette conto
comunque d’interrompere gli altri.

Tutto è tranquillo. Non è successo niente.
Le piccole ferite sanguinano come al solito, i ritardi
non hanno motivo. In altre parole, in altro modo,
detto altrimenti: il caso ne esce di nuovo vittorioso,
la ragione è battuta: nemmeno questo
le si vede addosso. Il suo profilo si è fatto più morbido
da quando parla solo di se stessa, i suoi occhi sono
più accademici, ogni sua uscita è facilmente scusabile.
E’ uno spasso diabolico starla a guardare: le soavi
drammatizzazioni della sua indifferenza.

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
I sentimenti si sono fatti meno vistosi, era da aspettarselo, l’odio,
si è mutato in invidia. Non vi eccitate,
niente storie, niente malinconie: il finanziamento dell’apatia
è assicurato. L’export si sta riprendendo. La vita
è ora capace di miglioramento, finalmente
gli sforzi sono valsi la pena. Al museo, indifese,
le timide ambizioni dei passati:
a ognuno si fa chiaro come il sole su cosa si è infranta la storia.

Non è successo niente. E’ tutto tranquillo.
L’alfabeto è di nuovo in uso, le tabelline,
il dialogo ha congiuntura. I vecchi cappelli,
le vecchie profezie, i vecchi fenomeni: tutto
sembra nuovo. Ognuno da ieri ha la chiara sensazione
di esserci. Ognuno si presenta bene. Ognuno guarda ognuno
con interesse. Le conversazioni balbettanti
sono ammutolite, tutto scorre, fluisce, gli intimi
deragliamenti non ci sono più. L’oscuro è stato eliminato:
aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza.

da Il coro del mondo, Mondadori 2010

Michael Krüger, sassone, è nato a Wittgendorf nel 1943 ed è cresciuto a Berlino. Attualmente risiede a Monaco, dove dirige la casa editrice Hanser e la rivista “Akzente”.
Poeta e romanziere, in Italia ha pubblicato le raccolte Di notte tra gli alberi (2003) e Poco Prima del temporale (2005). Fra le traduzioni italiane delle sue opere ricordiamo Perchè Pechino (1987), Il ritorno di Himmelfarb (1995), La fine del romanzo (2000), La violoncellista (2002) e La commedia torinese (2007).

Giorgio Vigolo, il tempo del ritorno

 

Con il suo libro “L’eremita di Roma” Vita e opere di Giorgio Vigolo (Fermenti Edizioni 2010, euro 16) Magda Vigilante si concentra sulla scrittura creativa di Giorgio Vigolo che la porta a disegnare il tracciato del poeta e del prosatore per consegnare al lettore un ritratto assolutamente inedito dello scrittore. La Vigilante, forte della conoscenza delle carte vigoliane, traccia una prima e documentata ricostruzione della biografia dell’autore che è – soprattutto – biografia intellettuale, che colloca Vigolo sullo sfondo dell’ambiente culturale romano del primo e del secondo dopoguerra, seguendone il tartto a partire dall’infanzia fino alla piena maturità.

 

“Spesso mi capita di chiedermi perché Giorgio Vigolo tardi ad avere il seggio eminente che gli spetta nel Parnaso letterario del nostro Novecento. Avrà certo inciso, in vita, il suo carattere esigente, una consapevolezza del proprio valore che dai tanti critici militanti e dirigenti editoriali distratti o superficiali (tanti ieri, ancor più oggi) poteva scambiarsi per alterigia. Ma certo, a quasi trent’anni dalla sua morte, la causa va ricercata altrove. Innanzitutto, nella vastità della sua cultura e nella poliedricità della sua scrittura, in tempi in cui la cultura profonda è merce rara e di poliedricità si pavoneggiano giornalisti e tuttologi. Quale faccia del prisma vigoliano non basta da sé a diffondere una luce cristallina? La sua poesia, così visionaria e solitaria, così controcorrente, moderna insieme e classicamente restìa al facile avanguardismo? La sua mirabile traduzione del potente Holderlin? La sua prosa d’arte e i suoi racconti, stesi in punta di penna, ma una penna intinta di un inchiostro nero e lucente che non si trova nei minuziosi calamai di certi rondeschi? La musicale prosa del critico musicale? La sua acribìa filologica e interpretativa, nel saggio e nel commento all’opera di Giuseppe Gioacchino Belli, penetrato negli abissi della psiche come nei risvolti dello stile?” […]

dalla Prefazione, di Pietro Gibellini

Il ritorno di sera

Un silenzio m’invita
di perduti sentieri
a un alto prato ove fra i monti sola
mi sorprende la sera: e come chiudo
in me lo sguardo a contemplar intento
vedo nel buio cuor sorgere un’alba
e illuminarsi un ignorato mondo:
dentro di me nascondo un altro cielo.
E par che il sole che nei boschi cade
e brune lascia le contrade e i monti,
in me stesso rinasca ad albeggiare…
e non tramonti
Anima senza tempo in te mi perdo.
Dal profondo m’attiri
come incantato specchio
ove per quanto io miri
non vedo l’ombra del mio viso umano;
ma nei tuoi gorghi affiora
un paesaggio arcano
che di sé le cangianti acque colora.
Così veduto ho un’altra volta ancora
le foreste sul mare
piegar nell’ombra le ispirate fronti,
mentre i ghiacciai sui nuvolosi monti
ardean sospesi come organi d’oro
nell’alba d’antichissimi orizzonti.
Di memoria in memoria alle perdute
vite del cielo tornare mi sembra,
e su laghi di larghi argentei fiori,
quanto più si rimembra
l’anima di que’ suoi lontani albori.
E sento ormai che del corporeo mondo
ogni apparenza trema e si dilegua;
questa è la soglia estrema
ove il pensiero degli umani è spento;
qui d’un alto spavento io provo il gelo
e, se tornare anelo,
non so la via che riconduce in terra.
Dal nodo delle membra si disserra
lo schiavo, sciolto; e si ritrova in cielo.
Ma più grata, al riaprir gli occhi, la cara
terra che amiamo e le borgate e il fiume
che il moribondo lume
della sera d’autunno in se trattiene
e con purpuree vene
l’ultima luce per le valli sparge.
Caro viso di donna anche ritrovo
sulle fidate soglie
della casa serena;
e quasi gli occhi inumidisce il pianto
se sull’amata bocca e sulle chiome
bacio l’antica pena
e il ritrovato incanto
della vita serena.

“Sono rari gli autori italiani del Novecento che si siano interessati a svariate attività culturali come Giorgio Vigolo, il quale unì alle sue qualità di poeta e narratore anche una profonda conoscenza musicale – messa a profitto nelle cronache musicali scritte per giornalie e riviste – una notevole perizia filologica che gli permise di curare per primo, nel Novecento, l’edizione critica dei Sonetti del Belli e doti di fine traduttore che utilizzò nella traduzione di vari autori stranieri, tra cui il poeta tedesco Holderlin. Egli svolse nella sua vita un’attività instancabile, provando però sempre il rincrescimento di non vedere mai pienamente apprezzate dai contemporanei le opere prodotte in tanti anni di assiduo esercizio letterario al quale si era affiancata anche la critica musicale a partire dal secondo dopoguerra.
Non è facile, quindi, ricostruire il complesso itinerario vigoliano non solo per l’estesa produzione artistica che attraversa quasi l’intero secolo ma soprattutto per la grande varietà degli argomenti affrontati dall’autore. Per tale motivo si è deciso d’esplorare solamente l’attività creativa, compiendone un’analisi critica raffrontata anche alle vicende esistenziali di Vigolo. A tale proposito un contributo fondamentale è offerto dalla consultazione dell’esteso Archivio dell’autore conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma – L’Archivio, notevole per la sua completezza, fu acquistato nel 1989 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali dall’erede M. Berardinelli ed è stato ordinato e catalogato dalla scrivente – dove sono documentati, oltre alla genesi delle singole opere, anche gli episodi, gli incontri e le amicizie che costellarono la lunga vita di Vigolo.
L’autore, infatti, ha disseminato numerose tracce per consentire ai futuri studiosi la ricostruzione dell’intera vicenda umana e artistica. D’altra parte, nella produzione narrativa e poetica è ricorrente il tema della memoria che assume un significato quasi sacro. Egli infatti non solo ricollegava ad antiche esperienze numerosi testi poetici e narrativi, ma aveva anche conservato in modo quasi ossessivo remote testimonianze della sua infanzia, dei suoi genitori e delle loro famiglie e dell’ambiente culturale e sociale dove era cresciuto nella sua città natale, Roma, dalla quale si allontanava solo per brevi viaggi.
Per comprendere pienamente la sua arte è necessario compiere con lui il viaggio a ritroso nella sua vita fino ai più antichi ricordi che maggiormente hanno contribuito a definire la sua personalità e la sua ‘topografia poetica’.”
Magda Vigilante

Le midolla del male

Nell’ambito delle iniziative culturali promosse dalla Fondazione Toti Scialoja, costituita il 19 maggio 2000 per volontà testamentaria di Gabriella Drudi e in ottemperanza dei desideri di Toti Scialoja (Roma, 1914 – 1998) sono stati istituiti un Premio per la poesia e un Premio biennale per i linguaggi artistici.

Per la prima edizione del Premio per la poesia il Consiglio di Amministrazione della Fondazione, su indicazione di Paolo Mauri, ha deciso di assegnare il premio al poeta Emilio Zucchi per il suo poemetto Le midolla del male edito da Passigli.

Giuseppe Conte, nella prefazione al volume scrive: “Emilio Zucchi non ha paura di raccontare. Di piegare una ispirazione potentemente lirica alla disciplina della narrazione. Della sintassi. Della ragione. È un momento di poesia compiuto e solenne. Di tensione etica severa e dolcissima. Di cui sono grato a Emilio Zucchi, che si conferma qui poeta di grande tempra stilistica e spirituale”.

Il premio verrà consegnato giovedì 16 dicembre alle ore 18,00 all’Accademia di San Luca a Roma (Piazza dell’Accademia di San Luca, 77). Nel corso della manifestazione, dopo una lettura dei propri versi da parte del poeta vincitore del premio, verrà ricordata l’opera poetica di Toti Scialoja.

Emilio Zucchi è nato nel 1963 a Parma, dove vive. Ha pubblicato le raccolte poetiche Il pane (Campanotto, 1994, recensito da Giovanni Giudici su l’ “l’Unità”), Il pioppo genuflesso (prefazione di Mario Luzi, Diabasis, 2001), Tra le cose che aspettano (prefazione di Maurizio Cucchi, Passigli, 2007; finalista nello stesso anno ai Premi Viaraggio-Répaci e Cetonaverde Poesia) e, nell’ottobre del 2010 edito da Passigli, il poemetto storico Le midolla del male, ambientato nel 1945-’44 a Firenze, Roma, Parma, Milano e incentrato sulle figure del torturatore fascista Pietro Koch e di Anna Maria Enriques, partigiana cattolica toscana seviziata e uccisa dagli aguzzini in camicia nera.

XXXIII
Anna Maria, Anna Maria Enriques:
questo è il mio nome, Pietro Koch, ricordalo.
Ero già morta quando tu salivi
verso Milano per aprire un’altra
Villa Trieste, peggiore della prima,
perchè è sempre peggiore il male fatto
per la seconda volta. Quando vidi
i tuoi occhi, quel giorno, nelle camere
delle torture, dove fuoriuscivano
dal mio corpo le linfe della vita,
dove per giorni e giorni fui tenuta
in piedi con le scosse
elettriche, tenuta sveglia, e il sonno
mi tormentava; quando
vidi i tuoi occhi, io vidi, come specchi
moltiplicati a mille nel riflettersi,
tutto l’inganno del possesso, tutto
l’errore che comprime il mondo, tutto
il mentecatto tempo delle cose
chiuse dentro le cose sotto un sole
smunto di sete. Arno, padre di carmi,
infuse in me silenzi lunghi e assorti,
quando i libri mi accolsero ragazza,
e mi furono amici, mi ascoltarono;
poi, molti anni più tardi,
una goccia brunita del suo scorrere
si mescolò a una goccia del mio sangue,
portata dal Mugnone suo affluente,
presso il quale la vita mi fu tolta.
Tu, Pietro Kock, non sai quanta bellezza
c’è in un fiore di campo, in un cortile
con le lenzuola stese, nel diario
di una ragazza timida, nel vento
sopra l’erba ingiallita… Tu non sai
l’immensità di un treno in lontananza
e di una latta arrugginita accanto
a due bimbi che giocano; non sai,
non sai, non sai… Io ero morta da un anno,
la sorte di Tamara Cerri, andasti
a consegnarti in questura: la cella
per te e il processo e la condanna a morte,
in cambio della sua liberazione.
Ora prego per te, perchè quel gesto
in te sia stato amore,
e non superba, vanagloria. Infame
e ripugnante ti ricordo; eppure,
io spero che alla tua interiore tenebra,
smisurata di male,
d’amore una scintilla sia sfuggita
eternamente. Pietro,
io spero quel bagliore, propagandosi
fino alla foce attonita del tempo,
lampo d’eternità, lampo, divenga,
nullificando il tuo inferno. Io ti aspetto.

da Le midolla del male di Emilio Zucchi, Passigli Edizioni
www.fondazionetotiscialoja.it

Paola F. Febbraro, ‘Al giusto verso’

“Quando Brunella Antomarini mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul rapporto tra la poesia e i sensi, le ho risposto proponendole di fare degli incontri che avrei registrato e poi trascritto.
Quello che Brunella Antomarini mi diceva a riguardo mi interessava e mi stimolava molto. Anch’io, come lei, volevo saperne di più. Per questo alla fine, dopo aver tentennato per un anno intero attorno a diverse soluzioni su come utilizzare il materiale, ‘illuminata’ da un ultimatum tipografico, ho deciso di trascrivere integralmente (o quasi) questi ‘dialoghi’, avvenuti in tre incontri: dal dicembre del 1999 al febbraio del 2000. Ho lavorato al testo per rendere scorrevole ‘la lingua parlata’ togliendo o aggiungendo, ma sempre rimanendo fedele al modo in cui i dialoghi si erano sviluppati, i ‘contenuti’ dei nostri dialoghi. Ho voluto lasciare anche quelle che ho titolato come ‘Appendici a registratore spento’ dove, ritrovata una certa forma di intimità, mi sono lasciata andare a sintesi più ‘libere da orecchie indiscrete’. Le Appendici sono state possibili grazie agli appunti presi da Brunella Antomarini. Nota: nel terzo e ultimo incontro mi fu offerta una Tequila. Incautamente. Forse.”
Paola F. Febbraro

Dicembre, primo incontro
Brunella Antomarini
La teoria dello Ione di Platone dice che i poeti sono anelli di una catena. Ognuno si attacca al precedente e si trasmettono le poesie, uno con l’altro fino ad arrivare allo ‘spettatore’.
Una poetessa americana, Susan Stewart, ne dà un’interpretazione più psicoanalitica. In un suo saggio riporta la ricerca di uno psicoanalista che racconta come certi pazienti, per esempio, facciano delle azioni del tutto inutili e si chiede come mai; sono come compulsioni che si scoprono legate a quelle che un antenato compiva con un motivo preciso; c’è n’è uno che vuole fare il geologo e vuole spaccare le pietre, però sente che in quest’azione c’è qualcosa che lo riguarda profondamente e scopre che suo padre o suo nonno spaccava le pietre, nel senso che era stato mandato ai lavori forzati e poi morto nei campi di concentramento; per cui questo spaccare le pietre era connettersi all’azione di qualcun altro. L’azione di qualcun altro penetra dentro di lui e lei dice che allo stesso modo nella voce del poeta c’è quella del poeta precedente, come dice Platone. La voce è come un magnete. Ecco perchè questa voce del poeta prende – lei usa un’espressione bellissima – ‘una traiettoria difficile’. La traiettoria difficile consisterebbe nel ritmo, nel verso o anche in questa voce, che, come dici tu, non è mai una voce qualsiasi, ed è una voce che viene dal corpo, è somatica. Tu ascolti il poeta e poi questa voce viene dentro di te e tu la ripeti a qualcun altro e un altro e così via; questa voce che deve essere solenne, ritmica perchè fa parte di altre regole che non sono solo quelle della semplice comunicazione, una voce che deve essere assimilata dal corpo e non dall’apparato simbolico. C’è allora una specie di domanda: perchè noi dovremmo avere bisogno di questa voce? Perchè gli esseri umani si sono costruiti questo grande abito di parlarsi per queste voci, come se non ci bastasse un solo tipo di comunicazione, quella ordinaria.

Paola F. Febbraro Per bisogno di conoscersi. Tutti.  Ma adesso qualsiasi risposta mi sembra insufficiente, in altre parole più complicata del necessario. Potrei dirti che il linguaggio poetico è il linguaggio capace di far compartecipare emozione e memoria. Ed è attraverso l’emozione che il ricordo può diventare nutrimento e strumento per qualsiasi presente.

Brunella Antomarini Ma tu usi dei versi, non parli così… tu hai bisogno del verso giusto per dare un inizio e una fine al flusso di parole. Questa ritmicità allora è solo uno strumento? E’ strumentale solo al fatto che io l’assimilo meglio?

Paola F. Febbraro Il ritmo, la lunghezza del verso deve tentare di riprodurre la mia energia, il mio fiato, direi quasi il tempo di ricezione dell’emozione. Stendo la misura del mio respiro. Ho un pensiero limpido e poi ho bisogno di fermare il senso… perchè c’è anche il senso. Le parole hanno un significato e il significato più avanti si va più ‘pesa’, perchè una parola se ne porta appresso tanti, è carica di significati di altri ‘sistemi’: politici, storici, giuridici, anche letterari e quindi quella parola potrebbe significare qualcosa di diverso da quello che io vorrei liberare. Vorrei che la parola portasse soltanto quello che nomina oppure soltanto se stessa. Quella parola allora potrà anche sorprendermi.

Brunella Antomarini Deve essere sorprendente la parola del poeta?

Paola F. Febbraro La parola nella poesia non deve essere sorprendente, casomai deve essere capace di suscitare ‘meraviglia’ che vuol dire vedere il mondo e se stessi da un punto di vista ‘diverso’, mai esplorato prima. Quando scrivi una poesia quello che scrivi è come se fosse lì per la ‘prima volta’. […]

Appendice a registratore spentoLa parola sia come suono che come segno era parola magica.

 

Il linguaggio è potente, capace di violenza. Una parola di guerra è di per sè violenta. La pubblicità della lotta al cancro, per esempio, è scritta in un tono così violento… Cioè dice che c’è una guerra contro il cancro ed è questa guerra che fa venire il cancro. L’anima interiorizza le parole, per questo la lingua poetica non è solo questione di tecnica e di tradizione. Il poeta ha anche una responsabilità, perchè una poesia è un organismo, è un ‘oggetto particolare’ riproduce un percorso di esplorazione e conoscenza. Con una certa parola io continuo da una parte e non da un’altra. Se decido di non usare il tu e di scegliere l’io è perchè in quel punto è un tu così generico, direi così neutro, che confonde. La poesia è sciamanica, capace di ‘guarire’. Perchè una poesia guida a un’esperienza d’entrata e di uscita che tu stesso hai fatto, tu fai entrare al primo verso e fai uscire all’ultimo. E’ testimonianza di un’esperienza che può essere rivissuta. Per questo il poeta ha la responsabilità di non confondere se stesso e il lettore. La poesia manda al giusto verso il sentire. Il verso è il giusto verso, se confonde manda al verso sbagliato il sentire. Qui il verso sta ad indicare anche una direzione, un orientamento. Il ritmo, la versificazione, la tradizione, evitano che si vada in una direzione qualunque.

Gennaio, secondo incontro

Brunella Antomarini C’è una differenza tra scrittura e oralità? Noi ormai apprendiamo attraverso la poesia scritta e la riproduciamo per iscritto. Mi sembra che le due cose possano anche essere due cose diverse, o no? Se non sono diverse dobbiamo ridurle a qualche cosa che hanno in comune? Oppure l’una è soltanto quella che viene dopo l’altra, la scrittura viene dopo l’oralità? Comunque noi ci riferiamo anche solo inconsciamente alla sonorità, anche se usiamo la scrittura, oppure c’è una sinestesia per cui noi usiamo tanto l’una quanto l’altra, tanto l’orecchio quanto l’occhio?

Paola F. Febbraro La parola scritta fa sempre riferimento al Canto ma ne è privata proprio perché è scritta. Oggi dopo Rilke, che è stato l’ultimo che ha toccato il Canto, scrivere poesia è aver perduto il Canto. Il Canto è la cosa perduta della poesia, perché se tu scrivi non canti. Questo estremizzando e l’estremizzazione serve in quanto spinta etica alla ricerca, alla chiarezza, all’essere sempre presenti al proprio lavoro. Bisogna essere più tranquillamente chiari: la perdita del canto non è una cosa che distrugge la poesia ma è una cosa che io quando scrivo debbo sapere. […]

Appendice a registratore spento

Essere poeta vuol dire essere visibile e invisibile insieme: il poeta, essendo esso stesso strumento della propria arte, si porta appresso se stesso dovunque vada. Croce e delizia.

Bisogna avere così cura del proprio essere strumento che l’autodichiarazione pubblica di essere poeta provoca l’identificazione con qualche cosa che non gli appartiene. Il lavoro è più interiore. Mi sento poeta perché mi sento in amicizia con altri poeti prima di me. E questa amicizia reclama una forte ‘intimità’, una forma di segretezza.

I campi semantici della parola. Per esempio ‘serena disperazione’. Io ho riconosciuto la mia genealogia poetica, seguendo questa parola in quel campo ed escludendone altri. Con ogni parola puoi fare un percorso oppure un altro. Per esempio ape. Ape, così presente nelle poesie di Emily Dickinson. Quando scrivo ‘ape’ evolvo quel ronzio e non un altro. Ape ora per me è diventata intelligenza femminile così piena di passione anche fisica, anzi, di desiderio. Così come me l’ha trasmessa Emily Dickinson, e poi anche Amelia Rosselli. La uso come ponte per viaggiare, come vero e proprio strumento di ricerca. Se l’ape attraversa certi significati, attraversa certi ponti, mi porterà in altri campi. Mi prendo la responsabilità di usare ape in modo da continuare l’esperienza di quel poeta. Per fare questo devo prima di tutto essere capace di riconoscenza verso Emily Dickinson. E in un certo senso essere riconoscenti significa anche andare avanti, non ripetere lei. La riconoscenza passa anche attraverso una certa commozione. Mi commuove chi per la prima volta porta una parola in un altro campo o la dà così: nuda e cruda. Mi spinge a curare me stessa come strumento della poesia. Mi commuovo perché so quanto è costato scrivere in quel modo. Nella commozione apprendo. Cerco di avere cura di questa mia commozione, non me ne lascio annebbiare ma ne assimilo l’insegnamento che è: sii libera di continuare a lavorare.

Un ringraziamento particolare a Brunella Antomarini, Franca Rovigatti e Maria Teresa Carbone per aver ‘portato in luce’ nel corso degli incontri di PoEtiche 2010 questo discorso sulla poesia di Paola F. Febbraro, pubblicato da Il Cannocchiale, N.1, gennaio/aprile 2002 qui riportato solo in un piccolo frammento.
Luigia Sorrentino

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Valentino Zeichen, Aforismi d’autunno

Con il suo nuovo libro “Aforismi d’autunno” (Fazi Editore, 2010) Valentino Zeichen sperimenta un genere nuovo, interamente formato da sostanza e pensiero, e da lui stesso definito “intelligente”. Un libro composto pensando ai cambi di colore della natura in autunno, come metafora di una condizione esistenziale. Zeichen unisce alla profondità di un Karl Kraus l’eleganza di un Oscar Wilde nonché la raffinata leggerezza di Ennio Flaiano. Sono infatti questi i principali modelli di riferimento per la raccolta nonché maestri nell’arte di scrivere aforismi, forma per eccellenza di “intelligenza organizzata”. 

Zeichen ragionando unicamente di ciò in cui crede e di ciò che pensa, arriva a un concentrato di parole che appaiono rimescolate in base a una chimica sofisticata che coinvolge prima di tutto la lingua: icastica, spesso oscura, talvolta più limpida, che ogni volta si esprime lasciando fuori i sentimenti. Il risultato è una sorta di ‘autoritratto intellettuale’ in cui è esplicitato il punto di vista dell’autore su temi quali il tempo come inganno, la letteratura come ispirazione, l’inevitabile passaggio delle stagioni. Tante le citazioni presenti fra le pagine e tanta l’autoironia per un’opera caratterizzata da uno stile improntato alla concisione e all’arguzia. Con questo libro, Valentino Zeichen dà prova di grande eclettismo: accanto a testi brevi, composti in un periodo precedente, ci sono testi più lunghi, altri persino narrativi per un piccolo compendio di poetica saggezza.



Valentino Zeichen
è nato a Fiume ma vive a Roma. Dal 1974, anno della prima raccolta di poesie, ha pubblicato diversi libri fra cui Ricreazione (1979), Tana per tutti (1983), Museo interiore (1987), Gibilterra (1991), Metafisica tascabile (1997) e Neomarziale (2006). Un’antologia di tutte le poesie è apparsa negli Oscar Mondadori. Per la Fazi, nel 2000, ha pubblicato Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, raccolta completa di DVD.

da “Aforismi d’autunno” di Valentino Zeichen

20
Sono vissuto nei secoli
di due differenti millenni
eppure sono morto.

21
Gli anni sono come docili
cavalli al pascolo
la cui indolenza ci rassicura,
quando partono all’improvviso
al galoppo numerico.

22
Il tempo è un soggetto senza “oggetto”,
perciò la gioventù non lo considera
essendogli, al momento, creditrice.

www.fazieditore.it

Paolo Ruffilli, ‘un’altra vita’

Paolo Ruffilli in ‘un’altra vita’ (Fazi, 2010) euro 18,50, sfida la vita e torna a raccontarci la forza delle storie che vorremmo vivere, o che non vorremmo vivere mai.  Storie che non arretrano di fronte a nulla, storie che entrano in altre storie… in brevi frammenti, come avviene nella sua poesia.

Quelli raccontati da Ruffilli sono “amori dentro altri amori”, in una sorprendente costruzione a incastri in cui la rivelazione che sovverte a un tratto il mondo in cui avevamo pensato di entrare ne racchiude, ne prepara a sua volta un’altra, a sua volta inattesa, forse definitiva.

c’è sempre l’attesa e la rivelazione nei venti racconti, che per ognuno si ispira, a un autore prediletto, citato in chiusura. 

Vi proponiamo il primo capitolo del racconto ‘La passione delle idee’ ispirato a Elsa Morante.

I
“Il sole declinava e sopra i prati si andavano allungando le onde della sera. Due file di abeti stretti l’uno all’altro si alzavano come muraglie a formare il viale. Scavalcata la siepe, vi entrarono planando sugli aghi che ricoprivano la terra del fitto strato cedevole al premere dei passi.
“Il giorno che fugge via è un amico che sta partendo, è proprio vero”, mormorava.
Intorno era tranquillo e scuro. Soltanto sulle cime più alte degli abeti tremolava di luce fusa d’oro. Aleggiava, intorno, l’odore di conifere che i passi mescolavano al sapore del muschio e delle felci.
Dove il viale terminava, si dividevano due strade bianche. La più torta e larga fiancheggiava le vecchie piante del frutteto, passando accanto alla casa in pietra con la terrazza e il mezzanino in legno.
Oltre il cortile padronale si vedeva il lago. E, sulla riva opposta, il piccolo villaggio con il suo aguzzo campanile sul quale fiammeggiava una croce accesa dal riverbero del sole del sole che stava tramondando.
“E disperdendosi nei cieli, fuggita via, cacciandosi nell’ombra moriva la giornata”, guardandola, cantava una canzone che gli evocava la visione.
Dietro la casa sotto il tiglio stava il cumulo del fieno, l’ultimo taglio di stagione, già biondo e pieno di gonfiori. L’aroma che se ne andava sprigionando fondeva insieme l’amaro e il dolce di fiori ed erbe lasciati lì per giorni a fermentare.”

da: ‘un’altra vita’, di Paolo Ruffilli (Fazi, 2010)

Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato alcune raccolte di poesie, tra le quali Piccola colazione (1987), che ha ottenuto l’American Poetry Prize, Diario di Normandia (1990), Camera oscura (1992), Camera oscura (1992), Nuvole (1995), La gioia e il lutto (2001), Le stanze del cielo (2008) e i racconti di Preparativi per la partenza (2003).

Michael Cunningham, ‘Al limite della notte’

E’ in libreria dal 20 ottobre l’ultimo romanzo di Michael Cunningham ‘Al limite della notte’ (traduzione di Andrea Silvestri, Collana Narratori Stranieri, Pagine 280, Prezzo € 17,50).

Il romanzo inizia con un sacrificio paradossale: i newyorkesi nel traffico di Broadway si trovano davanti al corpo sanguinante di un cavallo investito da una macchina. Quasi un opera d’arte alla Damien Hirst.

‘Al limite della notte’ racconta la storia di due ricchi quarantenni, Peter e Rebecca Harris, nati e cresciuti a New York, al culmine delle loro carriere – gallerista lui, editor lei – con una figlia universitaria a Boston, pieni di amici, ammirati e invidiati da tutti: sembrano felici. Quando però va a stare da loro il fratello di Rebecca, Ethan (detto in famiglia Erry, “l’errore”), qualcosa si muove in questo mondo dorato. Il ragazzo è un bellissimo ventitreenne, con una storia di droga alle spalle, in cerca di una strada. Accanto a lui, Peter inizia a interrogarsi sull’arte, la passione, gli artisti, il lavoro, il successo – il suo mondo, insomma, che tanto faticosamente si è costruito – e, mentre la confusione aumenta, inizia a sentirsi sempre più attratto da lui. Al limite della notte è un romanzo classico, come ha sottolineato in una bella recensione Jeanette Winterson sul New York Times, dove detta legge quella tipica confusione shakespeariana intorno al ‘genere’ , dove ‘un ragazzo che è una ragazza è un ragazzo che è una ragazza’. Così Ethan, che è la bellezza allo stato sorgivo, sembra agli occhi di Peter, Rebecca da giovanissima, che però sembrava già Ethan oggi. Ma Ethan sembra anche una scultura di Rodin, che ci insegna che la bellezza, scrive Cunningham è ‘ in realtà la normale condizione umana, e non la più rara tra le sue mutazioni’. Il premio Pulitzer, autore di Le ore, torna con un romanzo che è un viaggio nei bisogni e nei desideri più profondi dell’uomo: qual è il posto dell’amore e della bellezza nelle nostre vite? Il romanzo esce in contemporanea con gli Stati Uniti.

MICHAEL CUNNINGHAM è cresciuto a Los Angeles e vive a New York. Per Bompiani sono usciti: Le ore (1999), tradotto in ventisette lingue e vincitore del Premio Pulitzer per la Narrativa, del Pen/Faulkner Award e del Premio Grinzane Cavour 2000 per la Sezione Narrativa Straniera, Carne e sangue (2000), per il quale ha ricevuto il Whiting Writer’s Award, Una casa alla fine del mondo (2001), Mr Brother (2002), Dove la terra finisce (2003) e Giorni memorabili (2007). Dal romanzo Le ore è stato tratto il celebre film interpretato da Meryl Streep, Nicole Kidman e Julianne Moore, mentre da Una casa alla fine del mondo è stata realizzata una versione cinematografica diretta da Michael Meyers.

Herta Muller, ‘attraverso la poesia’

Sellerio editore Palermo torna a pubblicare il premio Nobel per la Letteratura del 2009 Herta Muller, 57 anni, emigrata nel 1987 a Berlino dal Banato svevo. Questa volta nel libro ‘In trappola’, (Sellerio editore Palermo, 92 pagg., 9 euro), vengono pubblicati tre scritti di Herta Muller, che possono essere definiti incontri con una poesia intesa come vita, come pane quotidiano, come unico mezzo per sopravvivere. L’autrice riflette infatti su tre poeti e racconta del loro esprimersi in poesia, cercando nella loro esperienza la “immagine dell’essere umano”.

Attraverso la poesia, l’autrice scava stati dell’animo come emergono dalle parole clandestine di tre menti vietate, deportate, dimenticate o suicide. Riflette anche sulla condizione di chi è costretto a dover scegliere sempre tra tre categorie di appartenenza: chi collabora volontariamente, chi puo’ essere chiamato a collaborare e chi rifiuterà di collaborare lasciandosi come unica possibilità la poesia, detta o taciuta, emersa o sepolta per sempre.

La traduzione della nuova opera di Herta Muller è di Federica Venier che firma anche la Prefazione ‘E niente letteratura’, in cui scrive: “Quando tradussi il primo dei tre saggi, Herta Muller era praticamente sconosciuta in Italia. Il caso mi aveva portata a incontrarla: una piovosa domenica invernale del 1996 in Germania” e il
Premio Nobel lesse proprio ‘In der Falle’. La traduttrice ne venne subito colpita. E la stessa Venier a spiegare che nei tre brani in cui si snoda ‘In trappola’ “e’ piu’ evidente che negli altri la durezza di questa guerra.

Vesna Parun, tra lacrime e desiderio

La scrittrice croata Vesna Parun, considerata una delle maggiori poetesse dell’ex Jugoslavia, è morta oggi in una clinica di Stubicke Toplice, nel nord della Croazia, all’eta’ di 88 anni.

Nata nel 1922 a Zlarin, una piccola isola della Dalmazia, vicino a Sibenik, Vesna Parun fu costretta a interrompere l’Università a Zagabria per via della guerra. Nel 1941 si schierò con i partigiani di Tito e abbandonò definitivamente gli studi per la scrittura. I suoi “Tre canti per la Repubblica”, apparsi nel 1945,
resero Parun immediatamente celebre nella neonata Jugoslavia comunista. Alla prima raccolta poetica, “Albe e tempeste” (1947), sono seguiti una trentina di altri testi poetici, opere per bambini ed opere teatrali. Tradotta in molte lingue, nel 1995 Vesna Parun è stata candidata al Premio Nobel per la letteratura.

La decana della poesia serbo-croata è stata tradotta per la prima volta in lingua italiana nel 1998 da Jacqueline Spaccini dell’Università della Sorbona di Parigi, curatrice di “Nè sogno, nè cigno”, pubblicato dalle edizioni Spring. Il libro, che riporta la prefazione dello scrittore Predrag Matvejevic, offre una poesia-documento di violenze e di guerra in un paese amato, ma al tempo stesso da rifuggire, alla ricerca di un luogo più illuminato dal sole. E’ il messaggio storico-politico di una poetessa inquieta che ha prediletto vivere ai margini della civiltà, indecisa tra lacrime e desiderio.

Emanuele Trevi, ‘Il libro della gioia perpetua’

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“Ho coltivato da sempre, sin dall’infanzia due immensi poteri: il potere di mentire e il potere di assentarmi”. Emanuele Trevi

                                  Il Libro della gioia perpetua di Emanuele Trevi (Rizzoli, 2010) euro 19,50
                                                            Premio Napoli 2010    www.premionapoli.it

C’era una volta il favoloso mondo di Lossiniere, un paese dove non suonano i telefoni e si viaggia in carrozza. Napoli, invece, è un inferno vero di traffico e spazzatura. Uno scrittore, appena arrivato da Roma, scopre che l’evento a cui doveva partecipare è stato annullato all’ultimo minuto. Il viaggio, in apparenza inutile, gli fa conoscere una enigmatica maestra e lo porta all’incontro fortuito con un manoscritto ambientato nel paese di Lossiniere, Il libro di Clara e Riki, e con il mistero della sua autrice: una bambina di otto anni. Nel Libro regnano la calma interiore, la concentrazione imperturbabile, la forza d’animo necessaria a essere nient’altro che se stessi. Bambini simili a dèi, Clara e Riki sembrano conoscere il segreto della gioia perpetua. Il sovrano istinto dell’attimo libera infatti la loro esistenza dall’obbligo di significare qualcosa agli occhi del prossimo. Ma qual è il potere di queste pagine capaci di riscuotere il protagonista dal torpore e dalla rassegnazione in cui era sprofondato? E chi è la bambina che le ha scritte, come fosse un oracolo in miniatura, un maestro zen di otto anni? Emanuele Trevi conferma in queste pagine la sua capacità di fondere le seduzioni del racconto con l’indagine appassionata e imprevedibile sulle meraviglie e i terrori dell’infanzia, e sulle radici più profonde dell’arte e della creatività. Un romanzo dal coraggio sfrontato, capace di avvolgerci in una spirale che, complice una prosa perfetta, porta dritti dritti al nucleo del nostro vivere.

Chiara Gamberale, ‘Le luci nelle case degli altri’

La famiglia, come la racconta Chiara Gamberale, 33 anni, nel suo nuovo romanzo ‘Le luci nelle case degli altri’ (Mondadori, 2010) ‘è in fondo il microcosmo in cui viviamo tutti all’oscuro di qualcosa che ci riguarda come accade nella vita, a volte anche con esiti terrificanti. In fondo – dice la scrittrice, ideatrice e conduttrice di programmi radiofonici e televisivi come ‘Gap’ (Raiuno) e ‘Io Chiara e l’Oscuro’ (Radiodue) – non sappiamo mai veramente chi sono proprio le persone che ci stanno più vicino. E anche, sottolinea nel libro, ‘sapere fino in fondo chi sono i nostri genitori non ci serve proprio a niente. Dobbiamo conoscerli, certo. Ma, conoscere una persona non significa sapere proprio tutto di lei.’
Con uno sguardo nuovo la Gamberale parte dai figli, non dai genitori, per mostrare come debbano essere loro a smetterla di far dipendere il proprio destino dai genitori. ‘Altrimenti avremo solo una buona scusa per non combinarci niente, con quel destino. No?’
‘Le luci nelle case degli altri’ è un romanzo corale costruito attorno alla storia di Mandorla che già nel nome ha la particolarità del suo destino. Nata con due mesi d’anticipo, minuscola come una mandorla, a sei anni la ragazzina perde in un incidente stradale in motorino la madre Maria, amministratrice condominiale. Rimane sola con una lettera in cui la mamma rivela che il padre di Mandorla vive in uno dei cinque piani del condominio di via Grotta Perfetta che lei amministrava. “Vorrei che tuo papà fosse un astronauta che cammina sulla luna, ma pensa sempre a noi, e non un uomo come tanti, che abita in via Grotta Perfetta 315 e una sera di marzo, forse per noia forse per curiosità, nell’ex lavatoio del sesto piano ha fatto l’amore con me. Vorrei vorrei vorrei” scrive Maria nella sua commovente e sgrammaticata lettera alla figlia in cui dice anche di essere felice di non saper scrivere bene perchè “più sai usare le parole più ti allontani anzichè avvicinarti a quello che vuoi realmente esprimere”.

Nel condominio prende quota così il giallo psicologico su chi sia il padre di Mandorla che per decisione unanime sarà cresciuta da tutti gli inquilini: ‘Abbiamo deciso di crescere Mandorla insieme. Come fosse la figli di tutti, per dirla come la direbbero i frati trappisti’. Nei suoi passaggi dal primo al quinto piano scoprirà i mondi di ogni famiglia con cui entra in rapporto e allargherà il suo sguardo su tante realtà. Seguendo la crescita di Mandorla da bambina ad adolescente si scopriranno luci e ombre di un condominio dove abitano le nevrosi della solitudine di Tina Polidori, la desolazione di Caterina e Samuele Grò, l’incomunicabilità amorosa tra Lidia e Lorenzo e l’ostinata famiglia tradizionale dei Barilla. Su tutto incombe il test del Dna che Mandorla, non ha il coraggio di dirlo a se stessa, non vuole proprio fare.

Martedi 12 ottobre, alle 18.00, presentazione a Roma di ‘Le luci nelle case degli altri’ di Chiara Gamberale alla libreria Feltrinelli di Via Appia, 427. Sarà presente l’autrice.

(Nelle foto Chiara Gamberale durante un momento della presentazione a Roma)

Elena Salibra, il martirio di ortigia

Elena Salibra con il martirio di ortigia (Manni, 2010, euro 10,00) ci presenta una nuova raccolta di versi che conferma il canone poetico già sperimentato nelle due precedenti, vers.es (Diabasis, 2004) e sulla via di Genoard  (Manni, 2007) tutte pubblicate nell’arco di un decennio.
Il titolo rinvia al seicentesco Martirio di Sant’Erasmo, un quadro di incerta attribuzione che la Salibra nella finzione poetica immagina essere di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Il martirio del santo porta in sé un dolore profondo che sembra accomunare i due artisti su un piano esclusivamente letterario: il tormento e lo strappo del pittore in fuga si tramanda alla poetessa, esule dalla sua Sicilia. Il “martirio” della fuga e dell’esilio diviene però, per l’autrice, anche “consolante”, come capita di leggere in uno dei componimenti della prima sezione del libro dal titolo trittico per il martirio di ortigia in cui la Salibra riesce a vedere un “presente” in cui non si riconosce più: “quelle villette anni sessanta tutte/ abusive condonate per metà/ si preparano alla burrasca d’agosto/ un poco anticipata”.
Anche nella penultima sezione del libro dopo i giorni di tobia – ispirata alla figura materna – la Salibra ricorre ad un elemento visivo richiamando nel titolo, un quadro di Giorgio De Chirico Il sogno di Tobia  e scrive: “Mi rabbonivi mi facevi piccina/ – a sfarinare i colori sulla tela/ – non ero buona – dicevi tanto/ tempo fa (a me la davi l’idea d’un/ al di qua compiuto).
Ed è proprio la visione del “presente” a caratterizzare il martirio di ortigia separando quest’ opera – se così si può dire – dalle due precedenti – già citate – dove lo sguardo dell’autrice era più orientato verso il motivo del viaggio, del separarsi da pur ritraendo momenti di vita vissuta, viaggio inteso come metafora di una raggiunta libertà di giudizio e di espressione. Il “presente” diviene, pertanto, nel nuovo libro della Salibra il pretesto e l’idea dentro cui muovere la lingua della poesia che per l’autrice sembra nascere da un pensiero strutturale, più che dall’azione poetica. Si potrebbe dire, quindi, che in questo libro la poetessa tragga la sua ispirazione dalle grandi opere d’arte del passato all’interno delle quali inscrivere la propria esperienza individuale, il suo stare al mondo, la sua presenza. Si prenda in lettura la prima poesia della sezione dopo i giorni di tobia che ha per titolo da un amore: “ma non viene da te quel consumarsi/ d’occhi nel desiderio del mattino/ quando a impeciare/ il tuo marsupio d’anni è la colla// d’un calore. se mi perdi sai trovarmi/ in una cuccia di foglie e aria. qui/ col tetto laterale hai murato/ le rimanenze d’acqua.// non gabbia pare – forse// è mare senza orizzonte in fondo -/ simmetriche la porta la finestra// e l’ascensore che ha l’ansia di/ salire dove scende il malumore/ di tanti te specchiati da un amore// . L’amore è qui vissuto come un’esperienza che si consuma nel desiderio della luce, di un mattino nuovo. E’ un’esperienza che viene dal “marsupio d’anni impeciato dalla colla”, da corpi che si logorano “in una rimanenza d’acqua murata”. Tutta l’immagine che arriva da questa poesia è riflessa dentro uno specchio, dove la porta e la finestra “sono” – nel presente, nell’essere qui e ora – simmetriche e l’ascensore – anch’esso simmetrico – diviene la metafora del salire e dello scendere del tempo che viene “da un amore”. Si comprende, dunque, che l’autrice pur muovendosi all’interno del “presente”, volga lo sguardo indietro, verso gli Antichi Maestri probabilmente per cercare e definire la sua poetica dello sguardo. Il sogno di Tobia, infatti, come osserva Maria Cristina Cubani nell’introduzione al libro, richiama l’episodio biblico in cui Tobia guarisce il padre dalla cecità ponendogli il fegato di un pesce sugli occhi, un’azione che allude al motivo della Rivelazione. Una Rivelazione che ha consentito a De Chirico di conquistare una nuova visione del mondo e delle cose e all’autrice di avvicinarsi a un nuovo modo di vedere e di comprendere il visibile e l’invisibile.
Il legame tra il martirio di ortigia e le precedenti raccolte della Salibra consiste, invece, nel rimanere in un dettato poetico ritmato che risente degli echi dell’azione sperimentale, utilizzata però – a mio avviso – a fini puramente espressionistici e non di rottura della lingua: “ora è un lamento come/ di piccioni attaccati all’abbaino/ o una meraviglia di qualche A4 / che la laserjet blocca a metà/ perché racconti il suo blackout”/ che collocano la sua ricerca poetica in un’epoca e in un tempo ben definito.
Il plurilinguismo della Salibra sebbene sia assimilabile al clima delle neoavanguardie e dello sperimentalismo, non è da essi dipendente. L’autrice, infatti, in tutta l’opera, avverte la necessità di portare “il passato nel presente” ricorrendo spesso a scene urbane, come nella poesia Neapolis in cui il corpo entra fisicamente nel Museo di Napoli immergendosi nel passato, ma anche nella visione della città nella sua realtà, nel presente, di come appare oggi: “e s’apre ai miei tic d’autunno la new/ polis davanti al volto semiserio/ del filosofo tardoimperiale. un poco di traverso nella sala/ museale la donna con lo stilo/ fermato sulle labbra come me/ combina il mosaico/ dei suoi versi. ma è un alternarsi/ di bitorzoli e rientranze/ anche/ questa città che sulla scena ride/ mentre sale/ la funicolare/ tra la roccia e il mare”…
La Salibra, dunque, conferma con il suo nuovo libro che l’alimentazione immaginativa viene dalle grandi opere di pittura – opere di fatto metafisiche – ma qui utilizzate evidentemente come modello di ispirazione-narrativa. Non è un caso che il tondo (“la donna con lo stilo”) di cui l’autrice parla nell’ultima poesia citata, che fa da sfondo al ritratto, è notoriamente attribuito solo letterariamente a Saffo, nella finzione poetica quel volto di donna, in cui l’autrice torna a specchiarsi, è funzionale, se così si può dire, “combina il mosaico/ dei suoi versi”. Il tondo, è bene ricordarlo, proviene da Ercolano, la cittadina distrutta dall’eruzione del Vesuvio del ’79 dopo Cristo, ed è custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Luigia Sorrentino

Yves Bonnefoy

Mi svegliai, era la casa natale,
la schiuma s’abbatteva sulla roccia,
non un uccello, solo il vento ad aprire e chiudere l’onda,
l’odore dell’orizzonte da ogni parte,
cenere, come se le colline celassero un fuoco
che altrove divorava un universo,
passai nella veranda, la tavola era apparecchiata,
l’acqua urtava i piedi del tavolo, la credenza.
Bisognava comunque che entrasse, la senza-volto
che sapevo sbattesse alla porta
del corridoio, dal lato della scala scura, ma invano,
tanto alta era già l’acqua nella sala.
Giravo la maniglia, che resisteva,
quasi sentivo i rumori dell’altra riva,
quelle risa dei bimbi nell’erba alta.
Quei giochi degli altri, per sempre gli altri, nella loro gioia.

da Le assi curve (Mondadori, 2007) La casa natale, Traduzione Italiana di Fabio Scotto

Je m’évellai, c’etait la maison natale,
l’écume s’abattait sur le rocher,
pas un oiseau, le vent seul à ouvrir et fermer la vague,
l’odeur de l’horizon de toutes parts,
cendre, comme si les collines cachaient un feu
qui ailleurs consumait un univers.
Je passai dans la véranda, la table, le buffet.
Il fallait qu’elle entrat pourtant, la sans-visage
que je savais qui secouait la porte
du couloir, du coté de l’escalier sombre, mais en vain,
si haute était dejà l’eau dans la salle.
Je tournais la poignéè, qui résistait,
ces rires des enfants dans l’herbe haute,
ces jeux des autres, à jamais les autres, dans leur joie.

da Les planches courbes  (Mercure de France, 2001) La maison natale 

Yves Bonnefoy, nato a Tours, nel 1923, professore emerito al Collège de France di Parigi, è poeta, prosatore e saggista. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. In Italia ha pubblicato diverse raccolte: Movimento e immobilità di Douve (1969), Ieri deserto regnante (1978) Pietra scritta (1985), Nell’insidia della soglia (1990), Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve (2001). Il volume di Tutte le poesie di Bonnefoy è in corso di pubblicazione, a cura di Fabio Scotto, nei Meridiani Mondadori.

Addio a Luciano Erba

È morto a Milano Luciano Erba, uno dei più grandi poeti del Novecento e illustre francesista. Aveva 88 anni.
Erba era nato a Milano il 18 settembre 1922. È stato docente di letteratura francese all’Università Cattolica di Milano. Nel capoluogo lombardo Erba ha sempre vissuto, pur allontanandosi per alcuni lunghi periodi (soggiornò in Svizzera durante la seconda guerra mondiale, poi a Parigi e anche negli Stati Uniti). Si laureò alla Cattolica nel 1947 in lingua e letteratura francese, dedicandosi all’insegnamento, prima nelle scuole superiori e poi all’università. Tradusse vari autori francesi tra i quali Sponde, Cendrars, Michaux, Ponge.

Strinse amicizia con il gruppo dei cattolici del dissenso, tra cui Camillo Maria De Piaz e David Maria Turoldo. Esordì con Linea K nel 1951. Seguirono poi le raccolte Il bel paese (1955), Il prete di Ratana (1959), Il male minore (1960), Il prato più verde (1977), Il nastro di Moebius (1980), Il cerchio aperto (1984), Il tranviere metafisico (1987), L’ippopotamo (1989), Variar del verde (1993), L’ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000).

Quartieri solari

Milano ha tramonti rossi oro.
Un punto di vista come un altro
erano gli orti di periferia
dopo i casoni della «Umanitaria».
Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli
fatti di latta e di imposte sconnesse,
l’odore di una fabbrica di caffè
si univa al lontano sentore delle fonderie.
Per quella ruggine che regnava invisibile
Per quel sole che scendeva più vasto
in Piemonte in Francia chissà dove
mi pareva di essere in Europa;
mia madre sapeva benissimo
che non le sarei stato a lungo vicino
eppure sorrideva
su uno sfondo di dalie e di viole ciocche.

da L’ippopotamo, (Einaudi, 1989)

Linea Lombarda

Adoro i pregiudizi, i luoghi comuni
mi piace pensare che in Olanda
ci siano sempre ragazze con gli zoccoli
che a Napoli si suoni il mandolino
che tu mi aspetti un po’ in ansia
quando cambio tra Lambrate e Garibaldi.

da Nella terra di mezzo, (2000)

Milano da sera a mattina

Le nuvole hanno smesso di piovere
sta per ricominciare la sera
i cortili avranno voci più chiare
la luna compie un giro in più.

La felicità vive a notte nel sogno
della città labirinto
un monte in periferia
un vagone abbandonato sulle rotaie.

Superstite del primo Novecento
di case d’epoca lungo i bastioni
resto un borghese di tarda mattina:

per svegliarmi ripasso il latino
campestr silvester paluster
esco, cravatta, scarp luster

da Poesie 1951-2001 (Oscar Mondadori, 2002)

«Il male minore, libro riassuntivo che Luciano Erba pubblica nel 1960, è in qualche modo un punto decisivo di confine. Sia per l’esperienza poetica dell’autore, sia per quella della nostra poesia di questi ultimi decenni. Il primo Erba si era già ben manifestato negli anni Cinquanta: nel ’51 con una consistente plaquette (seguita poi da altre) come Linea K, successivamente con la sua presenza fra i sei poeti della Linea Lombarda di Luciano Anceschi nel ’52, e con la partecipazione, in veste di co-autore (assieme a Piero Chiara) e autore nell’antologia Quarta generazione, del ’54, dedicata ai giovani poeti di allora.
La fisionomia, la novità di Erba, trovano dunque un pieno coronamento proprio alla vigilia della prima antologia dei Novissimi (1961) rispetto ai quali la sua posizione appare totalmente estranea. E in questo periodo di sperimentazioni inizia per Erba, forse non a caso, un lunghissimo silenzio interrotto solo alla fine del decennio successivo, con il volumetto Il prato più verde (1977), ripreso poi in un nuovo libro complessivo, Il nastro di Moebius (1980, comprendente anche Il male minore). E’ forse opportuno aggiungere a queste annotazioni che Edoardo Sanguineti, nella sua Antologia della poesia italiana del Novecento (1969), esclude tutti gli autori della quarta generazione non appartenenti all’avanguardia con due sole eccezioni: Pier Paolo Pasolini e, appunto, Luciano Erba.
Anche attraverso questi segnali si può intuire il carattere di coerenza autonoma della poesia di Luciano Erba. Agli esordi è semmai ravvisabile qualche traccia di illustri esempi come quelli di Eugenio Montale e Vittorio Sereni, ma soprattutto risalta netta, naturale, la sua distanza dall’ermetismo degli anni Quaranta, come dai tentativi di opposizione il più delle volte ingenua del neorealismo. Erba appare subito orientato dal dono di una felice leggerezza naturale del tocco, dalla finezza del gusto, con cui esprime il proprio legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati, degli oggetti e delle figure, che egli riesce all’istante a sottrarre all’opacità in virtù di una grazia del dire e di un infallibile equilibrio linguistico, che nella loro piena plausibilità, “normalità”, non hanno alcun bisogno di reticenze o astuzie letterarie, da cui anzi rifuggono. La “piccola magia”, la musica sottile e apparentemente pacata della poesia di Erba, come Il male minore evidenzia al livello più alto, consiste dunque nel rendere leggeri, leggiadri, anche, nella loro presenza, nelle loro movenze, dettagli di un reale altrimenti inerte, o greve, o solo indifferente, fino alle più trascoloranti apparenze spesso affidate, ad esempio, al gioco scenico degli abiti (“Lei portava i calzoni del fratello/ una borsa alla cinghia/ un farsetto come un giustacuore”; “in fondo/ avrebbe voluto la Grande Jeanne/ diventare una signora perbene/ aveva già un cappello/ blu, largo, e con tre giri di tulle” ecc.)
Al disegno della sua poesia contribuisce una formazione culturale che incrocia una tradizione lombarda profondamente sentita con esperienze soprattutto francesi, che comprendono Apollinaire e non escludono Prévert.
Erba finge di porsi ai lati, con marginale eleganza, con discreta ironia fantasiste, rispetto ai percorsi dominanti o ai grandi temi dichiarati, per introdurli più di striscio o in sottinteso, o in improvvisi (ma strutturali) scarti interni, che increspano l’ambigua normalità della vicenda.
L’assenza di Erba in una fase della poesia del nostro tempo è probabilmente il sintomo, di un suo disagio, di una sua insofferenza nei confronti di una sperimentazione, dichiarata o meno (e dunque non solo quella della neoavanguardia), a cui non poteva appartenere, e il suo riapparire non vuole certo introdurre un netto mutamento di stile, tant’è vero che nel Nastro di Moebius riprende testi più antichi, compreso, come si diceva, Il male minore forse nell’idea di un unico libro, composto per successivi accumuli, e perciò sempre da aggiornare, che riassuma un percorso poetico. […]»
di Maurizio Cucchi

Brano tratto dall’antologia Poeti Italiani del Secondo Novecento – Volume Primo (Mondadori, 1996)

Tony Harrison

Leggendo i rotoli: un versi-culo
I.
La Pizia sul suo seggio di pietra
inalando marciume imparò a declamare
prima dell’età di Omero i primi
esametri che un essere umano abbia pronunciato.
Inondato di vapore, l’andatura pigra di drago morto,
il rettile sul suo orlo roccioso,
il putrido serpente, fu il vero
incantatore della vera poesia.

Con pensieri così riconciliavo
gli anni passati a scrivere con l’odore
del gas che perde e fantasticavo
di serpenti quando il fuoco del gas sibilava.
Mi aiutava a concentrarmi, il sibilo
come quello della Pitonessa pestata
che Apollo ridusse a un unico livido,
una pelle di serpente il premio del campione,
pestata così che Apollo potesse
essere l’unico nome tutelare di Delfi.
Bastonò fino alla tana del serpente,
poi barattò la sua clava rivestita di pelle con la lira,
ma ancora aleggiano pezzi fetidi di budella di serpente
quando il dio è sull’onda di un assolo magistrale.
La Musa che faceva la sua manicure
dimenticò di pulire le unghie dal sangue.
Così quando Apollo pizzica le corde
ne esce pura musica con olezzi di serpente.

Per oltre trent’anni passati a scrivere
il miasma che saliva dalla carogna del mostro,
gocciante attraverso il parquet e il tappeto di lana,
è stata l’ispirazione che inalavo.
Ho tollerato quella vaga zaffata
ma ora hanno chiuso i miei rubinetti del gas…
fetidi intestini di rettile, un gas malefico fugge
dai miei tubi di piombo bucati e sfigati.
Non più vecchio gas, grazie a Dio! – CO
quel che il suicida più spesso ha scelto
(e una volta quando provai a scegliere quale,
il gas venne al primo posto insieme con Tyne Bridge).
E’ da lungo tempo che sento sibilare quello del Mare
del Nord
come quello della Pitonessa assopita di Delfi
i cui incrostati intestini e ossa
hanno appena scaricato nei miei bidoni della spazzatura,
con tutti i miei fornelli benché io recalcitrassi –

E’ fortunato che non ne sia esploso nessuno.

Agitazione sopra un simile odore
posso fin da molto piccolo rievocare.
C’è roba stecchita sotto il pavimento
diceva nonno Chiama Freddy Flea .
Fred, per cinquant’anni, aveva girato
con il suo circo di pulci. Ora in pensione
veniva chiamato per aiutare a scovare l’esatto punto
dove erano morti i ratti e guadagnarsi una pinta.
Il canile di alati segugi di Fred
erano mosconi in un contenitore di sapone.
Fred li lasciava andare, e tutto quello che faceva
per scoprire dove i ratti erano morti.
Loro ronzavano e si fermavano. Appena Fred
capiva
il punto dove tutti i suoi seguaci correvano
sollevava un asse di pavimento per svelare
un gatto rancido… voilà voilà.
I segugi di Fred avevano il loro babà.
Poi Fred li prendeva in una piccola rete
e spingeva le loro schiene in uno splendido blu faenza
nel contenitore del sapone.

da: Vuoti di Tony Harrison (Einaudi, 2008)
Traduzione italiana di Giovanni Greco

Tony Harrison, è nato a Leeds nel 1937. Ha vissuto in Inghilterra, Africa, Europa orientale e Stati Uniti. Il suo inconfondibile stile graffiante si affermò con The Loiners (1970). Il poemetto V. trasmesso da Channel Four (1987) suscitò polemiche per la durezza del linguaggio. Harrison ha realizzato diversi “poemi-film”, fra cui Il banchetto dei bestemmiatori, su Salman Rushdie, e Margherite nere per la sposa (Premio Italia 1994 per il documentario). Le sue opere teatrali, scritte in gran parte per il National Theatre e raccolte in tre volumi, sono andate in scena in Inghilterra, a Delfi e in altri teatri antichi e moderni. Vive a New-castel upon Tyne.

Mariangela Gualtieri

Ritorna silenzio
placa tutto di me
in un ascolto teso
mani che lasciano la presa
rombo vuoto di tua intesa
silenzio d’oro d’oro
per più riposo celebrale un calabrone
si posa in cima all’aurora
siamo spezzati dentro la mano
genuflessi nell’ora della costellazione
redenta. Siamo costipati
in questo mondo peno
un giorno migliora questo pilotame
d’argento e dentro ci sono
papaveri e una insonnia per loro.

Fa di me la tua mano.
Prendi questa intesa e getta
piume nella festa de re
piume e un anello prezioso.
Saremo solo schiuma, saremo
un fruscio un velame
quando andremo via.

da: Bestia di Gioia di Mariangela Gualtieri (Einaudi 2010)

Mariangela Gualtieri (nella foto di Rolando Paolo Guerzoni) è nata a Cesena nel 1951. Nel 1983 ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro della Valdoca. Fra le sue precedenti raccolte di versi, Antenata (Crocetti 1992), Fuoco Centrale e altre poesie per il teatro (Einaudi 2003), Senza polvere e senza peso (Einaudi 2006), Paesaggio con fratello rotto (Sossella 2007), Bestia di gioia (Einaudi 2010).

www.teatrovaldoca.org

Cesare Viviani

 

Si internerisce il cuore
di fronte all’immobilità di un corpo.
“Oh non mi riconosco nelle parole
di chi gusta il potere!”
Passarono le guerre,
ma non sulla terra, in aria.
E la distruzione fu immaginata, non fatta.
La ferocia induce l’amore,
è bene dirlo.
Così, in un interrogativo, si racchiude
la vita: qual è il mio dio,
qual è il mio nemico?

da: Credere all’invisibile (Einaudi 2009)
(Nella foto, Cesare Viviani a cui è stato conferito, tra gli altri, il Premio P.E.N 2009)

Cesare Viviani è nato a Siena nel 1947. Vive a Milano. I suoi libri di poesia sono: L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), Piumana (Guanda 1977), L’amore delle parti (Mondadori 1981), Summulae (Scheiwiller 1983), Merisi (Mondadori 1986), Preghiera nel nome (Mondadori 1990), L’opera lasciata sola (Mondadori 1993), Cori non io (Crocetti, 1994),  Una comunità degli animi (Mondadori 1997), Silenzio dell’universo (Einaudi 2000), Passanti (Mondadodori 2002), La forma della vita (Einaudi, 2005),  un’antologia dei suoi testi poetici, Poesie, (Oscar Mondadori 2003), Credere all’invisibile (Einaudi, 2009).

Addio a Edoardo Sanguineti, Il poeta dell’ideologia

Nel trigesimo della morte di Edoardo Sanguineti – maestro novecentesco – sodali discepoli compagni di strada, amici e dialettici nemici, si riuniscono in assemblea commemorante a Roma, presso ESC Atelier Autogestito (Via dei Volsci 159, quartiere S. Lorenzo). Giovedì 17 giugno dalle 20.30 in avanti.

Non la posa di una pietra tombale e nemmeno la celebrazione di un’icona, ma il segno di una viva permanenza. Una maratona di letture, ricordi e contributi multimediali aperta a tutti coloro che vorranno essere esserci. Ognuno dei presenti introdurrà o eseguirà un testo di Edoardo Sanguineti, scritto o audiovisivo, da lui scelto: per una durata massima di cinque minuti ciascuno. (16 giugno 2010)


Hanno aderito sinora:

Annelisa Alleva, Antonio Amendola, Brunella Antomarini, Luca Archibugi, Nanni Balestrini, Uliano Balestrini, Gianfranco Baruchello, Sonia Bergamasco, Francesca Bernardini Napoletano, Paolo Bertetto, Tomaso Binga, Ginevra Bompiani, Maria Grazia Calandrone, Simone Caltabellota, Luisa Capelli, Simone Carella, Laura Cingolani, Arnaldo Colasanti, Andrea Cortellessa, Fabrizio Crisafulli, Sara Davidovics, Elisa Davoglio, Riccardo De Gennaro, Raffaella D’Elia, Pablo Echaurren, Fabrizio Fantoni, Giulio Ferroni, Michele Fianco, Giovanni Fontana, Stefano Gallerani, Bruno Galluccio, Sergio Garufi, Enrico Ghezzi, Enzo Golino, Gaia Gubbini, Angelo Guglielmi, Nicola Lagioia, Filippo La Porta, Letizia Leone, Mario Lunetta, Bianca Madeccia, Massimiliano Manganelli, Raffaele Manica, Nina Maroccolo, Aldo Mastropasqua, Giordano Meacci, Francesco Muzzioli, Matteo Nucci, Tommaso Ottonieri, Francesco Pacifico, Paolo Pagnoncelli, Marco Palladini, Melissa Panarello, Francesco Piccolo, Plinio Perilli, Alexandra Petrova, Gilda Policastro, Jonida Prifti, Christian Raimo, Franca Rovigatti, Piero Sansonetti, Ruggero Savinio, Ivan Schiavone, Siriana Sgavicchia, Gabriella Sica, Sparajurij (Francesco Ruggiero), Luigia Sorrentino, Carla Subrizi, Emanuele Trevi, Filippo Tuena, Carla Vasio, Sara Ventroni e Paolo Zanotti. Più contributi a distanza di: Altri Luoghi (Marco Berisso, Guido Caserza, Paolo Gentiluomo), Gian-Maria Annovi, Simone Barillari, Gabriele Frasca, Canio Loguercio e Andrea Zanzotto.

Serata a cura di Andrea Cortellessa, Raffaella D’Elia, Vincenzo Ostuni, Tommaso Ottonieri, Gilda Policastro

Edoardo Sanguineti, professore universitario, insigne dantista, ha perseguito con straordinaria coerenza il filone di una creazione letteraria, che puntando sulla destrutturazione linguistica, rendesse al tempo stesso – spesso con effetti parodici e grotteschi – la condizione di alienazione dominante nel nostro tempo (con un fondo di ortodossia marxista, tenacemente difesa contro le disillusioni della storia). Sia nelle poesie (Laborintus, 1958; Erotopaegnia, 1960; Wirrwar, 1972; Postkarten, 1978); sia nelle prose narrative (Capriccio italiano, 1963; Il giuoco dell’oca, 1967), emergono come caratteristiche sue più brillanti e persuasive il genio delle associazioni stilistiche-semantiche e la forza del suo sincopato metrico, che rinvia, appunto, a una diversa sarcastica visione del mondo.

di: Alberto Asor Rosa
In: Storia europea della letteratura italiana III. La letteratura della Nazione, Einaudi, 2009

A Nathan Zach il Premio Gabriele D’Annunzio

E’ Nathan Zach, nato a Berlino nel 1930 da famiglia ebraica, il vincitore del VII Premio Internazionale di poesia Gabriele D’Annunzio.
Stefano Trinchese, preside della facoltà di Lettere dell’Università “D’Annunzio” di Chieti, ha sottolineato come “Nathan Zach rappresenti la cultura ebraica nel mondo, con una visione anche critica del conflitto fra Israele e Palestina”.
Nato da padre tedesco e madre italiana, dopo l’avvento del Nazismo, Zach fu costretto a lasciare Berlino ed emigrare in Palestina con la famiglia, un evento che segnò la sua vita, configurandosi come fatto traumatico nella sua opera.
Nel 1993 Natan Zach ha vinto il Premio Feronia di Roma, nel 2000 il Premio Internazionale di poesia Camaiore. Numerose le onorificenze ricevute in Israele.
In conferenza stampa a Pescara, presso Casa D’Annunzio, il presidente del Centro studi Dannunziani, Edoardo Tiboni, ha ricordato i nomi dei vincitori delle precedenti edizioni del Premio: Yves Bonnefoy (2003), Mario Luzi (2004), Adonis (2005), Hans Magnus Enzensberger (2006), Mark Strand (2007), Evgenij Evtushenko (2008).

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=WJ9v_k4muZ4[/youtube]

Antonella Anedda: “La vita dei dettagli”

“La vita dei dettagli” (Donzelli, 2009, euro 18,00) è la nuova avventura letteraria di una delle più apprezzate poetesse italiane, Antonella Anedda. Si tratta di un’opera di saggistica di grande significato in quanto offre lo spunto per un’importante riflessione, oggi, sul senso e sul significato dell’arte. Gli occhi della poetessa vedono, “pensano la vita” e ci riportano al viaggio compiuto da James Joyce con “Ulysses” e alla frase pronunciata da Stephen Dedalus: “Pensare la vita attraverso i miei occhi”.

“Dimmi a chi appartiene questa casa in fiamme, chi lancia la sua picca sul vuoto, quale peccato viene punito” si domanda la Anedda compiendo il suo ritratto, pietoso e impietoso, mettendo insieme frammenti, dettagli, accumulati negli occhi, immagini che l’hanno atterrita e affascinata.

“Che cosa si ferma nei nostri occhi?” Si chiede la poetessa. Cosa ci colpisce e ci commuove? Lo sguardo della Anedda “collezionista di perdite” procede minuzioso nella ricostruzione, ritaglia e fotografa dettagli delle opere di alcuni dei più grandi artisti visivi del nostro tempo, Nicolas De Staël (1914-1955) Marc Rothko (1903-1970) Bill Viola (1951) Jenny Holzer (1950) e si interroga: “Qual è il significato dell’arte?”
“Nelle scaglie nere che annunciano tempesta” lo sguardo non riunisce, ma scompone particolari che diventano un altro quadro. Ecco che l’osservazione e la sintesi della poetessa incrocia il solco di altri poeti che come la Anedda furono dei grandi cacciatori di immagini. Penso a Guillaume Apollinaire che divenne amico intimo di Pablo Picasso. Il punto di vista di Apollinaire nei confronti dell’arte rafforzò il grande artista che divenne Picasso e contribuì al suo precoce riconoscimento pubblico. Così “La vita dei dettagli” rafforza e consolida il senso e il significato di tutta l’arte, evidenziando il ruolo del poeta nella contemporaneità e attribuendo assoluto valore alla sua testimonianza.

La Anedda entra nel “frammento di un discorso” che comincia, per ogni poeta, proprio dall’osservazione, dallo stare davanti al “quadro”, all’immagine, affascinato o respinto da un tratto, dal dettaglio che compare o scompare del tutto, evidenziato dalla luce o inghiottito dal buio. Ciò che resta impresso nell’occhio del poeta è quell’infinitamente piccolo che ha attirato la sua attenzione, ha smosso la riflessione, l’argomentazione, il discorso che ha reso possibile – che rende possibile – la Sua Opera. L’attenzione del poeta al particolare diviene quindi la sintesi di una conoscenza di cui il poeta entra in possesso e dalla quale non potrà mai più separarsi. Quel dettaglio – una finestra spalancata sul visibile – è pensiero, movimento, azione, è l’Opera, nel suo farsi e disfarsi.
di Luigia Sorrentino

Omaggio a Wisława Szymborska e a Herta Müller

Wisława Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996: ” Per la poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana.”

PICCOLI ANNUNCI

CHIUNQUE sappia dove sia finita
la compassione (immaginazione del cuore)
– si faccia avanti! Si faccia avanti!
Lo canti a voce spiegata
e danzi come un folle
gioendo sotto l’esile betulla,
sempre pronta al pianto.

INSEGNO il silenzio
in tutte le lingue
mediante l’osservazione
del cielo stellato,
delle mandibole del Sinanthropus,
del salto della cavalletta,
delle unghie del neonato,
del plancton.
d’un fiocco di neve.

RIPRISTINO l’amore.
Attenzione! Offerta speciale!
Siate distesi sull’erba
del giugno scorso immersi nel sole
mentre il vento danza
(quello che in giugno
Guidava il ballo dei vostri capelli).

SI CERCA persona qualificata
per piangere
i vecchi che muoiono
negli ospizi. Si prega
di candidarsi senza certificati
e offerte scritte.
I documenti saranno stracciati
Senza darne ricevuta.

DELLE PROMESSE del mio sposo,
che vi ha ingannato con i suoi colori
del mondo popoloso, il suo brusìo,
il canto alla finestra, il cane fuori:
che mai resterete soli
nel buio e nel silenzio tutt’intorno
– non posso rispondere io.
La Notte, vedova del Giorno.

di Wisława Szymborska


 

Herta Müller, Premio Nobel per la Letteratura nel 2009: “Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati”

INCIPIT
Tutto quello che ho lo porto con me. Oppure: tutto quello che è mio lo porto con me. L’ho portato tutto, quello che ho. Non erano cose mie. Cose senza più una funzione, o appartenenti a qualcun altro. La valigia di pelle di maiale era la custodia di un grammofono. Lo spolverino era di mio padre. Il cappotto di città con il colletto di velluto era del nonno. I calzoni alla zuava quelli di mio zio Edwin. Le ghette erano del vicino, il signor Carp. I guanti di lana verde quelli di mia zia Fini. Solo la sciarpa di seta bordeaux e il nècessaire erano miei, regali dell’ultimo Natale. […]

di Herta Müller, da: “L’altalena del respiro”

Bruno Galluccio: Verticali

Un esordio riuscito quello di Bruno Galluccio che pubblica la sua opera prima di poesia Verticali (Einaudi, 2009, pp. 110, euro 12,00).
Già il titolo evoca la perpendicolarità della parola poetica che si adagia su di una superficie bianca e traccia sul piano della pagina la parola che tuttavia non rinuncia allo spazio largo, orizzontale, delle emozioni. Bruno Galluccio, napoletano, laureato in fisica, con trascorsi in un’azienda di telecomunicazioni, partendo da un piano di emersione – che richiama il titolo della prima sezione del libro – si solleva da una ‘ferita’ tenuta nascosta dietro un vetro, insieme alla quale riaffiora, gradatamente, ‘il lato rovescio del pensiero’ radicato, da chissà quanto tempo, nel suo ‘lembo di indicibile’.
Una parola netta, pronunciata con ingegno, che si concentra con estrema precisione sul ritratto del grande matematico russo-tedesco, George Cantor (1845-1918) fondatore della teoria degli insiemi. ‘L’irrazionale ha fatto breccia nella mia vita fino all’osso/ fino a calare tende lungo le pareti/ e attutirmi i clamori troppo fini’, scrive Galluccio nella poesia dedicata a George Cantor. Ed è proprio lì, nella poesia collocata nella parte centrale del libro, che l’io del poeta fonde la precisione del pensiero scientifico allo spaesamento, drammatica espressione di ogni comune esistenza. Il genio matematico perde la sua potenza svelando il proprio isolamento nello scorrere del quotidiano, nel giorno per giorno, ‘calando i maestri giù nell’ombra’, smarrendo i confini della scienza e trasbordando nell’ ‘irrazionale’, nell’emotività della propria condizione umana. Il poeta, adagiandosi ‘sul fianco dentro il freddo/verso le caverne della terra’, dopo aver percorso una progressiva, graduale, emersione dal fondo, in un processo di proiezione-identificazione ‘discende’ nella spina dorsale di un profondo dolore fino a raggiungere una parola poetica scevra dall’esattezza della formula matematica, tutta proiettata verso l’alto, verticale, appunto: ‘Non ho sonno, non so pregare. / Accolgo la solitudine di ogni singola onda./ Questa casa ha guscio di rapina/ e tentazione lunare. Non ha scale/ da scendere, sono nella terra friabile/ la rena scardinata. Mi lascio indietro’. E in questo spazio di linee verticali che si tracciano dal basso verso l’infinito, si erge l’uomo, in tutta la sua sostanza, consapevole e inconsapevole della propria esistenza irrisolta, un io disperatamente dilaniato dalla distanza tra il piccolo sé e l’assoluto.

di Luigia Sorrentino

 

Biancamaria Frabotta: Quartetto per masse e voce sola

Biancamaria Frabotta (nella foto) una delle più importanti voci poetiche contemporanee, in Quartetto per masse e voce sola (Donzelli, 2009) traccia un bilancio raccontando cinquant’anni di esperienze, memorie, riflessioni, di una donna poeta.

Chiunque voglia accostarsi per la prima volta alla poesia di Biancamaria Frabotta non potrà prescindere da questo piccolo libro, un autoritratto che scandisce il mondo interiore della poetessa attraversando anche la Storia d’Italia del secondo Novecento: il Sessantotto, gli anni del femminismo, la poesia plurale, la crisi politica e culturale. Biancamaria Frabotta nel suo autoritratto mette isieme le due facce: l’eternamente presente e l’eternamente fuggito, che costituiscono il volto della poesia.

Intervista di Luigia Sorrentino (Roma, 28 settembre 2009)

Nella sinfonietta “Quartetto per masse e voce sola” si incontrano quelli che lei definisce “volti senza padrone”. Una galleria di confessioni rubate e trasferite in una profondissima emozione lirica che fotografa e fissa in una istantanea il passato e il presente.  Autoritratto, dunque, doppio, plurimo, spennellate rapide, del tempo che ci scivola accanto in un ingorgo tra pubblico e privato tutto proiettato verso Il tempo a venire. Parliamo del titolo, che non è un vezzo estetizzante…
Il titolo Quartetto non è un vezzo estetizzante. Si tratta di quattro variazioni su un tema centrale, l’iniziazione alla poesia connessa al profondo rapporto che spesso le donne hanno con la madre. O meglio ancora la loro esecuzione su quattro diversi strumenti. Quattro generi letterari, se vogliamo: la memorialistica, personale e in qualche parte anche generazionale, la critica letteraria, il racconto di viaggio, il saggio etico-politico. Il collante di tutto ciò è un autoritratto “onesto” se possibile, con un io fittizio, ma responsabile. Un vecchio slogan del femminismo degli anni Settanta ricordava che il personale è politico, nell’esistenza delle donne. E io credo che lo sia nella vita di tutti noi, ieri, come oggi, come sempre. Se per politica non s’intende naturalmente una gestione privatistica di affari che vengono spacciati per pubblici e non lo sono. La voce sola è quella del poeta che non può cantare nel coro, a meno che non lo scelga per una vocazione penitenziale o populistica. Ma oggi la solitudine non esiste, se non nelle plaghe di disperati paesi senza vita e senza economia. Le masse sono il tuorlo universale in cui l’embrione di ogni pensiero, o sentimento galleggia, naviga, soffoca, rinasce. Questi sono i nostri tempi. Possiamo anche, come Pasternak, affacciarci alla finestra e chiedere ai bambini che giocano nel cortile: quale millennio è oggi bambini? Ma costa sangue e lacrime. Di solito, altrui.

Nel capitolo “Una pluralità di poeti” lei fa un confronto tra la “milanesità” tutta moderna, contemporanea, che a partire da Sereni passando attraverso la “Ragazza Carla” di Pagliarani arriva fino a Cucchi e De Angelis producendo opere mature e importanti, e la “romanità”, povera di poeti autoctoni, come Belli, Cardarelli e Vigolo, ma ricca di autori “romanizzati” che però, secondo lei, non sono riusciti a dar vita a una vera scuola di poesia. Come spiega questa differenza tra Roma e Milano? Perché Roma non riesce a costituire una vera scuola di poesia, ma solo singoli poeti?
Per dir la verità credo che un poeta, un singolo poeta, uomo o donna che sia, non pensi mai a creare una scuola di poesia. La parola “scuola” non si adatta allo scontroso stare al mondo di chi è già sin troppo occupato a tenere a bada il continuo rimuginìo di parole che trovano pace solo nel felice rifugio di un verso. Non voglio dire che i poeti non abbiano amici con cui incontrarsi, far comunella, scambiarsi qualche futilità. E’ un modo di stare accanto l’uno all’altro, un po’ come i bambini, che non hanno molto da dirsi, se non fantasiosi vaniloqui accompagnati da gesti, toccamenti sfuggenti, umbratili mutamenti di umore. Né voglio insinuare che un sodalizio tra poeti non possa riguardare il loro comune pensare la poesia o il mondo. I poeti non smettono mai di pensare, ma in un loro curioso inafferrabile modo. Le scuole hanno bisogno di aule, banchi, interrogazioni, riconoscimenti. E soprattutto di ordine. Nemmeno a Milano, credo, si sia mai inteso creare una scuola. Nel Quartetto poi io attribuisco diversi comportamenti ai poeti delle due città. A Milano mi fermai la prima volta a leggere le prose inedite di Carlo Cattaneo conservate nel Museo del Risorgimento, ma anche, negli anni Settanta, ne attraversai il centro blindato e terrorizzato da implacabili manifestanti. Un critico puro dovrebbe cercare ciò che trova nei libri. Un poeta critico vede ciò che altri non hanno dentro di sé. E che in qualche modo è già predisposto ad essere colto. E così Roma mi è sempre parsa inafferrabile, sfuggente, indisciplinata, inclassificabile e non rappresentabile. I suoi poeti, quasi tutti immigrati dentro la sua simbolica cerchia di mura, come potrebbero sfuggire a questa eccezionalità?

In “Elogio del fuoco”, che si trova nella parte finale della seconda parte del libro, lei fa un’auto-descrizione fisica ed uditiva di una delle più grandi poetesse del Secondo Novecento, Amelia Rosselli. Lei tiene, peraltro, un corso monografico all’Università “La Sapienza” di Roma proprio su Amelia Rosselli che – tutti sanno – frequentava e amava moltissimo i giovani. Quale è stato il rapporto tra lei e Amelia Rosselli, e che eredità le ha lasciato?
Il “pezzo” di cui lei parla a dir la verità è un elogio funebre. Lo lessi a Roma, davanti al feretro di Amelia nella Casa della Cultura il 16 febbraio 1996. E a stento, facendo fatica a trattenere le lacrime. Amelia morta, Amelia suicida era un pensiero insostenibile. La sua poesia oggi diventa presto popolare fra i giovani, soprattutto donne, che la incontrano nei miei corsi di poesia. Si dice che il pubblico giovanile resti lontano dalla poesia dei Grandi e preferisca occuparsi solo di sé stesso in un’autoreferenzialità cocciuta ed esaltata. E forse è vero. Ma con un poeta intrattabile (parlo delle sue poesie, non di un carattere che può oggi apparire soltanto la mitica proiezione di un tempo stellarmente lontano dal nostro) come Amelia Rosselli, è diverso. Non possono parafrasarla, ma la capiscono e vi si assimilano, a loro modo. L’eredità che mi ha lasciato? Urticante e dunque indimenticabile. Le prime poesie che pubblicai su “Nuovi argomenti” ne portano il segno. Ma capii presto che bisognava liberarsi dell’inevitabile epigonismo cui ci dannava. E contemplarne la straordinaria intelligenza “altra” un po’ da lontano, assorbendola a piccole dosi. Un’isola ignota è meglio desiderarla e non violarla nella realtà.

“I nuovi climi” la raccolta poetica che ha pubblicato nella collana di poesia curata da Maurizio Cucchi è una poesia che acquista nuovi spessori nel segno di una nitidezza affabile e una sapienza del tutto esente da effetti letterari. Una raccolta che risente della formazione milanese, di Saba, una poesia che rinuncia a qualsiasi inquietudine, una voce pacificata, serena, composta, che non si discosta dalla contemporaneità, anzi, ne è permeata.
Come si colloca questa opera all’interno della sua vasta produzione poetica?

Pacificata? Serena? Avrei qualche dubbio ad applicare a I nuovi climi che, nella sezione omonima, si svelano nella loro imprevedibile distruttività, questi aggettivi che alludono a una condizione d’animo che non disprezzo affatto. Ma che non merito. La compostezza invece mi appartiene e non certo per un retrivo bisogno di ordine, ma per una faticosamente raggiunta saggezza stilistica, in primo luogo. Non sapienza, prego. Ma saggezza, amicizia offerta e ricambiata fra sé e quello che si scrive. Tocco delicato, lento, controtempo e controcorrente. L’ego sbandierato stanca, alla lunga, se resta la unica nostra compagnia. Parlare di noi a noi stessi ci compensa, ma che noia! Solo con me stesso ancora non mi annoio, scriveva Giorgio Caproni. Beato lui. Un poeta scontroso, ma anche amante dell’umanità, diffidente della metafisica. Sofferente e partecipe. Per me resta un modello. Non letterario, metrico o tematico. Mistico, direi.

Lei prima di pubblicare “I nuovi climi” con Giorgio Devoto, l’editore di San Marco dei Giustiniani (Genova 2005) ha pubblicato “Gli eterni lavori”, con prefazione di Giorgio Patrizi, una raccolta molto significativa, che ha quasi introdotto la sua poesia successiva. Il discorso poetico già in quest’opera si è soffermato sulla percezione della natura, orientando la sua scrittura verso un confronto tra la storia individuale degli uomini e la natura, così come essa si presenta.
L’eterno lavoro è quindi dare conto di questa relazione?
La ringrazio per questa domanda che mi assilla da qualche anno. Il che vuol dire che ogni risposta qui intessuta, risulterebbe fittizia. L’occasione di quelle poesie che apriranno il mio nuovo libro è semplice: una casa, tra campagna e mare, in Maremma, circondata non da un giardino, ma da un campo. Bellissima parola, naturale, ma anche astratta, indicibile. Un campo da contemplare? Da lavorare? La natura che per la prima volta ho guardato da vicino, anche se con i vizi congeniti della cittadina che non sa riconoscere nelle piante i tagli dell’anno precedente (eppure è da lì che vigorosa parte la ricrescita) non lesina dure lezioni a chi vorrebbe addomesticarla in un idillio. Mirabolante e crudele (Dio è un arredatore, ho sentito dire nell’ultimo film di Woody Allen) smentisce facilmente il nostro vanto di creature civilizzatrici. E’ un po’ come con la poesia. Grazia, o lavoro? Dono, o fatica? Da anni rileggo Vita activa di Annah Arendt. Le sue pagine sul lavoro e sulle opere umane sono stupende. Ma la poesia, dubito, che possa veramente avvalersene. E mi perdoni le solite poche e confuse idee senza cui non si scriverebbe più nemmeno un verso.

da: “Elogio del fuoco” di Biancamaria Frabotta

Davanti alla bara di Amelia Rosselli
Roma, 16 febbraio 1996

“Il fuoco riscalda.
A leggere la poesia di Amelia, la temperatura del nostro corpo si altera un po’. Talvolta si abbassa più spesso si innalza. E non diversi effetti scaturivano dall’ascolto, dalla sua viva voce di straordinaria lettrice. Lei ardeva per suo conto. Era con te, qualche volta contro di te, ma mai lontano da te. Ti metteva a parte dei suoi segreti, ma non della sua intimità. Amelia era furiosamente, strenuamente pudica.
Il fuoco disinfetta.
E cauterizza le piaghe. Lei ci comunicava i suoi incubi, i mali che la torturavano e insieme i suoi paradisi, la gioia del tempo, la passione politica che l’ha sempre agitata, e tutto, il male, come il bene supremo, acquistava un solo tono, il suo. La sua voce era un basso profondo, una musica che faceva lievitare la fondamentale tra le parole rese singole e compenetrate le une nelle altre. Un campo di spighe uniformemente mosse al vento eppure così variate, inafferrabili a un solo colpo d’occhio. Mai un grido nella sua recitazione, eppure quanti soprassalti nelle sue poesie! Per lei hanno nominato Campana, Rimbaud. Ma nulla le era più estraneo dello sregolamento dei sensi, dello sfrenato abbandonarsi all’altra voce che urge quando la ragione tace. In lei parlano entrambe, la ragione della mente e quella che piove dall’Altrove, in una educata, civilissima convivenza che non dimenticheremo mai.”
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