Soffio ed epitaffio: riflessioni sull'”Olimpia” di Luigia Sorrentino

 di Irene Santori

Preliminarmente, occorre porre attenzione alla citazione in esergo, che apre la raccolta. “Non essere limitato da ciò che è grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino“.
Essa è tratta dall’”Iperione” di Hölderlin, il quale a sua volta la mette in esergo al suo romanzo, riportandola nell’originale latino “Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est“.
Pertanto, questo motto è la citazione di una citazione, e già questo ci pone in un orizzonte di slittamenti, stratificazioni, ma soprattutto di sprofondamenti: poiché è Luigia Sorrentino che cita Hölderlin, il quale cita un epitaffio, per l’esattezza l’epitaffio inciso sulla tomba di un santo, Sant’Ignazio di Loyola.

È dunque da una tomba che esala e sale la parola che anticipa tutte le altre. È l’epitaffio, ovvero la parola ultima e definitiva, che qui invece si fa parola inaugurale. Un cenno etimologico: epi, significa sopra; tàphos, significa tomba, ovvero ciò che sta sotto, il sottoterra. L’epitaffio è in sé la simultaneità, il con-stare di due opposti: il sopra e il sotto. Nel caso particolare del messaggio veicolato da questo epitaffio, gli opposti si divaricano a dismisura, diventano maximo e minimo, l’infinito e il finito, l’uno e il tutto. Ed è divino, divinum est, stare, con-stare, esserci in entrambi, situandosi in questa divergenza, in questa divaricazione.

Ora, in “Olimpia” è all’opera la febbricitante e fredda presa in carico di questa situazione, laddove si assuma la parola situazione non nella sua funzione di sostantivo, come realtà data, bensì come azione nel suo darsi, come la tensione, l’operazione instancabile del situarsi.

Luigia Sorrentino – e qui l’aggettivo febbricitante assorbe una valenza quasi puerperale – mette al mondo, plasma, architetta un luogo e un logos: un luogo in cui quella divaricazione, quella difformità, quegli opposti possano corrispondersi, possano divenire tutt’uno e non più collisioni dell’essere. E se mai questo sarà possibile, lo sarà in virtù di un logos, di una parola pensata, hölderlinianamente, nella sua potenzialità demonica, ovvero della parola numinosa e perciò demiurgica e fondativa. Stiamo parlando della parola poetica, per come la intendeva Hölderlin, o meglio, per come la intendeva Heidegger esegeta di Hölderlin: la poesia è il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose.

In altre parole, la parola poetica è quell’energia primeva, quell’Ur-Sprache, la protolingua che sta sotto, tombata nel profondo delle lingue storiche, da riattingere affinché l’epitaffio, da parola sepolcrale diventi inizio, avvento, evento, nascita di ogni discorso umano, ridiventi, per dirla ancora con Heidegger, voce del popolo. E però, nel dire popolo, non può non risuonare l’esclamazione corsivata della quart’ultima poesia della raccolta di Sorrentino, che sembra quasi gridare, spopolato!

“ciò che crediamo perduto possiamo
riaverlo, te l’ho già detto, spopolato!”

Ora – posto che assumiamo la poesia come istituzione dell’essere e dell’essenza di tutte le cose – in che modo accade questa istituzione, nel proprio, nello specifico della poetica di Luigia Sorrentino? In che modo, dall’epitaffio iniziale fino a questa esclamazione e poco oltre, vengono al mondo e vanno in scena tutte le cosmogonie e le agonie di “Olimpia”, ricapitolando il sottoterra ctonio e il cielo, il passato mitico e il destino, le rovine e le fondamenta, in una mai pacificata ma sempre febbricitante scommessa su una nuovissima alleanza tra divino e uomo?

Di nuovo, è solo il testo che fa testo.

Partiamo dunque dal titolo. Il titolo è trimorfico: Olimpia è la poesia, Olimpia è la divinità che la incarna, Olimpia è una città.

Affinché la poesia, intesa come mistica del Logos originario, come Ur-Sprache autenticamente rivelativo dell’intima essenza dell’essere, possa nascere occorre preliminarmente constatare, o forse confessare, l’inautenticità del mondo, vederne l’insignificanza e il nulla, ammettere che le sue proporzioni, simmetrie, magnificenze, i suoi palazzi e altari, non sono che ruderi, relitti, monconi: vedere, come scrive Luigia, su quelle rovine ciò che di noi viene disperso. Solo azzerando questo orizzonte saturo di vestigia storiche e culturali oramai afone, si farà spazio e prenderà corpo sottoterra, annidata come una radice nel grembo stesso di questa agonia e afonia, il soffio incorrotto, la voce pura, bianca, assoluta, ab-soluta poiché sciolta dalle scorie della condizione umana e proprio per questo capace di ripensare la condizione umana, di rinominarla, di ricomprenderla non più nella dispersione e nello sperpero di sé, ma in una forma altissima.

Questa è l’Olimpia dall’incarnato bianco, dalle pupille bianche, dal sorriso chiaro, che nasce nell’antro: il volto sbiancato nell’intangibile nulla. Immagine di assoluta innocenza, di assoluta epifania, ma anche talmente generativa da compendiare in sé non soltanto la nascita, ma la gestazione stessa: lei è la nascitura, la neonata e la gravida, è il frutto e la radice al tempo stesso, lei stessa madre e grembo, ma, attenzione, grembo che si prepara a ritornare estraneo ad ogni flutto. Poniamo molta attenzione a questo verso, a questo estraneo. Qui si insinua un pericolo. Vedremo perché.

Ma torniamo al titolo e all’Olimpia città: la città di Olimpia è figura massima di questo transito, di questo passaggio, di questa trasposizione (per inciso, sappiamo che Luigia sottintende un gemellaggio tra Olimpia e Napoli, morfologicamente, potremmo dire, omozigote): dagli albori della storia ad oggi, in lei sprofondano e concrescono rovine di templi, statue gigantesche, corone di alloro, eppure in lei si accendeva e si accende il fuoco sacro; ciclicamente dentro di lei si appicca la scintilla dei giochi cari agli dèi.

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“Olimpia”, un discorso critico a dieci anni dalla prima pubblicazione

Luigia Sorrentino – di Angelo Nitti

La morte e la poesia: Olimpia di Luigia Sorrentino

di Giorgio Galli

Al centro di Olimpia di Luigia Sorrentino (Interlinea, 2013) vi è un après-midi, un oltre. Tutta l’opera è calata nella dimensione di ciò che è già accaduto; persino il tempo è svanito ed è entrato, dopo la terribile lotta tra forze arcaiche e primordiali, in uno spazio assoluto. Il centro di questa poesia è lo svanire, il dissolversi della dimensione umana. E proprio la persistenza di ciò che è irrimediabilmente perduto stabilisce un cardine tra la poesia di Luigia Sorrentino e il mito fondatore della poesia, quello di Orfeo. Perché cos’è la poesia se non quella volontà di riportare in vita Euridice, quella fede in una forza del canto che trascenda il limite delle parole? Milo De Angelis definisce questa poesia “orfica”, una poesia che si muove oltre la vita e al di là di essa, in un continuo richiamare ombre, per cristallizzarle o per sottrarle al tempo: o che trasforma in ombre altre creature ancor piene di vita, per fissarle o per mutare un loro istante in eternità, per poi poterlo cantare.

Se da una parte la poesia di Luigia Sorrentino intrattiene un rapporto privilegiato con la morte, è anche vero che essa stabilisce un rapporto, altrettanto forte, con la vita, con il canto attivo e vitale: ciò che è passato attraverso la morte viene rilanciato in una vita nuova. Riecheggia nell’opera la rivisitazione rilkiana del mito di Orfeo, abitatore “dei due regni” -dei vivi e quello dei morti- il quale dall’unità di queste esperienze matura che il compito del poeta è nel lodare. La poesia di Olimpia, dunque, intona l’epicedio e lo trasforma in inno. Proviamo ad andare alle origini, all’aurora della poesia. Omero cantava. La parola era un suono magico e rituale come la musica, un suono che passa e si sfa: la parola sfuggente, la chiamava con uno dei suoi epiteti formulari. A quel tempo, prima che la parola fosse riproducibile con l’artificio tecnico della scrittura, essa era una merce molto rara e quindi preziosa, sacra. La parola poetica delle origini era misterica. Ma il mistero non ha niente d’astratto. Il mistero, dice Jankélévitch, è diverso dal segreto: perché il segreto è conoscibile, ma è celato dalla volontà di non svelarlo; il mistero, invece, è patente ma inattingibile, e riguarda le cose ultime. La vita e la morte sono i più grandi misteri. Non v’è nulla d’astratto in essi: solo un’inattingibile evidenza.

Gran parte della poesia contemporanea ha allentato il legame col mistero. Anche il rapporto con la morte s’è allentato sino a rendere fatua la vita. Nessuna consapevolezza è possibile se si rimuove il nulla che anticipa e chiude la vita, il mistero tra le cui parentesi sta la vita degli individui e delle civiltà. La capacità di sentire la vita s’è persa quando la società ha abolito il suo rapporto con la morte, quando ha deciso di vivere come una società d’immortali.

Diametralmente opposta è l’operazione di Luigia Sorrentino in Olimpia, un’opera non ancorata all’autrice né al mondo che abita, la cui lingua risale alle origini per imporre tuttavia una riflessione sulla contemporaneità.

Olimpia è un poema a frammenti, che consta di otto sezioni intervallate da sette brevi prose. Il lettore percepisce le sezioni come parti di una cattedrale, che con la loro struttura confluiscono in quella dell’insieme. Queste sezioni scandiscono ritmicamente Olimpia, ne segmentano e rilanciano l’impulso originario, sì che ogni tappa del suo viaggio iniziatico contiene le precedenti e le trascende, in una continua trasmutazione dove nulla va perduto.

Sezione I: L’antro

Fin dai primissimi versi ci troviamo di fronte a due esperienze radicali e complementari: il morire e il mutare. Il morire è reso con tocchi di più immediata comprensione, di un realismo magico e stilizzato: non c’è descrizione, ma elementi descrittivi; non narrazione, ma segnali narrativi. L’altra esperienza, quella del mutare, è meno apparente, agisce come sottotesto, in un bagno rituale dominato dalla penombra e da ambivalenze verbali.
Olimpia s’apre con un gesto assertivo: “lei era lì / non era più la stessa”. Questo gesto, con il deittico lì, ci introduce fulmineo ad un rito. Scopriamo una figura femminile, che sta “attaccata alle pareti”, che sta sorgendo dalle pareti come i Prigioni di Michelangelo. C’è un altro elemento in questo paesaggio d’attesa: nulla lo definisce, sappiamo solo che è un “involo mostruoso in lontananza”. Ma questa lontananza appartiene al dove si va o al da dove si viene? In quale direzione si sta allontanando l’involo?

“Lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno”. Nel momento della metamorfosi, la figura femminile inizia a esser visibile nella sua essenza: si rivela, è un soffio, ma è chiuso: spira verso il mondo, ma si rinserra. Se il moto dell’involo era ambiguo, quello del soffio è bloccato, è un tragitto incompiuto.
Il momento della metamorfosi rivela ciò che siamo, ma anche un altro momento ci rivela: quello della morte, quando la nostra storia è compiuta e non ci appartiene più. Torniamo a chiederci: a quale rito stiamo partecipando? A quello della rinascita (della trasformazione) o della morte? A ben vedere, a entrambi: il morire e il mutare sono i due volti del compiersi, ed è nel compiersi che stiamo andando. Il compiersi non ha direzione: è tutto. Non è lineare: è circolare. La morte stessa è sia il nulla prenatale, sia quello che ci attende al di là. Della figura femminile vien detto che “si rivoltava in un’altra che l’offendeva”. Questo verso è un Giano bifronte. Chi è il soggetto di offendeva? La figura femminile offende l’altra, o viceversa? Nel tempo zero in cui s’inizia il rito, anche soggetto e oggetto sono circolari.

Nel secondo frammento, un altro Giano bifronte: “enormemente udita la soglia”. Siamo dentro la soglia, siamo attaccati alle pareti, immagine metamorfica umana e minerale, viva e morta: ma stiamo uscendo dalle pareti o entrandoci? Stiamo andando a vivere o a morire? Ancora una volta, in tutte le direzioni: non si va verso il compimento, ma nel compimento. Il paesaggio rituale s’arricchisce di nuovi elementi: il “vuoto”, il “ronzio”, le “milioni di notti” che stanno innanzi a noi -o forse alle nostre spalle. La figura di lei è ritratta come una statua: ma una statua “bianca”, con pupille bianche: non colorata com’erano le statue greche in origine, ma col pallore dovuto alla mano del tempo. Dunque il tempo esiste, in quest’antro: ma è tempo dei secoli, così lento, così poco misurabile, da divenire immagine dell’eterno.

Una sola verità ci viene data con certezza: “il cuore era l’offerta”. Il rito è anche rito del donarsi. Il soffio che adesso è chiuso dev’esser liberato.

Il terzo frammento adombra un primo, quasi riottoso distacco dalla parete. Contro quella parete lei “era forma altissima”. “Il volto che l’attendeva era lì / il suo nuovo volto profondo”. Di nuovo il deittico lì. L’avevamo trovato nel verso d’apertura del poema (“lei era lì”). Ma ere geologiche sembrano separare questo nuovo deittico dal primo. L’assertività è scomparsa, è rimasta solo l’ambiguità. Dov’è questo lì? Da quale parte della soglia? Luigia Sorrentino ci getta in un universo semantico dove l’indeterminato è sia ineluttabile che incalzante.
Esso, infatti, non è immobile: un cambio significativo è intervenuto. I versi successivi dicono che “tutto stava su di lei”, e che “lei era finalmente comprensibile”: il rito inizia a snodarsi, il soffio chiuso a liberarsi: il dono può finalmente avere inizio. Ma è un inizio ambiguo: la vita sta su di lei come un peso che la opprime o come un angelo che inizia a librarsi? Non ce lo dobbiamo chiedere, abbiamo imparato che l’ambiguità è lo strumento con cui Olimpia procede nel suo compiersi.

Col quarto frammento siamo in un paesaggio diverso. È iniziato il cammino, il movimento: “quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia”. Finora il rito s’era compiuto nell’antro. Adesso esce, si estende a tutto il paesaggio, anzi crea il paesaggio con i suoi elementi; e lontani, i binari della ferrovia, con un treno che scende verso il mare. Il bosco è luogo di transito, forse di un anelito, di un faticoso ascendere: “Siamo sempre più vicini al cielo”. Ma questo avvicinarsi sembra come rimandato: il cielo non risulta lontano, piuttosto impregnato di segnali ancora indecifrabili: la nostra ascensione è un “avvicinamento carico nel vento”. C’è nel vento una voce prigioniera, che attende di esser liberata. Il vento si fa carico di un intero orizzonte di presagi. Difficile non pensare al “vento pregno di cosmico spazio” della Prima elegia di Rilke. Non siamo noi ad attendere nel vento, è il vento che si carica d’attesa.

Come i rapporti di prima e di poi, di soggetto ed oggetto, quelli di vicinanza e lontananza restano indeterminati: la ferrovia è lontana, ma il cielo è sempre più vicino. L’attesa ha creato il luogo, e il luogo il suo tempo. Anzi: l’attesa s’è incarnata nel luogo, e il luogo è tempo.
Con l’ampliarsi dell’orizzonte, anche il verso si fa più disteso, meno lapidario. Il dilatarsi del paesaggio è reso con un dilatarsi del tempo del verso: un procedimento che, ancora, richiama Rilke.
In questo orizzonte più ampio, nell’avanzare attraverso il luogo mitico, si avanza anche nel rito:

il volto si profila
il volto che siamo stati è istintivo
incarnato nel rito che si consuma qui
nella consolazione siamo venuti
mutarono i suoi occhi quando chiese
la vita eterna
la sua giovinezza si spense
divenne una cicala
poi solo una voce, un soffio
divenne

Questi versi connotano una trasformazione che è anche un’eternizzazione: si diventa ciò che si è. Dall’essere senza sapere di essere (“il volto che siamo stati è istintivo”) si passa all’essere consapevoli. Ancora troviamo un deittico, qui: ma qui dove? Dove si consuma questo rito? L’atmosfera è la stessa della caverna, eppure c’eravamo mossi verso il bosco. L’unica risposta è che il rito si consuma dentro la poesia. Inutile domandarsi dove Olimpia avvenga: essa avviene in Olimpia. Ma qual è l’avvenimento di Olimpia? La parola chiave, isolata in un unico verso, è l’ultima, divenne. E cosa si divenne? Una voce. Ciò che resiste allo spogliarsi di tutto è la voce. È la parola, messaggera fra le epoche, messaggera tra i vivi ed i morti. La parola è l’arché. E la voce può appartenere a chi subisce il rito o a chi lo celebra: non importa. Siamo abituati alla circolarità di soggetto e oggetto in Olimpia.
Piano piano il paesaggio si disincarna, gli elementi si diradano. “Siamo sempre più vicini al cielo”, si ripete. Poi

come grembo che si prepara
a ritornare estraneo ad ogni flutto
nell’uliveto deposto ogni possesso
lei chiese
sul lago conducimi con te

Il mondo da sensibile diviene interiorizzato. Il grembo interiorizza i flutti e diviene loro estraneo. È l’istante della conoscenza. “Deposto ogni possesso” la figura femminile, che nel dono si fa sempre più comprensibile, dice: “Sul lago conducimi con te”. A chi è rivolto quel conducimi? A un’alterità. E non ha l’aspetto di un invito: sembra piuttosto un comando, un Fiat lux. La parola di lei ha creato l’altro col semplice rivolgerglisi: è la parola di Orfeo, che crea Euridice per aver nominato Euridice. La parola poetica. Il bisogno che lei ha di donarsi ha creato l’alterità.

La sezione si conclude con una prosa intitolata La città. Qui compare finalmente un “io”. Finora c’erano stati il “lei” e il “noi”: il “noi” indispensabile a stabilire l’orizzonte del rito (perché il rito è sempre collettivo), e il “lei” soggetto e oggetto del rito. Ora si oscilla fra un “io” e un “noi”. Ma chi li dice? “Io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante… comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per essersi così improvvisamente aperta.” L’altro, appena creato, è unito a lei da un destino. L’alterità è tutti, è la città. Come in una Genesi allo specchio, lui e la città nascono da una costola di lei, dal suo bisogno di donarsi.
La parola di Olimpia è spoglia e oscura come la parola liturgica. Niente artifici retorici, nulla d’estetizzante. C’è però un ritmo. Il ritmo è indispensabile al compiersi del rito. L’apparizione della città è contrassegnata da un improvviso distendersi del ritmo: dal verso si passa alla prosa. Siamo ad una stazione del rito, e a segnalarla interviene un cambio nell’ordine musicale del poema.

Sezione II: L’atrio

Se la prima sezione era un continuo, germinante movimento di radici, un mutamento incessante e faticoso, la seconda ha atmosfere più drammatiche, più evidenti chiaroscuri:

il sole alle spalle cancella
i nostri volti
veniamo da troppa lontananza
lungo questa discesa
nel porticato
altre colonne ci avvolsero
con le loro braccia

L’ingresso all’atrio è un atto decisivo, ma non una cesura. Il sole è alle spalle, ma è. Nell’orizzonte di Olimpia, il passato non passa: è una forza che continua ad agire. “Veniamo da troppa lontananza”: veniamo, infatti, da tutta la storia della poesia. Se l’arché è la voce, la voce che dice e che crea, quello che stiamo attraversando è un paesaggio culturale, un deposito di memoria che salda le diverse epoche storiche. Come le rose del bosco erano tutte le rose cresciute dall’inizio della terra, ora le colonne sono tutte le colonne di tutte le città. Il morire, il mutare non sono più dimensioni individuali: sono collettive, storiche e mitiche. L’orizzonte della lirica si salda a quello dell’epica.

Nei frammenti successivi è celebrata la lotta dell’operare umano contro la forza caducizzante del Tempo. “Enorme il tempo appoggiato / ai muri”. La trasformazione da cui siamo venuti non s’è fermata, la storia va avanti. Ma a noi interessano i depositi di storia, ciò che rimane dopo il passaggio -anche calamitoso- del tempo. La pietra trasformata dalla fatica umana presenta i segni del tempo, ma è solida, è pietra. Pietra tombale, ma anche manufatto che resiste al tempo, e perciò è imperituro. In quest’immagine l’essere umano non c’è: parla per lui il frutto del suo lavoro, che gli sopravvive. Il paesaggio che attraversiamo è un paesaggio da cui la vita è estinta. La natura è fossile, anche i manufatti umani appaiono come fossili: se si muovono, sembrano mossi da forze non più nostre. Ciò che sembra vivo è il “suono” della roccia. Ancora, ciò che rimane è una voce: voce liturgica prima, della natura adesso. L’opera del poeta sta tra la natura e il divino, è oltreumana, non più solo umana. Un monte nel paesaggio adombra la presenza del divino.

restammo vicino a quelle case
apparivano come in un disegno infantile
dai muri risalivano
statue di divinità femminili

L’elemento del paesaggio (le case) si precisa in un segno: un segno stilizzato, quasi un disegno infantile. La figura femminile si moltiplica: prima era apparsa in un pallore di statua, ora si precisa in una serie di statue. Queste statue non hanno perso il contatto col muro che le aveva originate, ma lo “risalgono”. All’inizo del cammino avevamo trovato un sentiero in ascesa (“Siamo sempre più vicini al cielo”) e un treno che sprofondava. Anche le statue partecipano di questi moti verticali. Come quella nella caverna, anch’esse sono bianche: sono le statue antiche quali sono arrivate fino a noi, e non com’erano in origine, sfolgoranti di colori. Per quanto perenni siano i prodotti della Bellezza, il Tempo vi ha steso la mano.

“Fummo dotati di forza sovrumana”, recita un altro frammento, ed elenca una serie di lotte, di prove che l’uomo ha dovuto attraversare – per cosa? “Siamo tornati per scomparire / intorbidare il fondo”. Come i resti fossili, come le colonne e le statue di cui resta la traccia possente, noi “intorbidiamo il fondo”, cioè lasciamo un segno che incrina la superficie culturale dello spazio-tempo: il nostro destino è sparire e scolpirci nell’eterno. Non siamo noi a godere della nostra opera: essa si adempie negli altri e in altri tempi, nel tempo oltreumano della storia degli stili.

L’atrio si chiude con l’evocazione di una soglia (anche qui, come non pensare alla soglia delle Elegie rilkiane, consumata dal passaggio degli amanti?). Quella soglia che ne L’antro era “enormemente udita”, qui nel vestibolo prende una fisionomia sconcertante: è la soglia oltre la quale ognuno diventa tutti. Ne L’antro non conoscevamo il contenuto di questo enorme udire; ora l’apprendiamo:

poi qualcosa chiamò
precipitata e muta
lasciò che altri sapessero

-siamo colui che se ne va
abbiamo le sue gambe
le spalle, l’incedere veloce
la traccia del saluto
siamo colui che sprofonda
a un passo da noi-

Superare la soglia significa identificarsi con tutti, con tutte le morti, le partenze e gli addii, con tutto il morire il mutare e il decadere -in una parola, con tutto il dolore dell’umano. Si diventa tutti, si partecipa al dolore di tutti.

Bella e drammatica questa seconda parte, con opposizioni grandiose ed esplicite, e con quel germe di riscatto umano che sgorga da un paesaggio desolato. Bella per il “noi” che sorge e s’afferma nel discorso, poi nelle immagini, poi in un abbraccio universale che nasce dalla stessa storia umana. È una testimonianza anche civile quella offerta da Olimpia: dalla consapevolezza dell’enorme storia umana non può che nascere l’abbraccio fraterno di tutti gli uomini. Capiamo perché Luigia Sorrentino abbia scelto Olimpia, e la civiltà greca, per il suo viaggio alle radici della poesia. Non solo per andare alle origini. È che la grecità sentiva la funzione collettiva, corale della poesia, cui dava un posto nella vita della polis. Era un operare per la polis la poesia, un agire. Il “noi” di Olimpia è un “noi” da coro di tragedia. La poesia non avviene fuori dal tempo: avviene in tutti i tempi. Avviene in una civiltà estetica, ed è chiaro che l’autrice avverte una responsabilità verso la storia della bellezza, ch’è anche storia della civiltà. Una parola esatta o sbagliata aggiunge o toglie qualcosa alla storia della bellezza che è la storia umana. Olimpia non ha nostalgia della civiltà estetica. La cerca, la fiuta. Non ne cerca il ritorno perché essa è in tutte le epoche. Ne cerca i segni. Continua a leggere

Fernando Della Posta, da “Ricostruzione delle favole”

Fernando Della Posta – Foto di proprietà dell’autore

Tuscania

Alte torri come grida sul paesaggio,
massicce, che si perdono prima del cielo,
affermano con forza d’esser figlie
anch’esse della genia testarda.

Ma nel silenzio assolato del lago
ritrova la sua statura e cresce,
con rinnovati passi d’atleta,
l’espunta latitudine di cuore.

*

Nei tempi dorati in cui bambino
venivi avanti dall’informe, santi
eroi fissati per l’eternità
al culminare dell’ultima danza,
segnavano il sentiero dei viventi
ed anche il tuo confuso tra di essi.

Le casipole conchiuse in un nugolo
fatiscente, sorprese dall’arcangelo
a rincorrersi sul colle, celavano
famiglie attorno ai fuochi alimentati
dal respiro delle numerose proli.
L’illusione era che ogni cosa fosse

al proprio posto.

*

Quando la luna è alta e illumina il lento
sonoro brusio delle stelle, tu
dannato allo specchio cerchi uno stile,
la cifra, ma il simile cui non somigli
deride, diffida, ti cuce addosso
l’insignificanza, la tragica commedia.

*

Kalì la terribile non è la donnona impulsiva
e sgraziata tramandata dai Veda, ma è la media
che sfronda con passo meccanico, è la falce
che tagliando uniforma gli esemplari migliori.

Suoi segni le melodie ticchettanti,
il lento fluire del fiume che addormenta,
il cigolio del cancelletto che chiude il recinto,
l’agnellino trovato sbranato nel gregge.

Cadere quietati nel suo grembo condanna
la tribù alla stasi. La fine delle cose
già ferme ha un suono dolce.

*

Spezzare le catene

L’opacità refrattaria della vita irrisolta,
il ripetersi di ossessioni psichiche
come braccia vive staccate dai corpi.
Dimenticato il torto scatenante,
in queste case infestate s’aspetta
il singolo atto d’amore
che spezzi la catena dell’errore.

 


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Cristiano Poletti, poesie

Cristiano Poletti, foto di proprietà dell’autore

Una persona

 

Dalla luce, dal tempo
sei qui
tornato
nella fiamma
di chi ti ama e ti amò. Ti amò
la polvere dove sono,
dove s’inseguono e rivivono
la quercia e il vento di un pensiero
stretti nel rettangolo del giardino.
Torni e hai con te il mattino,
il nuovo inizio di una casa, questa
sullo sfondo, e dentro
sei nella pendola ferma che tiene,
ha trattenuto in silenzio il silenzio
delle mani, l’umiltà delle vene.
Tu canti adesso
una canzone di puro mattino.
Il catalogo delle finestre sulla notte
tanto aperto si è chiuso.
Istante della voce, voce del sempre, lettere.
Mandate lettere al loro indirizzo.
Lì chiara l’anima tornò.

 

 

La consegna

 

Nelle tue mani consegno il mio spirito,
endecasillabo
di chi ha sentito
un giorno venirgli al naso un odore
d’ansia, era amore.

Chiuso in un inverno fu il giorno che
la stanza si strinse, pungevano
la mente e il polso: a chi
consegnare la morte?

È in luce che ci giudica la terra,
adesso è chiaro. La consegna è un’altra,
altro il tema: non negare il tuo
corpo sul corpo dell’altro. Il tuo stesso
spirito te lo chiede.
È così che due uomini si tengono.

La consegna.
Il Professore aspetta.

 

 

Altitudine

Le avevo detto non andare giù. Nove, diciotto gradini, non andare. Dove sei? Alzo la voce, dove sei? Vieni su. E non torna, non torna. Pensare adesso: non dovevo. Ha sempre fatto tutto, lei. E ora è il tempo delle confessioni, dire non ce l’ha fatta, non è riuscita.
La caffettiera intanto qui va sempre, e il male prosegue. Una macchia di tutti i sangui è sul balcone. Siedo su questa poltrona di velluto dove ho immaginato una grammatica, uno spartito, il posto dove ho immaginato di finire.
È così che ti penso, ancora dentro la casa. Fuori è quasi Natale, c’è la nebbia che stanca gli uomini. In un’ostensione aspetto che venga fortissimo il vento. Anche un giorno soltanto. Chi ha gridato nel vento sa. Faccio un respiro, grande.

 

 

Lettera a Helmut

 

Berlino, 17.08.1962

 

Caro Helmut,
non dolertene.
A questo corridoio
abbiamo dato corpo. Non dolertene
se il corridoio è stato stretto tanto
per te da chiamarsi vita, e per me
morte. Non piangermi.
Già occhi di cemento hanno risposto.
Dai un bacio a Lotte.
Correre dentro
la sfortuna di un venerdì 17
è stato un salto del sangue.
Ala, finestra, ghiaia.
Una storia, una striscia
di storia. Respiravi insieme a me.

Ti abbraccio,

Peter

 

 

Storia

È stato lui, il ragazzo che è entrato. La vita adesso affonda nel cuscino. È entrato nel giardino, una volta. È stato amore anche così. La terra, il suo tenerci in silenzio, quella sacca di male che esiste. Uno poi cerca la cura, non si spiega lo sconcerto. Che poi è stata la brina, il ghiaccio mai più rivisto, il sorridente andato. Non distante c’è il canale della Muzza e qualcuno nel suo andar via.
Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti.
Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.

Da Un altro che ti scrive, libro inedito

 


Nepal, una foto di passaggio

Lingua di terra inarcata
verso l’altare nella sua luce grande
Himalaya svettante su
una città di polvere, fumo.
Da qui sopra
in foto le cime sono a fuoco,
vaste agitate nel cielo. Non altro
lì si tende, è il filo tra nessuno e niente
in libero cielo.
Sotto ecco gli uomini invece
strozzarsi voce su voce con tutto
l’affanno di tutta la polvere alzata.
Vanno in odori e sputi, e i loro spiriti
evitano le cose che non passano.
Paiono da lontano dirci
che in una cronaca perdono il nome.
Sì, lo dicono
a noi contemplativi
ma a loro così somiglianti
qui in alto nei nostri dissesti.
Vorrei dirvi
oltre il fardello che viviamo
oltre il massacro che vedete
che sempre
da un loro contorno morto ritornano
come restituite le parole.
E ci toccano
insieme al miracolo della voce
i segni immaginati dentro i testi
e i corpi delle montagne.

 

 

Passando a Melville, una parafrasi

Dardeggiante lontano il sole e il vento
assente, per la nostra rotta
cammina sulla vita e sulla morte
un velo immenso di nebbia leggera.
Ripeterà qualcuno, scriverà
di nuovo cosa fu il mio viaggio, cosa
questa caccia senza cattura, fu
un argenteo silenzio, non una solitudine.

 

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Stefano Bottero, da “Notturno formale”

Stefano Bottero © Nerina Toci 2022

è troppo tardi per tornare a casa.

obliterare
vestiti per gioco come segnalibri
rimandare il momento in cui ti spegni.

mi toglierò il ghiaccio dai capelli,
ti dirò che il corpo non significa niente.

 

*

 

drogarti solo per capire
le ragioni i cani che hai smarrito

nell’inutile che avevi – dentro

carie
che ti tengono sveglio.

adesso – è una gara di resistenza.

leccarti

per indicarti dove sono le mie ferite.

 

*

 

trascurare l’urgente

 

gli occhi socchiusi –

recepire l’alcohol come chiavi di casa il canto

delle iene

la vita breve dei tuoi accendini.

 

*

 

io non ho più mani.
fretta

di camminarti in gola come
scale – quando è tardi
rame

sottratto ai cavi.

Bianca – il tuo sangue non ha direttive
domani non c’è.

 

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Gino Scartaghiande. Il luogo della Storia

Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero e proprio evento.

A distanza di ben oltre quarant’anni viene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti di Gino Scartaghiande. E non si tratta di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità.

Appunti sui “Sonetti” per Luigia Sorrentino
di
Gino Scartaghiande

King-Kong è come suono onomatopeico, è un rullo di tamburo,  l’incontro con il fenomeno stesso dell’ispirazione in tutta la sua complessità che ti piomba addosso come qualcosa di feroce e al contempo dolcissimo ma con cui devi comunque combattere, un po’ come la lotta di Tobia con l’angelo. E l’arma con cui condurre la battaglia non è altro che il verso e la sua specifica forma.

Nel mio caso “sonetto” è inteso proprio come “piccolo suono”, sia quale consapevole minus rispetto alle sue più alte forme espresse nelle civiltà del passato, sia quale aspirazione, nonostante tutto, ad esse. Ma realisticamente, abitando noi la catastrofe del moderno, non ho potuto che riformularne l’essenziale sua prima origine proprio nel contrasto con il monstrum del disforme, così come aveva già fatto Giacomo da Lentini nei confronti del mostro polifemico e dell’epicureismo di Federico II, ma nel contesto di uno straordinario momento di civiltà letteraria siciliana.

La forma nasce sempre da un simile contrasto, così come ogni virtù si entifica sempre a fronte di un male che si è riuscito a vincere. Una tale dinamica presuppone l’aver occupato di già zone sotterranee ed infere dell’essere, in un ingrato lavoro a tentoni, dove si è ciechi come una talpa. Senza questo lavoro dalle sue fondamenta, ogni forma è solo di superficie, ovvero mistificante. Modigliani per erigere i suoi immortali “pilastrini di bellezza”, sprofondava nel sottosuolo della metropolitana di Parigi, da cui traeva i suoi massi, la materia su cui lavorare, e che egli riportava all’essenzialità di un koùros cicladico, non senza la riverberante presenza del dio extra-olimpico Apollo già proveniente dal deo Marduk di Babilonia.

Tra le fondamenta dei “Sonetti” da cui ripartire c’è in primis il luogo della Storia e della violenza perpetrata in suo nome; e io, nel primo poemetto del libro, riparto proprio dall’assassinio di una donna, Rosa Luxemburg, la cui morte rivivo sul mio stesso corpo. Ma è tutta la storia fantasmatica delle immagini in cui siamo immersi nella nostra modernità – lèggi film, romanzi, canzonette, telefilm, spettacoli d’intrattenimento – a costituirsi quale luogo che uccide la donna.

E questo perché un’immagine ineffettuale, dove non si attua cioè l’effettualità della poiesis, è mitica, e il mito, per sostentarsi, esige sine qua non il sangue delle vittime. Quando Rossellini gira Roma città aperta uccide davvero Anna Magnani, l’ha già tradita alle spalle. E questo perché Rossellini non paga, effettualmante, con un proprio personale sacrificio, il prezzo del mezzo che usa, o per dirla con l’antichissimo poeta   latino Lucilio, non sa più cosa significhi praetium persolvere quis in versamur, ovvero saldare il debito per le cose che si usano. E questo vale tanto più per l’arte, come con il loro sacrificio intenzionale ci hanno poi di nuovo rivelato

Pasolini e Troisi. E tutto ciò perché, come viene a dirci Pietro Tripodo in un suo saggio del 1995 pubblicato nel collettaneo La parola ritrovata, “Già il mondo delle immagini, con maggiore nostra passività, seleziona il luogo e il momento della più grande atrocità, del più grande oltraggio”.

Gino Scartaghiande, foto di Dino Ignani

CITTADINI DI UN REGNO CHE VA SCOMPARENDO

La prima ispirazione per quella che sarà poi la Gerusalemme liberata, un Tasso fanciullo l’ha avuta proprio durante le visite all’abbazia benedettina della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, dove aveva soggiornato Urbano II, il papa che indirà poi la prima crociata.

Dacché il nostro bellissimo Regno delle Due Sicilie è stato annesso in un sistema non eudemonico, ovvero infernale, e con tanto di mafia al seguito, quale è l’odierno Stato liberale – ma tale annessione vale per tutta l’Italia, dalla foscoliana Venezia alla Napoli di Vanvitelli e Ferdinando Fuga; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla allo Stato Pontificio – noi siamo ormai cittadini della diaspora, di un regno che continuamente va scomparendo.

Questa scomparsa però non è una perdita, ma il giusto avanzamento verso quello che è il vero fine di ogni civiltà: la sua definitiva uscita dal mito, lasciando al suo posto una traccia di splendore.

Questo è quanto ci hanno trasmesso gli antichi regni scomparsi, e soprattutto la Grecia, allorché il suo primo re storico, Teseo, libera quei giovani dal Minotauro, alias dal labirinto del mito, vuoi anche dal mito del successo, portandoli a nuova vita. In questa opera di liberazione, è tutta la tradizione e il nostro vero rapportarci ad essa.

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Lorenzo Chiuchiù. Il ritmo essenziale della poesia

Lorenzo Chiuchiù, foto di proprietà dell’autore

Appunti per una poetica
di Lorenzo Chiuchiù

Sfamalo pure come vuoi,
il lupo volgerà sempre gli occhi al bosco.

M. Cvetaeva

I.

La poesia è lo spazio in cui la massima potenza analogica e visionaria diventa ritmo e senso.
La poesia ha sempre a che fare con una rivelazione – può essere un caos che per un istante si cristallizza in ordine, oppure il crollo netto, verticale e assoluto di un cosmo, può essere una morte che compie un destino o la disperazione della parola impossibile.
La rivelazione può passare per l’udito– si percepisce un ritmo che esige delle parole. Il poeta cerca versi capaci di restituire il ritmo essenziale che scandisce il battito cardiaco, il rumore delle onde o la musica delle sfere.
La rivelazione può passare per l’immagine che irrompe nella neutralità o dall’insignificanza di una miriade di altre. L’immagine cardinale di una poesia è una specie di sole che attrae altre immagini, facendole orbitare.

La versificazione è il tentativo di restituire un ritmo essenziale attraverso le parole che si scelgono per incarnarlo; è il tentativo di trovare corrispondenze e gerarchie tra un’immagine sovrana ed altre che si riconoscono consanguinee.

II.

La poesia è un’esposizione alla dismisura, al daimon, all’angoscia, all’entheos. Esposizione che implica una temperatura.
O il pathos greco, l’ardore vedico: la “mente accesa” vede disunito ciò che è in apparenza comune e riconosce il simile nell’estrema inimicizia. Queste sono le potenze che definiscono i poeti del fuoco.
Ma esistono anche poeti glaciali, guidati da una sublime e spesso disperata lucidità. Mallarmé chiedeva alla poesia la spiegazione orfica della terra: una spiegazione – uno sguardo definitivo e raggelato – sulla discesa nella morte, sul riconoscersi, sul destino.

III.

Mi sembra che la grande poesia infranga un interdetto percettivo.
Spinoza diceva che gli uomini possono solo concepire l’extensio (qualsiasi ente fisico) e la cogitatio (qualsiasi pensiero, immaginazione, sentimento). Le due realtà sono attributi dell’infinito: gli uomini non possono abitare che queste. Ma, continua Spinoza, ne esistono infinite altre. Infinite altre realtà che eccedono le possibilità percettive degli uomini.
Impossibile, per Spinoza, fare esperienza di qualcosa che oltrepassi lo spazio fisico e quello proiettivo della sfera psichico-mentale.
Ma la poesia è forse un terzo modo della percezione: il daimon, l’enteheos, la divina mania, l’archetipo, il nulla dell’angoscia sono realtà che eccedono sia la fisica della res extensa che le proiezioni della res cogitans.

Ne La teoria dei colori di Goethe c’è un’intuizione che mi ha sempre colpito: la luce crea l’occhio per vedere se stessa. Con la poesia accade qualcosa di simile: la poesia vede se stessa, si riconosce, solo attraverso singole opere. È come se alcune opere – e parlo dei capolavori della tradizione poetica – non fossero che l’estensione dei modi della percezione dell’infinito.

TESTI

Tradurre, innalzare

Porterò questo bicchiere di cenere
e un dizionario di pagine bianche
annegate nella luce fino a scomparire
e sarà la notte siberiana, la pietra grigia
della muta che caccia, il vento.
Mi dici che alla salvezza hai opposto
l’arteria di luce
e che non importa altro.
Hai aperto il dizionario e
le stelle grezze hanno spezzato
la dinastia del giorno,
da allora sei sangue nero e sempre.

***

Nella luce a strapiombo
il muscolo lacerato –
e io sono oltre
le onde cardiache del fuoco,
ben oltre la sinistra che ha
scritto nome e iride,
e indica il punto, nella pagina,
dove i diari impazziscono.
E la porta mi guarda:
la pupilla è la mia, mia
la notte salvata:
sta immobile e chiede tutto.
Questo falò, alla fine, sarà stato
e ne ricorderai ogni lingua,
perché non hai che questa.

***

I templi che furono abbandonati
ritornano innocenti
ritornano nelle rose
e per la mente, ma tu non dici:
scrivi sui petali, disperdi i nomi
e la creta: ora chiudi gli occhi, cuci le vene,
chiama l’addio;
chiama i coltelli e la luce
finché non saprai che questa è l’ora,
è solo questa,
e nessun grido per battesimo,
nessun battesimo nella vertigine:
benvenuto nella febbre del patto,
la caccia è iniziata.

***

Non abbiamo incontrato
che l’altra vita,
quella che ha scavalcato
la grandine che ferisce la rondine,
le sillabe e l’arca.
E ora è qui
nella resistenza della lampadina,
nel suo lampo raggelato
e miniato.
Gli elenchi sono bruciati,
non trattengo il respiro –
ho in mano un inizio.

***

Il risveglio e le tenebre furono
prodigi e asfodeli –
rue du Calvaire è cosparsa di sale
ora una puttana e il Sacro Cuore
invocano le tre di notte,
la primizia e l’azzurro slogato:
ho inventato le rughe e chiuso gli occhi,
ho reciso un nervo e evocato il nord,
ho gettato la sorte:

i magneti ronzano nell’oro del mosaico.

***

La stanza febbraio è ancora
la nuda correzione del fulmine –

possediamo il foglio che separa
il bianco dentro il bianco
ed è nostro anche se niente è nostro.
Abbiamo colpa e fuoco cardiaco –
e correremo. Abbiamo trattenuto il fiato:
una due dieci volte, una unica e solitaria
la notte– e respireremo:
sua è la stella ascetica.

***

Forse il latte o i simboli
forse in disparte la comune
notturna parola intesa
che infuria sotto la mente:

ti sei svegliato e hai sognato
e hai portato la notte fin dentro
le creature: chiedono una
pagina nell’invisibile
un sigillo spezzato di netto:
nessun prima, unico il dopo

e ora segmenti, gli occhi bene aperti,
le rivoluzioni, le figlie, le varianti.

***

È sempre il febbraio delle carte decifrate –
anche per un sasso che affonda nella neve
mentre tu ritorni dal lavoro e dal presente:
ma tutte le menti amate sono sconfitte e gloriose
perché, guardami, i cieli sono tutti scritti,
feriti a morte e ancora sacrificati, come soldati.

E dall’altra parte piove –
dovremo dividere pane e terra,
finché non saremo pane e terra.

***

Il diaspro che troverai
ha facce trafitte, tutte le direzioni
convergono ipnotiche
e in potenza: e ti chiedono –

ma tu hai una benda da strabico
e mentre l’irrazionale brucia il campo,
le sterpaglie, già vedi la terra atra,
lo specchio dell’eclisse che resta –
eppure la storia è la sezione
e noi, cuore siderale, la verticale. Continua a leggere

Luigia Sorrentino. La pietà dello sguardo

Luigia Sorrentino (foto d’archivio)

Recensione di
Giancarlo Pontiggia

Inizia con una citazione plutarchea il nuovo libro di Luigia Sorrentino: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio». E «naufragio» è forse la parole-chiave per interpretare questo libro doloroso e tragico, che parla di giovani vite perdute in spirali di violenza e di degrado. Lo sfondo è una Campania infera, riconoscibile da qualche minimo tratto, ma che sembra precipitare ad ogni verso in un tempo arcaico, scuro, sacrificale. E «antico» è epiteto che si ripete spesso, nel libro, quasi a indicare un fatale avvicendarsi di storie e di destini: antico è il silenzio (p. 22), antico l’adolescente (p. 27) che si avvia alla sua fine; e antichi sono anche «amore» (p. 38) e «cuore» (p. 93).

Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele editore, Pordenone, 2021, pp. 102.

Si sarebbe tentati, leggendo, di assegnare alle zone in prosa, che si alternano ai versi, gli aspetti più realistici e crudi della rappresentazione: ma si capisce subito fin dalla prima di queste prose, come la morte dei due ragazzi venga descritta sullo sfondo di un rituale cosmico (presenze costanti della raccolta sono i nomi della «notte», del «cielo» e dell’«oceano») dai motivi dionisiaci (lo sgozzamento della capra, il ritmo frastornante della musica, lo smembramento, l’ebbrezza), motivi destinati a propagarsi per l’intera raccolta: «– È nel dolore totale –. Non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo. L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata. Porta automaticamente le mani sui genitali per difendersi da gesti che offendono. Nelle sorsate d’alba il midazolam somministrato con l’ago esala nella vena. Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza alcun ricordo. La morte dei giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (p. 13).

La tensione realistica dei quadri e il ritmo franto della descrizione sono soggetti a una forma di drammatizzazione scenica, segnata dalle pennellate espressionistiche delle scelte lessicali. La notte, qui come in numerosi altri passi del libro, sembra allearsi con le presenze scure e ctonie della vita, con il sangue che nutre la terra e l’asfalto. Realistico è il dato iniziale, che viene però subito investito di un simbolismo acceso e traumatico, spesso esaltato dai contrasti cromatici («neve»-«sangue»), come già nella poesia d’esordio: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero // l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé // nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (p. 11). Il tema della solitudine, su cui si chiudono tutte queste vite, si scontra nondimeno con una dimensione di coralità diffusa, spesso sottintesa.

La ripetizione a distanza di tratti e termini, spesso legati al corpo e in particolare al volto (pupille, narici, occhi, cranio, bocca, capelli, nuca, denti, orecchio, gola, labbra, voce, orbite, iride), risponde a un’esigenza di ritualità, più che di formularità: siamo nel territorio del tragico, non dell’epos, cioè nel territorio in cui tutto si è ormai consumato. Un tempo assoluto che può richiamare per analogia quello del mito, entro il quale la dimensione del quotidiano e del reale acquista un suo significato nuovo. Il dramma si ripete, perché solo in questo ripetersi – in questo poter essere rappresentato – trova una sua verità e una sua cadenza espressiva. Anche per questo la raccolta si distende in un unico movimento, privo di divisioni e di sezioni interne: non c’è, in queste storie, un prima e un dopo, ma un unico, circolare fluire in cui la cronaca sprofonda subito in evento, in qualcosa che era già accaduto.

Lo stile costeggia – anche per l’espansione orizzontale del verso – la nudità del referto, ma un referto che si dà in una lingua di alta densità metaforica, e che sembra ogni volta precipitare, nella concitazione delle immagini, verso una chiusa necessariamente sentenziosa: «poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole» (p. 53); «morivano gli occhi / nel soffio della vita» (p. 58); «nella decomposizione / tutto il nostro destino» (p. 60); «deborda, cola sul pavimento / la tenebra» (p. 67); «sei entrata dal fondo, sei tornata / in un paese morto» (p. 69).

“Piazzale senza nome”, disegno di Giulia Napoleone, maggio 2022

Libro ossessivo, martellante nel ritmo delle immagini e dei pensieri, dominato dalla presenza della morte e del male, Piazzale senza nome è un libro senza ristoro e senza conforto («una storia cruda senza atti di grazia», p. 47), ma anche un libro fondato sulla pietà dello sguardo e dei gesti, come nella poesia intitolata Quando hai smesso di respirare: «l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde / dita sorreggono la testa / da dietro, la tengono dritta // ti chiudono gli occhi / la bocca estrema / ha bevuto l’oceano» (p. 88). Continua a leggere

La poesia di Giovanna Marmo

Giovanna Marmo, foto di proprietà dell’autrice

Intorno al nostro sonno,
per giorni e giorni.
Camminando da svegli.

La metà che parla

Insetti, piccoli pesci.
Larve sul tavolo. Mobile,
sotto la stessa luce.

Sotto la stessa luce
io dormo, tu vegli.

Le gambe poco aperte.

Una frase si forma,
senza quello che
avviene.

Sonno,
imbuti di sabbia.

Vieni con me, sedia
metà quasi muta:

non sembri nemmeno
riconoscermi.

Fuori dall’acqua
siamo linee
inclinate.

Solo la pioggia

Il cappotto viaggia nell’ombra,
una mano abbandona un braccio
sinistro. Lentamente

in uno spazio disabitato.

Oltre i cristalli
i tronchi fumano
odorano di carne.

La pioggia racconta
una storia. La testa cade
sulla spalla-ali di sonno.

Automobili galleggiano,
non si sa dove.

Una scarpa affonda.

L’acqua scorre
nella pianura vuota.

 

La testa capovolta

Vetro-piombo,
la luce cade

fuori di me.

Nella retina una testa,
capovolta parla: perché io?

Le braccia strette
lo zaino, lo sguardo

su, verso le finestre
cieche.

Chissà che tu nel sonno
non veda il mio volto.

Lunghe code dividono
le quattro pareti del cervello.

Continua a leggere

Giorgia Esposito, da “Smarginature”

Giorgia Esposito, Immagine di proprietà dell’autrice

Quanti cedimenti alla banda,
l’uno che vuole essere parte
ma non gregario, l’infelice
nel suo diaframma di senso,
il gesto che tradisce l’esilio.

Cosa caverai dal nucleo primo?

Qualcuno sta cercando i suoi,
il non ritorno, il bacio sulla fronte
del padre, il mondo-schermo,
questo tempo tutto da schiarire.

*

In quale pozzo fu benedetto, gli chiedo
sfiorando con paura l’assenza del mito,
il non approdo in cui si inarcò il vagito.

Per le lunghe scale è l’eco la dimora
dell’orco, e più su la campana cinerina
dell’infanzia, l’odore acre del limone –
incredibile credersi salvi.

Tu respingi le due braccia tese
nello sforzo di separare i lembi.
Tu vuoi l’intero nella crepa. Continua a leggere

La poesia di Dario Nicolella

Dario Nicolella

FERITE

Devo dirti grazie
per le bende che hai avvolto
della tua pietas crocerossina
sulle ferite in-tagliate
piagate ustionate
Lasciami però aperti gli occhi
perchè vedano albe e tramonti
questo buio mi ferisce ancora
mi tormenta come un coltello

(da TRENTA POESIE PER RABARAMA,2014)

OMBRE

Ti vedo non ti vedo
forse ti intra-vedo
no
era soltanto ombra lunare
un grigio riflesso argento siderale
niente nessuno
nulla di fatto
il nulla fatto persona

(da POESIE DELLE CENTO LUNE,2017)

PAPAVERI

Ebbene sì sono fiero
di essere cresciuto come un fiore
che immediatamente muore
nella temeraria mano di chi
lo strappa al campo
pur di sottrarsi a una vita senza scampo
e non marcire lentamente in un bel vaso
effimero ornamento
in un appartamento

(da POESIE PSICHEDELICHE,2019)

FLOP

Sono come l’acqua
corro scorro
dilago
di lago in lago
non mi volto mai indietro
non mi tiro mai indietro

Sono goccia d’acqua
dentro doccia d’acqua
plop plop
plop plop
plop flop
fino al prossimo flop

(da I CERCHI/ Poesie col flash,2019)

NON CONOSCO L’ATTIMO

Non conosco l’attimo
in cui un sasso
mi frantumerà il vetro perciò
lascio sempre aperte le finestre
così da spalancare
il mio libero spirito
alle correnti dell’amore

(da UN ALTRO GIORNO SU NEL CIELO/
Poesie in viaggio con l’anima, 2021)

Dopo l’ esordio poetico con L’ARPA DEL CONNEMARA che risale al 1993,e un lungo periodo come autore di saggi su tematiche storico-artistiche (I cento chiostri di Napoli, Le cupole di Napoli.Le strade di Salerno) e mitologiche (Partenope la sirena, La leggenda di Palinuro, La luna dal mito alla conquista) Dario Nicolella (Napoli,1956) ha da qualche anno riscoperto una nuova e inattesa vocazione poetica che ormai si affianca stabilmente alla sua professione medica.

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Alfonso Guida, da “Il Tassidermista”

Scrivere non è ricevere lettere.
È ciò verso cui lancio un destino.

I VOLTI LA SCRITTURA

Quello che chiamo Dio
è la non ignoranza di me.

L’orfano va per cardi.
Le capsule di cianuro in bocca ai bambini nel sonno.

Quello che chiamo Dio
è uomo che scende
dove rimane
tra l’inciampo e l’indulto, dove
nullo è il soffio e l’involarsi
dei primi fischioni.

Scrivi: fuoco e fune sul tetto.
Scrivi: inevaso.

LUCO

Alle bandiere fredde
di febbraio il tempo si ferma e trincano
tutti. le brocche e i bicchieri si svuotano.
I doni sono tracce di occhi.
Altri doni sgombrano il tavolo e noi abbiamo una
visione calcinata, un biancore scheggiato di fossili.

Torna, imperante, l’ombra,
la parola incavata a sera. Forse
verranno tardi i bevitori gagliardi, una posa
tra falconieri e giullari. Eppure resta una statuaria
sotto il vuoto di una fuga noiosa. E, nel gelo,
dietro le porte inchiavardate, si masturbano, folli
di una notte vorticosa e stellata
che si aggira per Via Muro Barbieri,
le mani in tasca, il vino nella grotta.

 

TEMA BRODSKIJ

Povera morte sola
rispondi quando vuoi, ti prendi tempo.
Aria di pioggia, nostalgia del primo
passo vuoto. Non le aste
d’acciaio o il mostro in cattività.
Buio di occhi, buio che vedi
l’estate con la zappa sui formicai.
Nell’acqua la corona di papavero.
Nella controra tu vieni intorno al vento e lasci
la pietra di ubbidienza e la preghiera
che fa mansueto chi sale e scalfisce.

Povera morte sola
squassando la tenebra tu riluci
con le voci addosso e la madre asciutta
nei moniti e filiale nell’incanto.
Fin dentro i crepacci io ricordo te che
segui un riflesso e un passato di allievi.
La stanza illuminata entra di notte
nei bouquet e nei fuscelli tremando
contro una lingua offesa
contro un linguaggio che fende attraverso
la fragranza di frutta e le labbra gonfe
che tornano qui,
Torniamo anche noi, più alti
di ogni immagine, tra la sabbia che si ostina a tenere
le tracce ed è una spiaggia che latra da vent’anni
come il padrone di Itaca
come il padrone festoso e selvaggio
che dorme accanto al suo cane in un lenzuolo madido.

Povera morte sola
chi ti ama aspetta una lunga carestia.

Più cupa stasera l’aria della terra.
Piccola fiamma di un’attesa amorosa, avanza. Continua a leggere

In ricordo delle vittime di femminicidio

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Luigia Sorrentino 25 novembre 2022

Nel lago della sera

Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia, scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada che costeggiava la fabbrica di ghiaccio. Brandelli di morte erano caduti nel pietroso mondo invernale. in un ritmo feroce, il ghigno dell’animale stringe, sempre più. Uno sciamare esaltato imbriglia la preda. Respira nella morte la danza armata, ingoia il grido nel grembo.

Sale la musica, sempre più in alto. – Cara compagna dei miei anni sopravvissuti –. Una corona cade sulla sua testa.

 

Nunzia

essere portata in un’urna
diranno – reca le ceneri –
con il corpo privo di resistenza
la ragazza dal volto antico
si sottomette
rende cadavere la cosa

una forza la preda
non uccide ancora, è sospesa
su di lei

l’imperativo potente
l’ha resa schiava

di notte quando è sola
lava via dal corpo
segni vaghi e confusi

*

qualcosa incrina la sua forza
il posto si svuota

– tu sei inutile, non vali niente –

la violenza ha la lingua del fuoco
lo scudo sul quale rimbalza
le protegge il volto, chiaro

la testa fra l’incudine e il martello
montava rabbia incandescente

poi scendeva la tenebra
il silenzio di tutte le parole

*

si rivestiva in un angolo
senza più dire niente
restava lì, nella penombra
separata da sé

era accaduto di nuovo
era già accaduto prima

sulla strada
la testa ciondolava nel niente

precipitata l’innocenza della rosa
coagulato l’umido degli occhi
dal profondo l’assicuravi
del nulla, del tuo trionfo

– nessuno ti vorrà più –

*

l’arteria della gola tesa
porgeva il collo alla lama
il promontorio dagli occhi languidi

tornava a deporla
sulla città distesa davanti ai loro occhi
quell’odore di labbra poteva già essere
c’era sempre stato

non sospettava di essere
coraggiosa e giovane

dà l’imbeccata al falco

l’isola ferita
il palmo della mano avvicina
il basso graticcio delle rose

*

la nuvola sembrava una montagna

non era niente
la carnagione bianchissima
aveva il carattere provvisorio
dei morti

la tenebra le parlava
ossessivamente
occupando il suo destino

il canto degli uccelli notturni
annunciava in un grido
la fine di ogni cosa

*

il dio dei morti autorizza l’amore
soltanto presso i morti

lo dissotterra,
amore disperato e sterile
dal naufragio lo difende, in seno
cara luce
tiene il lembo
lascia cadere
una speranza debolissima
si propaga all’umanità intera

deperita vittima espiatoria
adorazione terrorizzata
verità della violenza Continua a leggere

Giulia Scuro, da “Sedute in piedi”

Giulia Scuro, foto di proprietà dell’autrice

Ventottesima ora di lavoro

Dottoressa, come le ho già più volte
detto, pur con le molte
divagazioni del caso
io sono preoccupata per il mio naso.
Ho paura che la sua sporgenza
sia uno sfoggio di esistenza
e che al vederlo chi è di fronte
pensi a lui come ad un ponte
nella mia direzione,
fatto di binari olfattivi,
alla portata dei suoi incisivi.
Dottoressa, è un delirio
o solo fervida immaginazione?
Mi rassicuri, mi comprenda,
alle prese con l’ammenda
mi sprofondo nelle suole.
Allora, andiamo con ordine:
tu mi vuoi dire che il tuo naso
è una proiezione del fallo reciso
che tua madre conserva in un vaso?
Esatto dottoressa, quanto ha ragione!
Conosce Lisabetta da Messina,
sventurata figlia del Decamerone,
i cui fratelli assassinarono l’amante in sordina?
Del suo amato la testa riposa
in un vaso sul quale ella piange
la condizione di mancata sposa.
La castrazione decapitata del suo amato
l’ha indotta ad una partenogenesi di basilico
per cui le lacrime hanno irrorato
una verdura che sul suo capo
ha attecchito da più di un lato.
Dottoressa, io sono convinta
che al suo naso la radice s’è avvinta
e questo pensiero mi ossessiona talmente
che immagino il naso come una gobba
vulnerabile ed esposta alla gente.
Il naso, ci pensi, è una bandiera
svetta sul muso con la punta altera
e con le narici ci apre la strada,
perlustrando, come una spada.
C’è chi dice “non vedervi oltre”
a significare che l’escrescenza facciale
sia dell’uomo il limite oppure una coltre.
Ma la mia espressione preferita
è sempre stata “naso di velluto”,
mi fa pensare a una stoffa brunita
sulla ferita che ingombra il ritratto
altrimenti piatto della nostra partita.

*

Il verso

Andare verso dove,
senza direzione, nel cammino
del flâneur che non si oppone
a nessuna deviazione,
anzi la propone.
Il mio passeggiare per vie storte,
in cui la salita è sempre l’unica nemica,
è molto differente
dal percorso che conduce ai nostri incontri.
È un verso in cui ha senso anche il rovescio,
ritrovo le ferite che hanno reso
tanto arduo il mio scompenso
in questa folle sfida
che è la vita,
in cui evitare la salita
compromette anche una riuscita.
Andare verso dove,
verso ogni prima volta mai risolta,
verso ogni scelta
che guardandola a ritroso
sembrava solo offerta e non recava
la ferita ancora aperta.
Andare verso dove,
verso un amore
che a ogni sorso
la sete mi pospone.

Da “Sedute in piedi” Oèdipus (2017)

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Premio Internazionale di Poesia civile di Taranto. A Angelo Lippo, il Premio alla memoria

Angelo Lippo

Le icone non escono più a passeggio

I bambini vestiti a repertorio
all’assalto dei carretti di noccioline
e dei palloni che finiscono sempre nell’aria.
La gente che modula il passo
nella calca dei saluti e degli abbracci
mentre la musica spazza alta le case.
Un tempo al mio paese
le icone uscivano più spesso a passeggio.
Questi nostri occhi tumefatti
non sono buoni a lanciare preghiere.


Il Sud ribaltato

Dipingere di nero
le facciate delle case
del mio Sud è una voglia
che mi scoppia dentro

per scacciare l’orgia
consumistica dei mattini
lattiginosi e delle foglie

di fresca lattuga nell’orto.

per mettere la parola fine
alle luci che riverberano
sulle marine battute dallo scirocco.

Dipingere di bianco
le gramaglie delle bigotte
che recitano il futuro
tra una preghiera e una gravidanza.

Dipingere di libertà
le spalle abbronzate dei contadini
è un male che m’inchioda
alla terra e mi fa sanguinare.

Per dipingerlo così, il mio Sud,
Storia:
la mia vita ti cedo.

*

Se il sudore lasciato sulle zolle
non sarà stato inutile.

Se la fame urlata nel tempo
una spiga di grano avrà placato

Se l’acqua degli asettici rubinetti
avrà scacciato il pericolo del morbo.

Se i bambini a scuola non avranno
soltanto imparato a leggere e a scrivere

Se i treni non saranno
partiti per non più ritornare

Se questo un giorno accadrà
anche la morte avrà il sapore della fragola
colta di primo mattino
e gli occhi di una fanciulla innamorata.

*

A un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
mi sono giocato
il folclore che tutti amano
per inchiodare le colpe
le responsabilità consumate
nel tumultuare dei secoli
passati infruttuosi
come le aride zolle
sulle quali fu vegetato
creando a priori il deserto.

Ad un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
ti ho barattato folclore
in nome di miei figli
in nome dei miei nipoti.

*

Ho morti d’avanzo da lasciare
a testamento della mia sofferenza,
ma il difficile è ripetere qui
i nomi altisonanti o plebei
che la Cronaca ci onorò di darmi.

Ho morti d’avanzo che non sanno
acquietarsi nelle tombe troppo
strette per reprimere l’angoscia
che Qualcuno mi assegnò.

Ho morti d’avanzo da regalare
in confezioni dono – nastro rosso fuoco-
ai Politici che in vita di solitudine
e di abbandono mi coprirono.

Ho morti d’avanzo per tutti.

Classe 1939

La mia è una generazione di traditi.
La storia ci ha delusi come uomini
nutrendoci l’infanzia di paure e sgomenti
che non sapevamo e potevamo spiegarci,
né dopo, abbiamo compreso l’Urlo
disperato / gioioso della Liberazione.
Poi, paghi di corse al sole,
c’invase il raptus del benessere,
e ancora una volta ci trovò impreparati
e già vecchi il rumore del Sessantotto.
Non lasciarsi morire
da utili idioti
ora è l’ultima trincea possibile.

L’ostinato orgoglio della verità

Dopo quarant’anni d’inerzia
finalmente c’è chi scuote la mia gente
che non respira più
per paura di morire.
Il cielo plumbeo si è affrettato
a decimare le residue forze.
Eppure Dio non umilia mai
il suo popolo nelle fauci dell’oblio.
Tutti tacquero nell’ingordigia
del tintinnio del vitello d’oro,
senza accorgersi che greggi
morivano nei prati
o venivano abbattuti
dalla mano dell’inciviltà.
Forse erano uomini da piegare
al vento della discriminazione,
anche se nei loro cuori battevano
orgogliosi i segni di un tempo.
Così, dall’alto ci fu chi
pensò che bastava ignorarli.
Nessuno s’accorse
o peggio finse –
che un bambino
troppi bambini –
potessero essere uccisi
dal fumo delle ciminiere.

A turno mentivano e tarpavano le ali
lanciando il coltello del ricatto.
Ma un giorno
venne fuori il coraggio
l’ostinato orgoglio della verità
e si troncò il turpe mercato.
E fu la svolta della Storia.

Angelo Lippo, “LE RADICI NEL CIELO – ANTOLOGIA POETICA (1963-2011)”, Bertoni Editore, 2021. Continua a leggere

“Ci siamo proprio divertiti”

Mattia Tarantino a due anni dalla morte di Gabriele Galloni si rivolge a lui per la prima volta con una lettera scritta dalla Grecia: “Abbiamo riso da morire”.

Mattia e Gabriele a Napoli da “Michele” in uno scatto fotografico di Simona Russo, 21 marzo 2019

 

Nota di Luigia Sorrentino

Oggi ricorrono due anni dalla morte del poeta Gabriele Galloni (1995-2020).
In questa speciale ricorrenza abbiamo scelto di ricordare Gabriele con una lettera scritta da Mattia Tarantino all’amico fraterno, Gabriele che ha diretto con Mattia la rivista Inverso fino al 2020.

E’ una lettera speciale per diverse ragioni: la prima e forse la più importante è che la lettera ci è arrivata dalla Grecia, dal Patras World Poetry Festival, un’importante manifestazione poetica internazionale con un ricco programma di eventi che si sono svolti in diverse sedi culturali dal primo al quattro settembre 2022. Un Festival al quale Gabriele avreva desiderato dì partecipare per vivere questa esperienza con Mattia  e i loro amici poeti.

Per una strana coincidenza, Mattia proprio da Patras ricomincia a “parlare” con Gabriele, prima non era riuscito a farlo, e lo fa rivolgendosi direttamente a lui nella forma della epistola.

“Sono due anni che Gabriele mi parla con i suoi versi –  ha detto Mattia Tarantino – sono due anni che mi invia segni, presagi, li semina sul mio percorso, segni che solo adesso sono riuscito a decifrare”.

Nella lettera indirizzata all’amico, Mattia ricorda che Gabriele facendo riferimento alla loro amicizia, aveva più volte invitato Mattia a leggere un libro I detective Selvaggi, di Roberto Bolaño, edito da Adelphi. Gabriele cioè aveva invitato Mattia a cogliere il legame che li univa:   un “viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”. I due protagonisti del romanzo di Bolaño sono Arturo (con il quale si identifica Mattia) e Ulises (con il quale si identifica Gabriele).

Fra i segni di questa particolarissima lettera sono poi richiamati molti altri protagonisti reali della vita di Gabriele Galloni e Mattia Tarantino: amici poeti, simpatici e allegri, ma già segnati dalla sconfitta e dalla follia di una generazione esaltante e allucinata. Fra essi  ricorrono i nomi dei poeti Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Giorgio Ghiotti e poi Julia Gianferri, Ludovica Bernazza, Nicola Barbato e Giovanni Ibello.

Decifrare i segni, dirottare il presagio

Atene, settembre 2022

 

A Villa Kolla, Sotirios e Vanguelis si sono abbracciati. Uno poggiato all’altro hanno camminato insieme fino alle sedie, per prendere posto. Ridevano. “Da quanto tempo vi conoscete?” – “Ah, Mattia, non lo ricordo neanche…”.

Tornato in albergo, mi sono seduto al piccolo scrittoio davanti allo specchio. Dalla finestra, Patra era un crocevia tra i mondi.

Qualcuno cantava in cretese – lingua perduta, lingua irrimediabile – qualcuno in macedone. Qualcuno parlava della guerra, dei nonni, dei bombardamenti.

Due ragazzi, all’angolo della strada, suonavano la chitarra e bevevano un’ultima birra.

La sera prima di partire non ho preso sonno. Pensavo a Bolaño, a I Detectives Selvaggi. “Bello mio, devi proprio leggerlo; sì, si, parla di noi questo libro!”. Per tutta l’estate avevi detto che mi sarebbe piaciuto: capitava, in piena notte, me ne inviassi qualche pagina, oppure me la leggessi. Anche Julia lo stava leggendo, pochi mesi prima.

Ricordo che avevamo litigato, che per settimane non ci eravamo parlati, che c’era voluto tanto tempo per chiederci scusa. Alla fine, però, avevamo scelto di non lasciarci, di continuare insieme, “come Arturo e Ulises”: “Davvero, è pazzesco – c’è qualcosa della tua lirica, e di William Blake; i medesimi angeli vedete voi”.

Alla fine il libro l’ho letto nei giorni del tuo funerale.

Lo ricordo in cucina, a casa di Ilaria, accanto a un pacchetto di Winston. Blue 100’s, rigorosamente.

Ne parlai anche con Giorgio, e con mio padre. Eravamo strani, è vero. Mi chiedevi spesso cosa gli altri ne pensassero di te e io mi chiedo, adesso, cosa pensassero di noi.

L’anno prima diverse riviste e quotidiani parlarono di noi, di noi due insieme, e ci divertivamo, la mattina, a leggerli e immaginare cosa sarebbe successo se uno dei due fosse morto.

Su Carteggi Letterari, Giulio ci aveva chiamati Lucifero e Trismegisto, “compagni di merendine avvelenate. Quel giorno eravamo felici, proprio felici.

Insomma, dicevo, non ho preso sonno.

“Secondo me se andiamo in Grecia se divertimo, oh, ce tocca, là ci vogliono tutti bene”.

Mi sono alzato, ho preso le mie pillole, poi ho vomitato.

Ho acceso una sigaretta sul balcone, sulla Torre. Tu lo sapevi: la Torre nei miei libri non era un Arcano, non lo è mai stata; piuttosto il mio balconcino, il balconcino che conoscevi, con l’ulivo e le piante grasse, lo stesso di cui parlavo tanto spesso a Letizia, lo stesso in cui lessi a Ilaria Bonnefoy.

Movimento e immobilità di Douve” è ancora il mio libro preferito.

Sulla Torre ci ho passato tutta l’estate – e che estate. Ho avuto paura, per la prima volta e a lungo, per mesi. Ho dovuto imparare a dormire con la porta aperta. Per qualche ragione ero convinto che così non mi sarei gettato, che mia madre avrebbe capito tutto un minuto prima che accadesse, che mi avrebbe fermato. In qualche modo, ho avuto ragione.

Devi sapere che, da alcuni mesi, la mia lingua è una geografia sotterranea – una “Mesopotamia dell’invisibile”, direbbe Giovanni – di cunicoli, scorci, trapezi. La prima parola, appena prima dell’estate, è stata “Passaggio”. Poi, “Porta”.

Ora c’è qualcosa che ha a che fare con il mondo di un dio-gufo, con un traghetto per Buenos Aires, con San Lazzaro e gli armeni.

Ho baciato la croce di Sant’Andrea, pochi giorni fa. Il bacio dell’Icona… Dimitris mi ha detto che ho fatto bene, che la croce è una sola e che qualcosa, nella liturgia, è stato tradito per sempre.

Abbiamo a che fare con la calce del sacro, con la sua crosta. Al posto dei capelli abbiamo delle candele accese con bastoncini d’incenso e al posto delle mani qualche rotolo di preghiere indifese, sconsolate, nervose. Qualcosa come una macchina-divina, come un’Asina che scalcia e prende il posto dell’Orsa:

 

Notte irrimediabile. La stella crepita, scortica, rischiara.

Fuori, qualcosa chiede un nome: è un dio dalla testa d’asino. Mascella robusta, pupilla trasparente e spiraloide. Dio Carnevale. Ascoltami: siamo di passaggio. Quel pane, la strada per la porta, cosa significa il cerchio che portiamo. Non chiediamo altro. 

[…]

Vieni a me. Signore del ferro battuto, della sabbia arsa. Signore del latte alle ginocchia, dei merli di cenere. Qui la notte è bianca e io ti chiamo. Noi chiamiamo.

Quando sei morto era un anno che non scrivevo versi.

Solo tu, all’improvviso, avevi fatto in modo che rompessi il silenzio. Come un congedo, un dono d’addio.

Ora i quaderni non bastano, invece, ma i versi sono sciatti, quotidiani, giallognoli – proprio come quelli dei poeti che non ci sono mai piaciuti. I poeti che piacciono ai critici ma che non hanno un lettore, quelli a cui si chiedono dei versi inediti per l’autunno ma non riceveranno mai una lettera da qualcuno all’orlo, all’Orlo.

L’Orlo: se un’aldilà esiste, ed esiste, questo è il nome della stanza che ti è stata assegnata. Ne sono certo. A vent’anni ho capito questo, della vita, e che sono innamorato di tutte le cameriere del mondo e un cioccolatino lo accetterò sempre.

Penso anche che mentre scrivo l’Orlo si sia manifestato e abbia preso posto, ora, alla fine del Passaggio, appena dopo la Porta.

Occorre decifrare i segni, Gabriele, dirottare il presagio. L’ho detto anche a Ludovica, qualche giorno fa. L’ho detto anche Nicola. “Attendo il tempo in cui il miracolo riscriverà / la storia, la spalancherà, lascerà traballanti / le colonne del mondo”, scrive lei, e lui risponde che “Siamo il raggio di un mondo / che cigola. Una lettera al posto / di un’altra che le somigli ma parli / un’altra lingua”.

Entrambi sono nella mia stanza, lei suona il tamburo, lui fuma una sigaretta, guardano la fotografia che Simona ci ha scattato a Napoli.

Avrei voluto scattarla, una fotografia, a Sotirios e Vanguelis. Avremmo potuto essere noi, lo sai. Avremmo potuto camminare insieme fino alle sedie, poi sederci, ridere. Avremmo potuto dire che no, non riusciamo a ricordarlo da quanto tempo ci conosciamo. Magari a un giovane poeta greco, in qualche paesino accanto Roma. Magari a San Lorenzo.

Ti piaceva tanto, San Lorenzo. È un santo ed è un quartiere, è una notte ed è una piazza.

Poco prima che morissi ti avevo fatto il verso. Lo avevo fatto alle quartine sui morti. Continua a leggere

Antonio Porta, da “Poemetto con la madre”

Antonio Porta a Orvieto nel 1976, per il Convegno “Scrittura Lettura”

I.

Quanto si è consumata mia madre
come l’ombra cancella ogni
giorno
e più l’ombra la invade e vela
più mi sembra che pensi
la giovinezza
l’estate
di una carnale bruna bellezza
quando nel sogno
il figlio le ha baciato il ventre
aprendo
l’assetata adolescenza infinita.

 

2.

Ora mi chiedo se è l’ombra che ti cancella
e il tuo profilo più sottile disegna la traccia
della scomparsa imminente
ora mi chiedo se l’ombra cancella.

 

3.

Lo so da sempre che devi scomparire
ma nel tuo buco d’ombra io non ti seguo
opposto
penetro in un ventre che non è il tuo
eppure ti ricorda e celebra e nutre
il ventre
mio sogno d’iniziazione del mattino,
nel grande letto
della prima comunione.

 

4.

Isterica, in uno sguardo improvviso folle
sei tu che mi cancelli e sputi
come un rospo
il tramonto
qui sulla pagina fatico a mantenere la distanza
dalla tua forma oscura quando soffi serpenti
dalle narici dilatate.
Lo sai o non lo sai che miri sempre in basso,
mi costringi alla fuga, al precipizio
disperato di mettermi in salvo
mi Strozzi con un dubbio e la paura
senza fine dei ritardi,
tempo inabissato
perché tu non mi hai goduto
io arrivato alla fine
della bella adolescenza vuota
tuo amante insuperabile nell’atto
della nascita e subito
perduto.

Continua a leggere

Il poeta Pier Luigi Bacchini

Pier Luigi Bacchini a Parma

“Poesie 1954-2013” di Pier Luigi Bacchini, a cura di Alberto Bertoni e con la bibliografia curata da Camillo Bacchini, Oscar Mondadori 2013.

 

Rimandi

Ecco un pangea di nubi,
nel convesso
che si svolge in continenti; aree
naviganti; siamo sinonimi,
fenotipi
sinopie abbarbicate a ciò che vaga.

*

Scoperta

Non è nascosto.
Ci lascia fare,
decifriamo le petraie, e gli strati sottomarini,
come giochi enigmistici, nei laboratori-
le confuse mareggiate, l’incalcolabile
dinamica delle nuvole.
E le coordinazioni e il fine,
e l’indole genetica
in un compatto io.

*

Acqualuce

Quando il muto fantasma della medusa
con lingue pendule
mòtili barbe
simile a una cometa
rendeva colorazioni traslucide, i tentacoli
delineavano soltanto un urticante
pulsante ideogramma.

*

Labirintite

Nelle notti
il sole precipita al di sotto,
sotto il polo,
e m’aggrappo al legno del mio letto
nel mondo che vola
e fa di se stesso una trottola
fra volatili coltri. Continua a leggere

La poesia di Elio Pagliarani

Elio Pagliarani Credits photo Dino Ignani

E sono grato del mondo e dell’amore
perché ne ho avuto tanto, in primis
dai miei genitori: mia madre scatenata
andata avanti a urla fino alla fine, in ospedale
e io non c’ero, né ha c’ero quando se ne andò
mio padre fiacaresta con cavallo e carrozza
d’estate a mezzogiorno gli portavo io il mangiare
in piazza dove stava più spesso assestato
e chi altri lo poteva fare? Mia madre no
per via di mia sorella piccolina, che le dava
tanto da fare. Altro amore grande
da Rosalia o Liarosa che mo’ si sposa.

Ma se quando l’inverno ibernasse, scrivevo
indeclinabile resterà l’amore:
Cetta, aspetta che non ho finito.

*

Acrostico

Cara, cerco un acrostico
e m’adopro per questo,
tolgo dal canestro
tre genziane
assetate

aspetta che non ho finito
mi resta il più ora
ora è il più che mi resta da fare
restituita stagione propizia
estate di San Martino indeclinabile

ma se quando l’inverno ibernasse
indeclinabile resterà l’amore
o l’errore l’errore del vivere

(gennaio 1976)

*

Alcuni ancora alle volte sono ingannati
e credono di fare del bene comune: e fanno per la proprietà.
Li ladri sono stati insino a qui in noi:
sono stati gli amori che sono stati nei nostri cuori:
& chi ha avuto lo amo ore di colei & chi della roba:
& sono stati tutti ladri questi amori perché ti furano l’anima:

*

Altre notizie

Questa della scaturigine improvvisa
polla di sangue insorta nel mio tronco
gelida, dove possa confluire o frangersi
non so, né a che tossine
sul trapezio dell’intrico capillare
sia lustrale, ma conosco e aspetto
il suo riflesso condizionato d’ansia
successiva, il muscolo del cuore
trepidante.
Qui dentro
non è il primo movimento che è segnalo
e si capisce dalla faccia.

Ma un’altra, spero diversa traccia sia
l’espansa irrefragabile sussultoria ombelicale
simpaticissima e innaturale
risata mia.

Da: “Tutte le poesie – 1946-2011” di Elio Pagliarani, a cura di Andrea Cortellessa, Il Saggiatore 2019. Continua a leggere

Antonio Fiori, da “Nel verso ancora da scrivere”

Antonio Fiori / Credits Photo Dino Ignani

(Poesie 1999 – 2017)

Neanche

Neanche il millisecondo attraversi indenne
neanche il sonno provvidenziale,
seppur ridisegnato uguale, così a vederti solenne
come atteso sempre ad una festa
quasi lo stesso ogni momento eppure
meno vivo ogni volta, in questa luminosa
fossa, più labile, più invisibilmente
spento.

*

Vorrei

Vorrei potervi dare un verso
che come un proverbio
non consumi il tempo,
che ripetuto non vi stanchi
che mi condensi
che subito vi manchi.

*

Mi trafiggono

Mi trafiggono invisibili
dai quattro angoli del foglio
tutte le infinite rette
delle soluzioni possibili.

*

Nuovi paesaggi

Quando m’affaccio il cielo è nero
non c’è più linea dell’orizzonte
né forma alcuna nel buio vedo

Così è ogni volta che arrivo tardi
in nuovi alberghi, nuove città
– serbo l’ebrezza dei naviganti

*

Ritorni

Ritorni, attesa nei giorni più lunghi
dell’ultimo giugno.
Ricordi, era via Emilio Lussu
una corta salita, e poi l’ombra del viale
dal sole scandita per noi
così allegri e diversi, Beatrice
com’era diversa l’Italia e la vita
– com’era letizia.

*

E’ silenzio dirompente sulle grida
è voce che scardina il silenzio.
Portamento regale nell’assedio
luce notturna, buio che c’illumina.
Come aquila incombe
invece è agnello
vita inerme che dura. Continua a leggere

Roberta Dapunt, da “Sincope”

Roberta Dapunt


della carne della lingua

In questa carne ho radicato gli anni, li ho educati.
In questo corpo la materia dei miei pensieri
e le parole e le domande.
Su questa pelle l’ambiente delle loro risposte,
fino a contrarla, le vocali e le consonanti.
Ho consegnato a ogni osso della mia struttura
una lettera
e da lì le parole, una ad una le ho nutrite e ho appreso,
mentre crescevo la carne si faceva verbo.

Composte membra, ordinate si sono gonfiate,
dilatate le loro cavità e da lì ho ascoltato,
ed era voce del mio corpo. Che mi chiamava
e io sorda alle sue espressioni, finché
ho appoggiato le labbra alla loro imboccatura,
organica relazione, ho forgiato la lingua
ed essa ha compreso il gusto
e così finalmente io le ho parlato.

*

Il lento finire porta la gonna e le nere calze.
Sotto la gonna
lo sterile inverso di un verde prato.

*

la confessione

E mentre sembra che tu possieda ancora i tuoi segreti,
da questo verso in poi io ne sarò priva.
Qui dimentico me stessa, ho solo
il mio sguardo che ignora presunzione e richiesta.
Eppure sì. Il desiderio di nuovo diventa un’emozione
e il pensiero a chi ti è simile. Piove fuori, appena marzo
e dentro il tempo colmo di te è tempesta.
Che splendida prova.

*

il nero

E’ talmente nero qui sotto,
da poter sentire soltanto i tuoi passi
sopra il mio sguardo spento.

(Roberta Dapunt, Sincope, Einaudi 2018).

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Addio a Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli Credits ph. Dino Ignani

Nota di Gisella Blanco

La parola ricerca la sua purezza, l’essenzialità del suono nel segno e del segno nel suono.

“La vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche[1]” scrive Alfonso Berardinelli sulla poesia di Patrizia Cavalli e sul suo precipuo scopo: “la purezza della dizione”.

 

Devo fingere volgarità e tradimento
per accomodarmi sul divano
per ricambiare sguardi; spiegando
le tredici pieghe di un pensiero
decifro l’accorta sentenza che scende
sulle mie sentimentali parole che dico
che dico fingendo anche l’amore
e nella finzione riconosco il punto perfetto
l’unico possibile della certezza[2].

 

Improvvisi rimemi accelerano il corso naturale di un dettato poetico chiaro, lineare. Fugaci assonanze irrompono nel verso, acuiscono il senso di ogni immagine. La parola è immersa nella tensione di una brevitas che definisce l’essenziale e lo scolpisce nell’atto linguistico di una poiesi perennemente volta alla comunicazione del dettaglio intimistico. La sua poesia è l’anello di congiunzione tra la sopravvivenza della cura per la metrica e un lessico familiarmente contemporaneo.

 

Mai come oggi – primo giorno d’estate – si seguirà il consiglio di Patrizia nella nostalgia del commiato:

 

Ma per favore con leggerezza
raccontami ogni cosa
anche la tua tristezza.

 

Vita meravigliosa
sempre mi meravigli
che pure senza figli
mi resti ancora sposa[3].

 

***

 

Saliva le mie scale con una torva malinconia
brutale, io l’aspettavo fuori dalla porta
ma era così assorta nella sua ascesa
quasi rinocerontica mortale
che solo giunta in cima mi vedeva
improvviso bersaglio da incornare.
Allora io da matadora accorta
veloce mi spostavo e lei incornava
dritta al mio letto il vano della porta.

 

***

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

 

 

Il cuore non è mai al sicuro e dunque,
fosse pure in silenzio, non vantarti
della vittoria o dell’indifferenza.
Rendi comunque onore a ciò che hai amato
anche quando ti sembra di non amarlo più.
Te ne stai lì tranquilla? Ti senti soddisfatta?
Potresti finalmente dopo anni
d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni,
rovesciare le parti, essere tu
che umili e che comandi? No, non farlo,
fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi
vero, fingi perfettamente e vinci
la natura. L’amore stanco
forse è l’unico perfetto[4].

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Milo De Angelis, da “Biografia sommaria”

Milo De Angelis credits ph Fabrizio Fantoni

Cartina muta

Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere
Franco Fortini

 

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro.
Poi lei getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
né prendere né lasciare.» Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
… vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»

Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamio esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita…» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dir, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io… lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…
ora che stiamo per rinascere.

 

da Biografia sommaria, Mondadori, 1999 Continua a leggere

Rito sonoro a Otranto di Mariangela Gualtieri

martedì 21 giugno, alle 8 di mattina, Libreria Anima Mundi a Otranto.

Fraternità solare
Rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri
con la guida di Cesare Ronconi
Produzione Teatro Valdoca

*
Improvviserò, fra i molti versi che ho a memoria, lasciandomi ispirare dal mare, dalla incredibile città e dai suoi morti, dai suoi vivi di ogni genere e specie, dal cielo, dai molti echi che arrivano dal passato. In una fraternità solare che ci tenga vicini, innamorati e ben desti.

Mariangela Gualtieri

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L’eterno femminile nella poesia di Alberto Bevilacqua

Alberto Bevilacqua

Nota critica di Gisella Blanco

Dalle Poesie di una vita è possibile trarre il lungo racconto di quel “manoscritto indecifrabile” che è l’umana esistenza. D’altronde, “il sapere non è che una grafia/con cui ciascuno nasconde ciò che sa”. In Piccole questioni di eternità (Einaudi 2002), opera riassuntiva contenente anche alcuni testi rivisitati, Alberto Bevilacqua esprime, sin dal titolo, una delle sue molte, luminose vocazioni: “La bellezza non è del creato/ma di chi ne muta l’incanto”.

La raccolta mostra, a cominciare dai primi testi, un andamento narrativo che attinge dalla brillante esperienza di romanziere, nonché da quella di regista e sceneggiatore, dell’autore di Parma, nato nella fervida cittadina emiliana ma poi trasferitosi a Roma, come fecero i più anziani Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini.

Lo stesso Pasolini definisce, con una formula apparentemente criptica, il Bevilacqua degli esordi come “irrelato fantasma idillico[1]”, riferendosi, forse, a quell’interlocuzione astratta e segretamente colloquiale che caratterizza le sue poesie, perfino quelle più auto-diegetiche.

Gli influssi della tradizione letteraria e di quella cinematografica italiana, propense all’arte dell’alludere senza dire (che si tratti, riguardo alla scrittura, di una vera e propria aposiopesi o di una narratività eloquente nell’uso della reticenza, come nel caso di Bevilacqua), pur senza evidenti epigonismi hanno certamente influenzato lo stile poetico dell’autore parmigiano.

L’opera svolge un “tuffo/negli abissi quotidiani” attraverso un linguaggio talvolta piano (che ricorda le dolci altalene lessematiche del Canto alla durata[2] handkeiano), talaltra più acrobatico nel lessico e nella costruzione filosofico-gnoseologica: “sia ciò che dev’essere: un vocativo/d’avventura, ma l’avventura impossibile/- proiezione desertica del Muro/la sua/ombra proiettata all’indietro/di voci, cose, qualche eco futuro”.

Alcuni titoli sembrano imporre una tensione ludica, accostabile al divertissement, a testi altrimenti intrisi di un’ironica nostalgia, ben percepibile nell’incontro tra la dimensione prosodica e quella semantica.

Il topos erotico si svolge per brevi scorci narrativi, e a volte perfino volutamente affabulatori, che accedono a un’enfasi immaginifica capace di travalicare il dato oggettivo e trasfigurarlo in categorie psico-antropologiche intrise di un acceso intimismo: “…allora, non trovando la lampada, non potrò/sapere se sono vivo/a tentoni appoggiando l’orecchio al tuo cuore/a qualche tua aritmia/non sarò più uno/che si ascolta sulle tue pareti della mia prigione”.

Tra i versi, si compie una personificazione oggettuale, come se l’oggetto diventasse un alter ego dell’io, soggettivizzato ma non ancora umano, che si presenta univoco ma in perenne confronto con l’alterità: “i treni che vanno coi miei anni/amanti miei che già/mi hanno dimenticato come una loro avventura”.

Perfino un indesiderato commiato può far parte di quelle minime questioni inerenti all’enormità eternale che permea il vivere quotidiano: “l’essere/infelici con poco” è un talento inviso e stupefacente che affiora nel distacco dal sé, perpetrato nell’addio.

C’è, poi, un afflato goliardico che viene liricizzato attraverso un lessico proposto, in alcuni casi, in chiave gergale o dialettale, e che trasfonde l’elemento carnale in quello emotivo, pur rimanendo lontano dalla mistica e dai moralismi più assertivi.

Le soluzioni esistenziali si possono rintracciare in una visione panica dell’universo, osservato come organismo autonomamente funzionante in cui l’individuo è un ingranaggio necessario nell’interconnessione degli elementi naturali: “che smetta il mondo/la trovi/lui la soluzione”.

L’atto amoroso, interpretato sulla scia della tradizione romantica come metamorfosi dell’amato nell’amante (si pensi alla suprema voluttà abbandonico-trasfigurale del wagneriano Tristan und Isolde, e all’ontologia sessualizzata, la “Sessistenza”[3], di cui ha scritto Nancy), diventa origine e archetipo dell’io che smarrisce sé stesso per ritrovarsi nell’altro: “mia cara perdita dei contorni/di me”.

L’eternità di Bevilacqua è una ricostruzione storicizzata di piccoli anfratti terreni e memoriali che infrange la regola dell’assoluto come dimensione postuma ed extraumana, e si può intercettare nelle scintille dell’intuito, tutta disseminata nella relazione tra le cose comuni e le personali normali.

Alla madre, figura ricorrente nell’opera, è dedicata una preghiera laica, bonariamente sacrilega nella descrizione del sembiante carnale. E’ proprio nel corpo materno che si incontrano il mito dell’origine e l’ossessione della malattia che funge da cupo vaticinio dell’abisso esistenziale. Bevilacqua riesce a esprimere l’indicibile con una tenerezza recondita che lo rende ampiamente accettabile, quasi familiare: “mi guardi invecchiare/senza capire il mistero:/sono tutte le voglie/da anni taciute nel tuo utero”.

La filialità non si perde con l’età adulta, anzi rappresenta un continuo, velleitario ritorno a una genesi strappata alla purezza e restituita all’impudicizia della vita.

Si tratta, al di là dei rimandi filosofici, di una poesia d’esperienza diretta e indiretta, che ripercorre, in chiave letteraria, ricorrenze di vita (come l’internamento materno nell’ospedale psichiatrico), fatti di cronaca, ricordi e situazioni concrete. Anche i luoghi (Parma, il Po, le ambientazioni padane) partecipano di una correlazione oggettiva adoperata come espediente d’analisi di un panorama etico e psicologico che supera la dimensione meramente empirica – anche e soprattutto – nei tratti di maggiore dettaglio realistico.

L’atto memoriale, consustanziale al poeta, è la seconda intonazione di una voce sola, di un monologo duale che riconsidera in chiave storica il tempo dell’esperienza e, al contempo, lo travasa nel tempo emotivo: “ci siamo sbagliati a disperare di noi,/siamo perfetti/nel duetto per voce sola”. Continua a leggere

Claudio Damiani, da “Prima di nascere”

Claudio Damiani Credits ph Dino Ignani

Se fosse che è tutt’altro,
tutt’altro da quello che siamo
tutt’altro da quello che pensiamo
e che vediamo, se quello che ci aspettiamo
fosse tutt’altro da quello che sarà,
se quello che sarà fosse qualcosa di bello
e non avessimo nostalgia della vita,
delle persone care, dei modi, di tutto quello
che abbiamo amato, se non avessimo nostalgia
ma tutto fosse con noi come era già stato
in vita, se ci fosse restituito
ciò che ci è stato tolto, che non c’è stato dato,
ci hai mai pensato? Se fosse che adesso
soffriamo, ma poi non soffriremo più,
tutto ci sarà ridato, e in più
anche altro che non abbiamo avuto
e fossimo così pieni e soddisfatti
da non chiedere più, da non soffrire più
ci hai mai pensato?

***

Di certo nei secoli, nei millenni futuri
saremo chissà dove, in altri pianeti e mondi,
saremo entrati così dentro nella natura
da comandarla a nostro piacimento,
non moriremo più, potremmo allungare la vita
quanto vorremmo, e, posto che davvero
saremo signori della natura,
non mancheranno di certo le sorprese,
dovremo combattere per mantenere il dominio
e non è detto che vinceremo sempre,
io però vorrei mantenere questi boschi
dove cammino nel silenzio tra gli alberi,
mi sta bene stare qui, anche morire fra poco
ma stare qui in questo silenzio, camminare
per questi sentieri, sentire gli alberi accanto
che respirano, stare in silenzio con loro.

***

Pensa se fosse così:
che noi mentre stiamo facendo una cosa
comunissima, tipo portare una cosa
sopra un tavolo, oppure cercarla
ecco aprirsi una porta, e nella stanza
ci sono tutti! è una stanza immensa
e ti salutano gioiosi e applaudono
come un compleanno a sorpresa
e dicono: “Hai visto? Sei consento?
Come stai? Come ti senti?”
e tu lo senti che è stato uno scherzo la vita
o un brutto sogno, o un sogno
bello, ma un sogno, oppure è stata
come una guerra sotto i bombardamenti
e ogni giorno c’erano le sirene,
o c’erano stati giorni belli anche,
di sole, di luce, di silenzio
tu camminavi da solo
in mezzo alle piante amiche.

 

Claudio Damiani, Prima di nascere, (Fazi Editore, 2022)

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Bertoni, da “L’isola dei topi”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022

Metamorfosi

Una delle prime cose che farò
quando tutt’e due saremo alberi
sarà dimenticarti
ma senza whisky e senza psicoanalisi

No, saprò dimenticarti
donando le foglie piú casuali,
ribelli, irregolari
alle schiere di passeri sui rami
e – vedrai – saprò dimenticarti
come ho già dimenticato
gli immani soffi atlantici
le diastoli e le sistoli del mare
che si tende o si apre
di sei ore in sei ore
cosí che ogni giorno quattro volte
avanza e si ritira

Io e te con le facce come
cortecce di rughe,
buchi da sembrare tane
e radici del buio piú profonde
io e te saremo entrambi bravi
a dirci come siamo stati
portatori nel complesso sani
d’abbandoni e resistenze

E cosí, rimanendo tali e quali,
fruste di salici, ali
potremo all’infinito ricordarci.

 

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Pier Paolo Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”

Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite … questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu, giovane Gramsci, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;

quanto meno sventato e più impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi? che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: <> – le pie

invocazioni…. Continua a leggere

Giovanni Giudici, “Salutz”

Giovanni Giudici

III. 1

Ma siete voi – voi pure che non siete
Voi che in un tempo al vero
E al non vero equalmente rispondete –
Di viso in viso e corpi
Filtranti noi per futile parete
Poi che quasi da morti
Vivemmo là donde nessuno a dire
Non ritornava non ritornerà
Sub quale specie appaia uno sparire:
Mai lo sapremo mai –
Nell’alba di Toledo vi riudivo
E i tristi carri della pioggia intanto
A un rovo di parole restai vivo –
Se voi non foste non sarebbe il canto

 

VI. 2

Poi che diceste che sono
La talpa – o sia
Bestiola della quale non si dà
Lume né biografia –
D’ubbidienza la cieca galleria
Tortuosamente prono
Scavai come la più diritta via
Al mai-saper-dov’è vostro perdono:
Nero del nero, buio
Del buio – il mio peccato
Voi decideste, penitenziarìa
Di tutto e tutto tutto in che ho fallato:
Sempre mi fruga dove più m’infuio
Toro e lione mai non esser stato

 

VII. 2

Lichtlein che a grado a grado m’abbandona
Così come declina
Candelina nell’alba
E negli anni prestanza di persona –
Onore della lingua mia italiana
A voi, Minne, perlina su perlina
Parola da parola
Io compitavo a un filo di collana
Nota su nota della mia viola
E voce a spente voci di fontana –
Dal cuore della mia profonda cina
Anima senza nome a voi pregando
Consunta vista ormai
Occhi a un tepore di fango Continua a leggere

Antonia Pozzi, “una giovinezza che non trova scamp

Antonia Pozzi al rifugio Principe di Piemonte 1934

di Monica Acito

 

Ci sono esistenze che sono perle, luminose e selvagge al tempo stesso. Perle che la vita si passa tra le mani, accarezzandole e sgranandole come rosari, fino a lanciarle al di là del confine stabilito da tutte le leggi del mondo.

L’esistenza di Antonia Pozzi è stata come una perla dalla bellezza ingenua e brutale, quasi infantile. La sua storia è sempre stata con me, fin da quando ero piccola: la figura di questa ragazza, per sempre giovane e intrappolata nel suo dolcissimo ricordo, è qualcosa che da sempre mi affascina e terrorizza.

La sua vita è durata solo ventisei anni: nei ricordi di tutti, Pozzi sarà sempre ragazza, anche se con le sue parole è riuscita ad attraversare tutte le stagioni della vita. Bambina, adulta, fanciulla, vecchia: la voce di Antonia Pozzi ha molto da insegnare anche a chi non scrive soltanto poesia.

La sua è una voce spaventosamente limpida, isolata e solitaria nel panorama letterario del Novecento.

Una fiammella conturbante che continua a brillare negli anni, perché l’esperienza di Antonia Pozzi è qualcosa che non può prescindere dalla sua stessa vita, che è essa stessa un pezzo di poesia.  Non possiamo pensare al suo profilo senza partire dalla fine, che contiene e ingloba tutte le movenze di questa giovinezza che non trova scampo.

Quel giorno del 3 dicembre 1938 c’era la neve: il freddo pungeva sulla pelle e deve anche aver pizzicato le guance di Antonia, che aveva deciso di prendere la bicicletta e costeggiare i campi intorno all’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano.

La neve quel giorno era eterea e silenziosa, più del solito: la neve di dicembre era il manto perfetto per ricoprire le guance, il corpo e la vita di una ragazza di ventisei anni. Antonia Pozzi, il 3 dicembre 1938, salutava la vita terrena nel bianco della neve, mentre un piccolo rigagnolo le scorreva vicino, raccogliendo nell’acqua l’ultimo respiro di un’anima viscerale e disperata.

Milano, 3 marzo 1931
[…]
Sfocia così il tumulto
d’ogni mio male
nel riposo di un’estasi
senza confine
e l’anima ritrova la sua pace,
come un folle balzo di acque
che si plachi, incontrando
la suprema quiete del mare.

(Nel duomo, Antonia Pozzi, Tutte le opere, Garzanti) Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini a cent’anni dalla nascita

Pier Paolo Pasolini

Da Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina

(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

 

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Emilio Rentocchini, da “Terra operaia”

Ottave Scelte

                           a Marco Santagata

Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dante Alighieri

I (29)

Luna pugeda a l’ourel dla campagna,
là in do l’as curva e an se sa piò s’l’è d’erba
o d’aria o d’aqua o d’eter quel ch’as lagna
al vód susùr ed l’orba; termer şerba,
eter l’an pól la luna, acsè cumpagna
a n’anma in sbingaioun s’un corp ch’an gherba,
na povra lus dedrê dal ciminiér
ch’el tìren vers al sél soul per mistér.

Luna posata all’orlo della campagna,
là dove s’incurva e non si sa più se è d’erba
o d’aria o d’acqua o d’altro qualcosa che si lamenta
il vuoto brusio del buio; tremare acerba,
altro non può la luna, così simile
a un’anima in bilico su un corpo che non le garba,
una povera luce dietro le ciminiere
che tendono al cielo solo per mestiere.

***

Quand po’ la tera l’as descróv areisa
e a per penser la cà dal cantunér,
quand tótt el dmand el ièin seinsa preteisa
e a perla d’eter l’ultem gest alsér
di camp cumpiû setta la lus desteisa
ad aspeter, a per ch’agh sia al mistér
in el móti paroli ch’at suvén
ma l’è l’amour, sfrisiê, ch’al se tratén.

Quando la terra si discopre arresa
e sembra pensare la casa del cantoniere,
quando tutte le domande sono senza pretesa
e parla d’altro l’ultimo gesto lieve
dei campi compiuti sotto la luce distesa
ad aspettare, pare che ci sia il mistero
nelle mute parole che ti sovvengono
ma è l’amore, lambito, che si trattiene.

***

III (57)

Al can dal rutamer a la cadeina
al cór dla not con strelli méssi a ches
al cer dal Seccia setta al punt, apeina,
la laméra ch’la siga ad ogni sques
dal veint: s’agh fóssa dio l’an gh’srév sta peina;
al frantoi di Caran ch’al sa m’al tes
la spersa vóia d’eser piò luntan,
d’n’eser, de ster pasê, d’aveir invan.

Il cane del rottamaio alla catena
il cuore della notte con stelle messe a caso
il chiarore del Secchia sotto il ponte, appena,
la lamiera che geme ad ogni moina
del vento: se dio ci fosse non ci sarebbe questa pena;
il frantoio dei Carani che sa ma tace
la spersa voglia d’essere più lontani,
di non essere, di sostare superati, di avere invano.

***

IV (58)

La gera la gira in la bituméra
la grata la grida la gréppa al cór,
l’è come al ciacarer ed la galéra,
come se po’ lè deintr al nas e al mór
monòton al dulour dla véta intéra,
e gnanch memoria, e gnanch pergher da sór:
soul geinta seinsa, sè, soul geinta gera.
Meinter ch’a vén şò l’orba, sta gatera…

La ghiaia gira nella betoniera
gratta grida grippa il cuore,
è come il chiacchierare della galera,
come se poi lì dentro nasca e muoia
monotono il dolore della vita intera,
e neppure memoria, neppure pregare di suore:
solo gente senza, sì, solo gente ghiaia.
Mentre discende il buio, tutta questa cagnara… Continua a leggere

Roberto Carifi, da “Ablativo assoluto”

Non hanno pace i volti dei bambini
disse un tempo dal suo esilio
la riva destra dove il fiume scende
rammenti, una madre in fondo a un letto
d’ospedale, con la mascherina,
ed il dottore vicino a me che mi diceva
finita, finita, finita.

*

Cenere, sangue
mi accompagnano alle falde del Tibet
qui i voli dei gabbiani sono i miei fratelli
dove c’è l’immensa preghiera
pronunciata da tutti.

*

Dirò in solitudine le preghiere
a nord di tutte le terre, di tutte le nevi
vestito con un paio di pantaloni arancione
reciterò a voce bassa,
quasi impercettibile,
le ruote dell’illuminato.

Roberto Carifi, Ablativo assoluto (Anima Mundi, 2020) Continua a leggere

Giuseppe Conte, “Dante in love”

Giuseppe Conte

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Shakespeare in love? No, Dante. «Ai piedi del Battistero», tornato dall’aldilà. Gli capita una volta all’anno, per volere di Dio, a causa delle sue pene d’amor perdute per Beatrice: questa è la sua settecentesima notte («Alighieri viene da aliger, che significa “alato”. Ho volato alto, è vero. E ora come ombra volo ogni anno, una sera come questa, dal cielo alla terra e dalla terra al cielo. Migro come le gru e le rondini. Ma non in cerca della primavera e del sole»). E incontra una ragazza con capelli castani, «un paio di occhiali dalla montatura verde alzati sulla fronte», di nome Grace. Una studentessa straniera in Erasmus. Questa ragazza in qualche modo lo sente, ne avverte la fantasmagorica possanza («Io per la prima volta ho la sensazione che qualcuno sia pur confusamente mi veda, percepisca la mia presenza come qualcosa di immateriale tra tutte le cose materiali che mi stanno intorno»). Incomincia così un dialogo misterioso e serrato, in cui Dante le racconta la sua esperienza terrena tra i Fedeli d’Amore — una confraternita iniziatica sul modello dell’Ordine dei Templari — e l’umanissimo sentimento provato per la «gentilissima».


Dante in love è un saggio narrativo di Giuseppe Conte che intende mettere in luce, nel paradossale intarsio dei nostri giorni, la contemporaneità del poeta fiorentino e, ugualmente, la sua vocazione di uomo, oltre che di scrittore. La storia si svolge in prima persona (narratore omodiegetico) e ambientata per le vie di Firenze, dove l’autore della Divina Commedia incontra la sua nuova «Beatrice di strada». Con il guizzo del prosatore esperto e la lucidità del moralista (si ricordino i diversi romanzi, da La casa delle onde, finalista al Premio Strega, a L’ adultera, Premio Manzoni), Conte ci propone un Dante forse a noi più congeniale, meno ingessato certamente, scrostato da ogni alone di sterile accademismo. Ecco un esempio, in cui l’impasto linguistico fa scintille tra teologia allegorica e slang giovanile: «Beatrice… lo hai capito, Grace?… era più di una giova¬ne donna per me, era quella cui Amore aveva dato il mio cuore come si dà un’ostia consacrata nella comunione, il suo saluto era ben più di un cenno con la mano, come fate oggi, “ciao…”, come dite voi? “Ai, ellò…” Era una chiamata a puntare verso il cielo, una via per la beatitudine. Era una promessa di vera felicità eterna». Continua a leggere

Una poesia di Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

PICCOLA ODE A ROMA

a P. P. Pasolini

Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.
Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all’opera assegnata,
nell’odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall’altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.
Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

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Una poesia di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

Vita meravigliosa (Einaudi, 2020)

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Mario Luzi (1914-2005)

Mario Luzi

La notte lava la mente

Poco dopo si è qui come sai bene,
fila d’anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.

da “Onore del vero” Neri Pozza Editore, 1957

Come tu vuoi

La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.

Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.

E’ un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.

da “Onore del vero”, Neri Pozza Editore, 1957

In due

«Aiutami» e si copre con le mani il viso
tirato, roso da una gelosia senile,
che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore.
«Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo
le sue labbra dure
e secche, compresse dalle palme, farfugliando.
Non trovo risposta, la guardo
offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti
dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba.
«L’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio»
rifletto, e aduno le potenze della mente
in un punto solo tra desiderio e ricordo
e penso non a lei
ma al viaggio con lei tra cielo e terra
per una strada d’altipiano che taglia
la coltre d’erba brucata da pochi armenti.
«Vedi, non trovi in fondo a te una parola»
gemono quelle labbra tormentose
schiacciate contro i denti, mentre taccio
e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti.
Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne
quanto le sia lontano in questo momento
che m’apre le sue piaghe e io la desidero e la penso
com’era in altri tempi, in altri versanti.
«Perché difendere un amore distorto dal suo fine,
quando non è più crescita
né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene,
ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere
ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido,
a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.
«Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo
in questa specie dimessa,
in questo aspetto avvilito» mi rispondono, e un poco ne ho paura
e un po’ vergogna, quelle mani ossute
e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.

da “Nel magma” Garzanti (1966)

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Cesare Pavese, tre poesie

Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950

TU SEI COME UNA TERRA

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.

29 ottobre 1945

TU NON SAI LE COLLINE

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

9 novembre 1945

E ALLORA NOI VILI

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ‒
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ‒
‒ non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

23 novembre 1945 Continua a leggere