Le poesie giovanili di Paolo Volponi

Paolo Volponi

NOTA DI LETTURA DI ELEONORA RIMOLO

I versi inediti recentemente ritrovati del giovane Volponi, recentemente pubblicato da Einaudi (Poesie giovanili, 2020), risalgono alla seconda metà degli anni Quaranta, alle soglie del Ramarro e arrivano fino ai primi anni Cinquanta, epoca della pubblicazione dell’Antica moneta.

Questi testi colgono il poeta in un atteggiamento molto lirico e poco ermetico, a metà tra simbolismo e naturalismo: prevalgono stilisticamente parlando la frantumazione sintattica, antieroica e antidannunziana e la tensione poetica si concentra sul tentativo di costruire un dialogo sincero con la realtà circostante e con un mondo ancora troppo misterioso per un giovane seppur talentuoso poeta.

Volponi è divorato dall’angoscia della fuga da Urbino, così agognata e così temuta allo stesso tempo e da un immobilismo interiore che arde e infiamma il verso, in bilico tra eros e repulsione.

Protagonista assoluta e cornice di questi versi è la natura: alberi, colline, animali, campi, diventano parte del paesaggio intimo del poeta che canta il suo tumulto attraverso immagini di rara potenza espressiva.

Il tema della terra natale, quella adriatica, tra monti e mare, venata da un senso di nostalgia e di corruzione dell’esistenza è dunque al centro della riflessione volponiana in questo particolare periodo della sua vita, precedente all’incontro con Pasolini e con i sodales di «Officina» che modificherà radicalmente stili e contenuti del suo fare poetico e ancora lontano dalla sensibilità verso il mondo operaio e la meccanizzazione dell’umano.

da “Poesie giovanili” di Paolo Volponi, a cura di Salvatore Ritrovano e Sara Serenelli

Dieci spighe
intorno a un melo.
Le mele cadendo
scrollerebbero le spighe.
Avrei di che mangiare.
Un verme
tra i denti
mi servirebbe
per non esser solo. Continua a leggere

Vince Fasciani, “ho dimenticato l’anima in lavanderia”

Vince Fasciani

la mancanza di forza morale mi irrita la gola

a volte la mia anima     pende                                     nel vuoto

penso che stia accadendo qualcosa

preferisco rimanere anonimo

ho difficoltà a respirare

***

jacot                                         il grigio del gabon canta lontano

con la sua voce ferma e rauca

probabilmente mi sto facendo delle idee

la mia anima vola come distaccata da me

vado a trovare il grande architetto

dell’universo

la mia mente è tenuta insieme per opera dello spirito santo

devo passare l’aspirapolvere

non sono sicuro di poter finire la mia vita

in tempo

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Lucio Piccolo, poesie

Lucio Piccolo

Mobile universo di folate

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

Lucio Piccolo, da 9 liriche, 1954

****

I giorni

I giorni della luce fragile, i giorni
che restarono presi ad uno scrollo
fresco di rami, a un incontro d’acque,
e la corrente li portò lontano,
di là dagli orizzonti, oltre il ricordo,
la speranza era suono d’ogni voce,
e la cercammo
in dolci cavità di valli, in fonti –
oh non li richiamare, non li muovere,
anche il soffio più timido è violenza
che li frastorna, lascia
che posino nei limbi, è molto
se qualche falda d’oro ne traluce
o scende a un raggio su la trasparente
essenza che li tiene –
ma d’improvviso nell’oblio, sul buio
fondo ove le nostre ore discendono
leggero e immenso un subito risveglio
trascorrerà di palpiti di sole
sui muschi, su zampilli
che il vento frange, e sono
oltre le strade, oltre i ritorni ancora
i giorni della luce fragile, i giorni…

Lucio Piccolo, da Gioco a nascondere, 1960

****

Plumelia

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

Lucio Piccolo da Plumelia, 1967

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Due poesie di Antonella Anedda

Antonella Anedda, Photo © Maria Sofia Mormile

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sonno che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

 

***

Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.

Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.

 

Da Notti di pace occidentale, Donzelli, 1999 Continua a leggere

Una poesia di Alfonso Gatto

Alfonso Gatto

LE VITTIME

La storia fosse scritta dalle vittime
altro sarebbe, un tempo di minuti,
di formiche incessanti che ripullulano
al nostro soffio e pure ad una ad una
vivide di tenacia, intente d’essere.

Gli inermi che si scostano al passaggio
delle divise chiedono allo sguardo
dei propri occhi la letizia ansiosa
d’essere vinti, il numero che oblia
la sua sabbia infinita nel crepuscolo.

Dei vincitori, ai ruinosi alberghi
del loro oblio, piu’ nulla.
Rimane chi disparve nella sera
dell’opera compiuta, sua la mano
di tutti e il fare che e’ del fare il tenero.
E’ il nostro soffio che gli crede, il dubbio
di perderlo nel numero, tra noi.

 

Alfonso Gatto, da “La storia delle vittime”, Mondadori, Milano, 1966. Continua a leggere

Valentina Proietti Muzi, “Il mondo che fa per me”

Valentina Proietti Muzi

PUNTI DI VISTA

Uno sguardo alle ultime cose vive
ci sono insetti creature di vetro
centinaia di corpi ti assalgono
e potrei continuare

ma le ombre calcolano il percorso
ti trovano ovunque
dovresti spostarti più spesso
ottenere distanza
perché anche loro sbiadiscano

allora perché siete tornate?

***

DISTANZE

Mentre c’è chi si allontana
si intuisce
dai frammenti sul confine
che sio può morire a tal punto
e galleggiano gusci
vedi che affiorano.
Come il sangue in acqua
dita sparse tutte intorno
lunghissime e senza approdo

***

FRATTURE

Ma poi sai ho imparato
a portare molti pezzi
molto piccoli
molti pezzi di me
e a ripetere che all’inizio
era tutto prescritto a uso personale
avendo una sola linea anagrafica
da rimarginare

ma poi sai ho trovato
tutto un territorio di arretrati
c’è chi trova la strada spianata
e chi invece infiniti deserti
resti umani sparsi
da generazioni
e pensa nessuno verrà a salvarmi

Da “Il mondo che fa per me” Amos Edizioni, 2020

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Una poesia di Alda Merini

Alda Merini

 

Il gobbo

Dalla solita sponda del mattino
io mi guadagno palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque così grigie,
dall’espressione assente.
Il giorno io lo guadagno con fatica
tra le due sponde che non si risolvono,
insoluta io stessa per la vita
… e nessuno m’aiuta.
Mi viene a volte un gobbo sfaccendato,
un simbolo presago d’allegrezza
che ha il dono di una strana profezia.
E perché vada incontro alla promessa
lui mi traghetta sulle proprie spalle.

(22 dicembre 1948 – da ”Poetesse del Novecento”, 1951)

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Roberto Carifi, poesie

Qualcosa è irreparabile nella merenda sbriciolata,
gli attimi puri della nascita
quando uno vede le cose allontanarsi
e prega che non ci sia nessuno,
nemmeno un padre da perdonare…
nessuno, vi scongiuro, sia troppo vivo
tra le lampade spente,
nel bianco delle corsie,
questa voce che si cancella dove non c’è rimedio
e ogni errore è una vittoria.

***

Un figlio, all’alba, la gioia di vivere
in un battito preciso,
sollevano le insegne di questa povertà
ed una rabbia che non uccide
illumina ogni cosa
… il tempo… hai visto… nelle cantine buie
qualcuno ha chiamato con insistenza…
“Perdona, Roberto, perdona il nostro amore.
Fummo gettati nella tua voce, tra Piazza d’Armi
e la casa di Luciano… non volevamo…
non volevamo perderti… è stato il vento,
nel solaio, una luce fredda e miserabile”
ragionano, nel gelo, mentre deve decidere
una stella.

***

Era giusto correre fino al parco
trovare il vecchio addormentato
lui, mi dicevi, conosce l’orrore della vita,
poi anche l’ultimo bambino
parla nel nostro suicidio,
un orfano che portiamo a destra
accanto ai documenti
quando giuriamo di morire in piedi,
dietro un vetro rotto. Continua a leggere

Gian Giacomo Menon, Poesie

Gian Giacomo Menon, foto d’archivio

geologia di silenzi
il mare fermato nelle conchiglie
i fuochi nella terra
anni o secoli il tempo della nostra pietà

***

l’altrove dei giorni
pozzi di erba nessuno specchio di luna
ed era ieri l’incontro di carissime mani
palestra della mia forza per cortili obbligati
campo liberato di passeri

***

scambiati zodiaci
sostituite corde del cielo
è passata una luna ebra di danza
tagliente nelle sue falci
verde scarlatta candida rigata di nero
un’altra luna è venuta
giusta nelle sue gobbe absidi e nodi
rotonda di stupori
bilancia di giusto mezzo
bere i suoi chiari silenzi

***

terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo

***

nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere

***

tagliarti a metà frutto di luna
nella tua pietra
oltre la scorza azzurra
luce rubata alla pelle
non credere alle parole
rimbalzate dai miei silenzi
mi pesa nella mano il tuo seme
svelato da una lama di vento

***

non chiedere il cedro alle colombe
alta coppa di venti prima dell’autunno
mutevole stagione dell’occhio
dove le ciglia resistono alla palpebra
peso di amare lumache
rugiada di ombre sotto le uve
soli convulsi sfrangiano la pelle delle foglie
il primo tralcio caduto stride al passo del carro

***

non sorprenderti amore
se qui è stanco il cavallo
se qui è siepe e pozzanghera
non sorprenderti amore
se qui il cavallo non supera ostacoli
se qui bassa coda e criniera
si ferma e nitrisce le greppie svuotate
e batte piano il suo zoccolo

***

averti come i lunghi odori della terra
nell’alba degli aratri
quando l’allodola scrive la sua prima parola
come il fresco sapore del pane
quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
averti intatta nell’infanzia
quando il campanile divide
il giorno della locusta dal giorno del grillo
a tessere i soli e le stelle

***

io so la figura
ed è ape e gheriglio
mio immobile tempo
non casuale di occhi
saltuario di labbra
dove termina il gioco
l’alienarsi delle mattine
fruizione di stanche maschere
e noi a pesare l’essenza
le bilance alchemiche
mercurio e fuoco zolfo e sale
misurati sulla tua pelle

***

la solitudine dentro gli occhi
e tu fermavi le lune
io le volevo nel fondo
e si compisse la legge e il deserto
i rovi macerati dal vento
le pietre spaccate
e quelli che cercano l’acqua
e restano arsi all’orlo dell’uomo
oscuro pozzo di fango

***

solitudini dimenticate dal tempo
oggetti di fredda forma
ritagliati nel niente
e l’uomo si dissolve
puro di trascendenze
un cuore sotto vetro
tu a percuotermi in foglia
inesatto di linfe
restituito alla terra
dove appari imprevista
casuale di labbra e di mani

***

la pioggia ha lavato la pietra
le artemisie bruciate
nessuno ritorna alle terre rosse
l’assenza è un nido ferito
e il lepre* è stanco di affidare alla luna
il nome della sua pena

***

libertà dalla pioggia e dal vento
quando la parola non è foglia
pietra articolata di silenzi
un solo nome la scrive
che nessun occhio decifra
nessun labbro ripete

***

l’acqua più amara dei covoni
roste per guanti nudi
innocenza di trappole
immergersi dentro la luna
cognizione del fondo
i covili del pesce
e tu lenta come una tinca
più scaltra del luccio
eludi le reti e la lenza Continua a leggere

Nadia Agustoni, da “Gli alberi bianchi”

Nadia Agustoni / credits ph. Dino Ignani

nel cielo tutto è cielo:
“il nostro guardare è farsi azzurro
vestirsi per un giorno grande”

così la sera nei quaderni

nell‘ombra delle foglie

passare

***

stare vicino agli alberi
e insieme,
per qualcosa di reciso
sulla terra

com‘era nel verde
coi suoi fiori

o come la neve

___________________

lontano l‘astro delle chiome

***

il fuoco se brucia le foglie
e tra il nascere e il morire
diventare con l‘insetto
e un po‘ di luna

quello stare quieti

***

nel sole dei rami
com‘era il vento
com‘era perdonarsi

il tavolo il piatto il bicchiere

e l‘insetto capovolto
guardarlo morire

(altri piangono le loro
storie di bambini)

________________________

così tutto è vicino
il mare dei racconti
i musi
i fucilati

il cranio della vacca

spaccato

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Marco Conti, “La mano scrive il suono”

Marco Conti

 

Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.

*

Com’è rapida l’estate,
queste foglie replicano
camminano verso di me.
Fuori dalla stanza vuota
lasciano un’impronta
scendono verso il confine.
Le ombre ingialliscono
come limoni,
parlano di piccole cose.

*

Versando nell’acqua

Verso le otto sono sceso
a Les Saintes Maries,
il vento è venuto meno
e così l’odore degli anni
questa polvere invisibile
che ogni mattina
scopre il mio guanciale
mentre una luce diffonde
chissà quali memorie,
quali amori vissuti, mai vissuti
oggi comunque irreversibili.
Fuori la gente, le spiagge
il freddo alle giunture.
Pure sono gentile verso il futuro
e sogno continuamente
continuamente saluto
di qua dai recinti,
indeciso tra il lutto
o una leggerezza improvvisa,
fermo su queste dune
dove sostano due sconosciuti
con le labbra morbide
come fosse mezzanotte.
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Gabriele Borgna, “Manufatti del dissesto”

Gabriele Borgna credits foto Fratelli Bodart

Al bastione del Miradore
è ancora cielo sul falso pepe,
parla un fermo d’aria
che smarca la notte da dentro.

Come in una nassa
a bocca aperta,
fra le maglie delle cose
mi anniento.

Con le parole tratto di una resa.

*

Vivo nel garrito del desiderio,
vento che raschia i caruggi.
La mancanza è un esercizio
per corpi in attrazione,
recalcitranti ma già vinti
al giogo del dissesto.

*

C’è un tracciato che non dirocca
e rimanda a questi portici di calata
smangiati dalla spuma, alle lampare
in ronda, al tocco scardinante.

Ci siamo amati anzitempo
per ridare un nome alle cose,
la gola alla sete, un’espressione
d’assoluto al gesto della mano
che ora s’incurva e rassicura
nel seme di un chiarore primitivo.

*

Restano le conchiglie
come altari ai caduti
di tutte le derive.

L’eco dei muti splende
e tace oltre il male
marchiandoci.

da Manufatti del dissesto, Minerva Edizioni, 2021

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Umberto Piersanti, da “Campi d’ostinato amore”

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

IL PASSATO E’ UNA TERRA REMOTA

a Giulia

no, non tra rossi papaveri
e fiordalisi come l’antica
col velo dentro al quadro
ma alta sugli stivali
nel terrazzo fumi,
e non mi guardi,
poi sul gran verde stesa
quel tuo volto acceso,
e accesi gli occhi
così azzurri e persi,
sei la ninfa riversa
nell’attesa
e la tua bionda carne
m’invade e piega

passano innanzi agli occhi
le figure,
in altri tempi
e luoghi lontani
e persi, tu sotto la cascata
t’infradici i capelli
neri e sciolti
e mi sovrasti
chino sulla roccia

non conosci quei lampi,
non sai i tuoni,
dicono che i soldati
salgono su lenti
dalla marina,
lei siede alla ringhiera
contro i bei vetri,
tu non ricordi il volto,
non sai la veste,
solo quelle ginocchia luminose
che appena intravedi
fra le trine

quando la casa cambi
o la dimora,
salgono le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria o vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare

il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove

Dicembre 2015

 

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Pascoli, “Il gelsomino notturno”

Giovanni Pascoli

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

 

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… ancora Piero Bigongiari…

Piero Bigongiari

Sono il mittente, il latore, o chi,
ricevuto il messaggio, non sa aprirlo
o non osa, e rigira tra le mani
il plico oscuro, (forse il suo domani?).
Ho viaggiato seguendo anch’io la rotta
del sole nella immaginaria grotta
del cielo, non foss’altro per udire
lo sciacquío del Pacifico su coste
friabili…

E forse ho creduto
che dinanzi ai miei occhi quasi inabili
lo stesso e il diverso coincidessero.
Dovevo trovare qualcuno, e
non ho fatto che una serie di frecce
indicanti che più in là, forse più in là…

Forse più in là ritroverai la dimora,
la sconosciuta per eccellenza,
la tua di cui non puoi fare senza,
anima, che se qualcuno la sorveglia,
se il tuo essere non è ancora un’essenza.

Smuovi ancora una volta la nidiata
dei fanciulli assiepati sulla soglia.
Entra. O chi entra con te, per te?
Lì troverai chi non può rispondere
a te, forse all’altro. Lì vedrai
l’inutile messaggio necessario
volatilizzarsi nelle tue mani.

Se devi essere dove non puoi essere.
Ma il raggiro è lento, compensato.
Se uno è stato dove non è stato.
È l’amore che ronza come un’ape
vicino al fiore. Il polline è incantato.

Ma il salvatore non si è salvato.

Piero Bigongiari, una poesia da L’eruzione solare della notte, in Dove finiscono le tracce, Le Lettere. Continua a leggere

Alda Merini, “La Terra Santa”

Alda Merini

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Splendide e strazianti le poesia di Alda Merini contenute nella raccolta “La Terra Santa” del 1984.
La terra Santa è il manicomio nel quale è rinchiusa la poetessa, luogo di oscurità e solitudine, di conoscenza e introspezione, luogo in cui la poesia affiora e si rafforza.

Il manicomio, nel quale “l’esistenza è negata”, come in un inferno, è vissuto da Alda Merini come uno stato d’animo, una condizione annientante che trascina giù verso il basso e, prima ancora che ce ne possa accorgere, si diventa reclusi, prigionieri.

Eccola lì, Alda, sola, disorientata. Obbedisce a chi detta le regole di una vita che non riconosce… e allora la poetessa si affida alla “divina follia” che ha depositato in lei i “versi della riscossa” e del riscatto. Una poesia che diviene atto di resistenza, sconfinamento.

______

Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuove
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio. Continua a leggere

Giannino di Lieto, “Il gesto antico e nuovo della lingua”

Giannino di Lieto

LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO

 IDA TRAVI

Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.

La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.

C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.

La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso
zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.

Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.

Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.

Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.

Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)

Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.

Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)

Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.

Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere

Vittorino Curci, il poeta e il sassofonista

Vittorino Curci

La parola poetica nasce dal silenzio. Solo dal silenzio. Questo sembra dirci Vittorino Curci in questo nuovo libro in cui certo non mancano spigolosità, spaesamenti, colpi di scure sulla lingua (fino all’utilizzo di parole ed espressioni inventate come “quartali” o “vèrbate collura”). Il tutto però sembra muoversi verso una schiarita, forse per il peso che ogni parola, ogni sillaba, assume nel contesto di una prassi compositiva che, sospinta da
una forza ineluttabile fatta di passione e verità, trova il suo fulcro nel legame indissolubile tra immagine e suono.

TESTUALITA’ DEI CORPI

1.

a te si addice il torpore che festeggia
la vita, il formicolio della quinta ora.
al primo svoltare
è questo il giorno, il vocativo conciso
della macchina del tempo
costruita con le tue mani.
e poi facce, facce una sull’altra.
di ciò che è stato
è rimasto appena un grido

ma anche questo è un tempo
un precipizio di luce
sugli anni che non vedremo.
e sono confusi i pensieri, confusi
i gesti che ci portano alla frontiera
di una terra diversa, ereditata

2.

il pittogramma del buon principio,
come una profezia dei boschi, si fissa
per sempre nei tuoi occhi dove
l’ipnagogico sillabare del fuoco
da luoghi lontani, africani
clessidra la forza lustrale del disarmo
e il magistero intonso dei dannati.
riportati a terra, niente è come prima…
nessun pentimento, neanche un cenno
all’albatros depennato al primo rigo…
alla febbrile assenza di un respiro…
alla piovana sequenza di un nome
tra voci sbussolate e nude sulle dune

3.

nel ventunesimo delle fortune mancate
la nostra terra è un disegno sulle carte,
il dono assente dei quasiversi orchestrati
per violini scacciamosche.
gli oscurati portano semi nel pugno, luce
imperitura di chi mai pensa alla resa
e al vessillo cencioso dei malvagi
che misura il tempo della fuga e il lontanare
dei frammenti rosicchiati al buio.
ieri invocavamo l’infinire del rubato
per disossare completamente il mare.
la notte per le mani spianava il cielo
a apostrofi di comete…

4.

dal corridoio con le luci al neon
scendiamo nell’interrato delle partite
perse, nell’obitorio degli annegati…
l’orecchio buono del silenzio
cade nella pania del talento
e ci esorta a lasciare senza tornaconti
l’andare a capo del braccio e questa
vigilia su cui declina un piccolo sole

 

SEGNALI DI FUMO

 

è giusto che si facciano un’idea del prezzo, che controllino
ogni cosa. hanno solo respirato aria. l’aria
di sempre. l’aria di tutti. ma spesso la luna dei pozzi
ci ripensa. utilizza il tempo a suo piacimento
la città industriale si sveglia al ticchettio di un orologio
[fermo.
memoria dei linfomi. pugno di consonanti in un vicolo
[cieco.
nebbia alle sei del mattino.
le scolaresche, dopo l’appello, sono pronte.
se potessero tornare indietro…

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Clemente Rebora (1885 – 1957)

Clemente Rebora

O PIOGGIA DEI CIELI DISTRUTTI

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bussano i timpani cupi,
strisciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragione, avanzi:
onnipossente a scaltrire il destino,
nell’inflessibil mistero
a boccheggiare ci lasci;
ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublima quiete,
al marcio del tempo le nari chiudete
o mitigando l’asprezza
nella fiala soave dell’estro
o vagheggiando dall’alto
la vita, che qui di respiro in respiro
è con noi belva in una gabbia chiusa!
Un’eletta dottrina,
un’immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina.

Clemente Rebora, da Frammenti lirici, Libreria della Voce, Firenze, 1913 Continua a leggere

Maria Clelia Cardona, “I giorni della merla”

Maria Clelia Cardona, credits ph Dino Ignani

I SEMI DELLA GIOIA

 

La gioia è un campo recintato
dove germogliano semi dispersi –
l’invasiva gramigna delle
menti nostre inebriate, la  malva rosa
che pur ferita dal falcetto svetta,
la campanula azzurra che rampica a terra
e l’ardore del sole in sé chiude.

 

SEMI SMARRITI

 

Trasvolano nella volta notturna della mente
stelle cadenti intorno a un desiderio
che tremola in basso – esile appello –
semi celesti di felicità
smarriti, germoglianti forse altrove
in oltrumano grano bianco.

 

CICLAMINI

 

Come spesso una frana di gran scena, una lite screanzata
fa deviare il corso delle storie. Ci si ritrova
in un cammino cieco, una strada sterrata senza uscita,
invaghiti dall’autunnale, nascosto apparire dei ciclamini –
fiori che vivono vicini, ma ognuno
a sé.
La voce blesa del navigatore avverte: « Errato, errato, tornate
indietro, se potete. Se.».

Da: I giorni della merla, di Maria Clelia Cardona, Moretti & Vitali, 2018 Continua a leggere

Addio a Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

NOTA DI MAURIZIO CUCCHI

Ho avuto la fortuna di incontrare Giancarlo Majorino quando ero ancora poco più che un ragazzo, e di considerarlo da subito uno dei maestri a cui avere il privilegio di rivolgermi.

In lui è stata decisiva, e per certi aspetti inimitabile, la forza del pensiero complesso e della sua capacità di calarlo nei dettagli espressivi e innovativi della sua forma poetica. Un pensiero, oltre tutto, quanto mai vivo nella quotidianità dell’esperienza, e attivo nella identità di una parola lontana da ogni possibile condizionamento letterario, ma al contrario proveniente – nella piena consapevolezza della sua scrittura – dai termini concreti del reale vissuto.

Il suo lavoro poetico è stato “sperimentale” ben oltre le linee di un’avanguardia – quella dei suoi più o meno coetanei – costituitasi in gruppo, introducendo termini del rapporto con la contemporaneità e con la parola ricchi di interne tensioni, tensioni acute nella visione critica del contesto in cui lui stesso sapeva perfettamente di essere immerso, eppure sempre mosse da un irrinunciabile gusto naturale per la vita, per la sua incomparabile e in fondo misteriosa sostanza, capace di produrre insieme meraviglie e orrori.

Ciao, Giancarlo, ti ringrazio per avermi ascoltato e non cesserò, finché sarò in vita, di esserti fedele e riconoscente amico.

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Sulla strada di Lorenzo Mullon

Lorenzo Mullon


genealogie della vita celeste

 

 

piú bella del bosco è la radura dopo l’incendio
con i bagliori d’avorio della roccia calcarea temperata dalle fiamme
il nero lucido
dei legni carbonizzati
che divampano ancora dentro di te
sottraendo carne
alla carne
scavando nei muscoli
una scala dai pioli di vuoto
dove appaiono le genealogie della vita celeste Continua a leggere

Addio a Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi, ph Ansa

Non somigliarmi,
non avere, con me, niente in comune,
lascia che sia, ogni volta,
l’imprecisa dolcezza di un saluto
a condurre i tuoi passi
e quel tremore trepido che guarda
il niente per cui è dato consegnarsi.

*

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

*

«Così dunque si muore
tra bisbigli
che non sai afferrare».

*

«E dopo?
Dopo semplicemente,
la vana solitudine del sogno».

*

«Viene
l’aria dell’anno
dal giardino:

cosa avrà in serbo
il giovane gennaio
col suo gelo?»

da “Il prato bianco”, Einaudi, 2017

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Una poesia di Juan Vicente Piqueras

Juan Vicente Piqueras

Palme

Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.

E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.

Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravissuti
che ringraziano l’aria, e poi scoppiano
per l’alta gioia in mezzo al deserto.

Juan Vicente Piqueras, una peosia da Palme, Empirìa, 2005

Palmeras

Nacemos de la sed. Somos palmeras
que van creciendo a fuerza de perder
sus ramas. Y sus troncos son heridas,
cicatrices que el viento y la luz cierran,
cuando el tiempo, el que hace y el que pasa,
ocupa el corazón y lo hace nido
de pérdidas, erige
en él su templo, su áspera columna.

Por eso las palmeras son alegres
como los que han sabido sufrir en soledad
y se mecen al aire, barren nubes
y entregan en sus copas
salomas a la luz, fuentes de fuego,
abanicos a dios, adiós a todo.
Tiemblan como testigos de un milagro
que sólo ellas conocen.

Somos como la sed de las palmeras,
y cada herida abierta hacia la luz
nos va haciendo más altos, más alegres.
Nuestros troncos son pérdidas. Es trono
nuestro dolor. Es malo
sufrir pero es preciso haber sufrido
para sentir, como un nido en la sangre,
el asombro de los supervivientes
al aire agradecidos y estallar
de alta alegría en medio del desierto.

Juan Vicente Piqueras, una poesia da “Palmeras”, 2007 Continua a leggere

Iole Toini, “Dei colori dei luoghi”

Iole Toini

La donna continuava a cadere.
Cadeva nell’aria come una luna.
Azzurra. Fosforescente.
Ora toccava una nuvola, ora
la cima di una montagna. Goccia
a goccia, il tempo luccicava lontano,
senza accadere. Una nave,
con l’ancora che pendeva sul fianco,
muoveva lo sfondo. La donna
guardava l’incanto del viaggio.

Il prodigio le entrava dagli occhi.
Non c’era direzione, né intento se non

lo stare nel passo dell’aria come uno stormo.
Non c’erano suoni, né chiavi.
Niente da rivelare. Eppure
ogni cosa avveniva, con commozione,
come sa fare la luce.

*

Per l’altra – di più – la mai
numerata l’innumerevole
vista la bella invisibile
che fa le cose diverse – aperte e chiuse
dove si spinge e non si spinge
il desiderio dentro le canne
dopo lo sparo e dopo
che l’urlo ha scoperto il passaggio.
Per l’altra – senza terra – proprio qui
densa e battente
che fiore e non fiore
che alba e nel buio
quando non passando passa
smisurata la dolcezza
intanto che muore sboccia
la rigogliosa pira che spoglia la rosa
e arretra e resta rotta.

Così imperfetta
e poca e minuta e tutta di meraviglia piena.

*

Più dei fiori
essere il grano nel becco della luce,
entrare nella spina della rosa,
stare tonda nella vena, scoprirmi cosa
d’aria, levare dalle spighe l’ala
della luna, tenere in bocca il buio,
vivere di distanza piena, il nome
che avanza vicinissimo
al vuoto toccato a tutto palmo
quando la carezza sa farsi bosco;
più dei fiori posso essere muschio,
stelo minimo nel colpo della falce
levata volo nello spasmo
di un bacio scampato alla calura,
poi neve nelle grotte della pelle
quando l’orma del pensiero
tocca il battito dello stare fermi.

Mentre cado faccio terra
sul pioppo levigato dalla pioggia.

Poco è detto, meno il fatto
di essere solo mani,
tensione muscolare che teme il nulla
della carne, e duole sola e sente
nello strappo l’altissimo mai colto
grido conducimi o lasciami
terra in terra, volto appagante intero.

*

Nella terra che aprì maggio
un canto si levò dalle vene di pietra

la pioggia eresse l’intenzione del giglio
la luce tese la lancia che aprì la festa.
E gridò il pesco, gridò il croco e la rondine,
gridarono i pioppi e le sterpaglie;
a bracciate il grano accese il campo.
Esaudita la gioia dell’erba,
esaudite le solitudini dei tordi,
il silenzio infiammò le rotte dei venti
che stesero le mani ai tetti, ai fili tesi
fra le case, alle strade ai tram alle navi.
Infine i fiori.
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Le Ottave di Emilio Rentocchini

Emilio Rentocchini, per gentile concessione di Giorgio Giliberti

NOTA DI LETTURA DI LUIGIA SORRENTINO

Emilio Rentocchini è un poeta grandissimo e raro. Scrive ottave in endecasillabi in un idioma sassolese, una lingua scomparsa quasi reinventata dal poeta, che sopravvive nella sua memoria, una lingua di mezzo tra il modenese e il reggiano. Véver e basta uguel a trasparir (Vivere e basta equivale a trasparire), verseggia il poeta come un menestrello, con una voce antica e ultima, e raccoglie nella forma stretta del verso, la verità più profonda: il valore della vita.

Ecco che l’aspetto del linguaggio elevato a simbolo, diventa sostanza, essenza, al di là dell’apparenza delle cose, argine al quale appigliarsi, e nella pronuncia, la lingua  si fa slavina,  neve che si stacca dalla montagna e scivola via.

Grazie alla pubblicazione di Lingua madre, (Incontri Editrice, Sassuolo, pp. 296, euro 14), è possibile attraversare tutta la produzione in versi di Emilio Rentocchini.

L’opera raccoglie le poesie di Otèvi (1994), Segrè (1998), Ottave (2001), Poediànt (2004), Giorni in prova (2005), Stanze di confine (2014).

Le ottave del poeta di Sassuolo sono 256, composte nell’arco di più di vent’anni in una gabbia metrica che rimanda al Boiardo e all’Ariosto, straordinari poeti della sua terra. Ogni poesia è accompagnata dalla traduzione in italiano, una variante “autosufficiente e persuasiva”, come ebbe a definirla Giovanni Giudici.

195

Véver e basta uguel a trasparir
e ander via veirgin, soul chi gh’la fa a fer
dla sô realtê un sìmbol al sa sintir
d’esr esistî; l’è deintr al spec mea cer,
panê, ch’i armàgnen lè i noster respir
mai pers: nueter, segrét, in al penser
di eter. Palida luna al dopmesdè
t’ê la risposta in me ai dè d’in dè.

Vivere e basta equivale a trasparire
e andarsene vergini, solo chi fa
della sua realtà un simbolo sente
di essere stato; è nello specchio
appannato che restano i nostri respiri
non perduti: noi, segreti, nel pensiero
degli altri. Pallida luna del pomeriggio
sei la risposta, in me, ai giorni comuni.

199

Al fiour, òreb e mót, al seint chi al guerda,
as lancia incountra a l’aria a l’incontrari
léber da la sô tera ed gera o merda
e al sa d’eser dla lus dal lucernari
fiurand, ed véder, anch per chi an le guerda.
Se un po’, dre grot seinsa n’intestatari
do tótt l’è melta e gresta, as volta al clour
d’un pisalet pulvreint, mai piò dulour.

Il fiore, cieco e muto, sente chi l’osserva,
si slancia incontro all’aria all’incontrario
liberato dal terreno di ghiaia o sterco
e sa di essere della stessa luce del lucernaio
fiorendo, di vetro, pure per chi non lo guarda.
Se poi qualcuno, lungo dirupi privi di intestatario
dove tutto è argilla e crosta, si volge al colore
di un piscialetto polveroso, mai più dolore.

da: Lingua madre, (Incontri Editrice, Sassuolo, 2016) Continua a leggere

Una poesia di Silvia Bre

Silvia Bre, credits Ph. Dino Ignani

L’estasi di Gian Lorenzo Bernini, beato
mentre scolpisce Ludovica Albertoni

Ah mezzanotte semplici capelli
lungo il collo imperlato dai respiri,
sopra la fronte altissima di fronte
a chissà che mattino – incoronata
che immagine che sei, così di tutti!
Se non sei mia è più mio l’averti avuta?
Fammi chiedere ancora, ancora
non di che cosa, solo di più, per slancio
per aurora, soltanto ancora e non saperne nulla
mia povertà mio calco
cieca gioia, che forze avrai sfidato
per venirmi alla mente
dove ti sfioro senza fare un gesto.
Ma ti devo fermare per cadere ai tuoi piedi
per ritornare in me
pieno d’un viso senza più pensiero.
E sono già chi dice «ti tenevo» e già vacilli
nella coda lunghissima degli occhi.
La spiegazione pulsa nel marmo, ricomincia.
Non rimane che il farsi della vista,
di un discorso che dubita, del tempo,
e questo suono stesso sta per dire
che anche io, lo scultore, sono un resto.

Silvia Bre da: Marmo, Einaudi, 2007 Continua a leggere

Noemi De Lisi, il vocabolario dell’anima

Noemi De Lisi

Nel tuo profondo che ignori avrei voluto raggiungerti,
nello strano evento delle tue braccia macchiate di lividi
e della mia bocca che trema nel dire: “Non volevo farti questo”.
In ogni stretta, morso, schiaffo che ti ho dato per scoprire
la parte dove ti riassumi tutta e avrei potuto impararti subito.
Strapparti via quello che di me rimane nelle tue intenzioni,
spogliarti fino a non riconoscermi più: “Chi è stato a farti questo?”.
Dimenticare me per primo poi ricordare te in ogni cosa,
ripetertelo a memoria e imitarti così bene da confondermi.
Diventare te per poterti finalmente amare nell’unico modo,
diventare te senza lasciarti ricordare nulla della mia vita:
delle mie serate per strada a camminare da solo, senza soldi,
di quella vecchia casa piena di rumori e pianti di mia madre,
del letto sempre disfatto, le scarpe scollate, il dente spezzato,
della foga sopita nel mio corpo che batte quando resto immobile
mentre una voce mi chiama da dentro col tuo nome e sanguino.

***

La città sembrava la mia casa,
i vicoli spogli, lucidi a volte
nella notte dopo la pioggia
erano il lungo corridoio fino alla mia stanza,
quella che tu dicevi vuota
e io ti odiavo perché dicevi una cosa non vera.
Per questo ti immagino mentire su tutto,
forse non sei neanche partita e mi segui
per la città, attenta che non mi volti.
Mi guardi camminare racchiuso nelle spalle con le mani in tasca
e lo fai come se mi spiassi dalla finestra della stanza,
quella che mi teneva sveglio tutta la notte:
“Dalla finestra sento il gallo cantare ogni ora,
non l’ho mai visto ma mia madre dice che c’è da sempre.
Dalla finestra si vede una specie di giardino in fondo,
lì c’è il gallo e ogni volta che canta,
qualcuno apre gli occhi e mi spia dalla finestra.”
Quando te lo raccontavo mi davi uno schiaffo:
“Sono stanca di tutte le tue storie!”.
Mi siedo sul marciapiede e mi tengo la guancia
come se mi avessi appena colpito, come se stessi dormendo
e non mi volto per non sorprenderti a spiarmi
lì dietro lo spigolo di un palazzo.
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Emilio Rentocchini, tre poesie

Emilio Rentocchini

Quand l’alséra parola la s’imposta
al servési a gratis d’un pensér, viva
e in fuga, fida e tradidoura aposta
ed la becca impasteda dla saliva,
al corp al vébra e cal pensér se scosta
da la not primordiela seinsa riva
e sillaba per sillaba al s’avira
nal fiê ordinê dal teimp, al va, e al delira.

Quando la lieve parola s’imposta
al servizio gratuito di un pensiero, viva
e in fuga, fida e apposta traditora
della bocca impastata di saliva,
il corpo vibra e quel pensiero si scosta
dalla notte primordiale senza rive
e sillaba per sillaba si apre
nel fiato ordinato del tempo, va, e delira.

***

Tótta la véta ster pugê al preseint
dmand post pasê o pre futur, cioè gnint,
sbater ded sà e ded là s’as léva al veint
in st’oasi luminousa ed nóvli e gint
ch’la bev a becca in sò al sô nutrimeint:
relétt alién in dov as réd per gnint
in dov as pians d’amour, e a per realtê
soul la testa d’un dio ch’al s’ha pensê.

Tutta la vita appoggiarsi al presente
come post-passato o pre-futuro, cioè niente,
sbattendo di qua e di là se s’alza il vento
in quest’oasi luminosa di nuvole e gente
che beve a bocca in su il suo nutrimento:
relitto alieno dove si ride per niente
o si piange d’amore, e pare realtà
solo la mente d’una divinità che ci ha pensato.

***

Sa gh’è ’d piò bel che sparir via nal senn
in bras a un dormivéglia, meşa ghessa
ed memoria la blésga in un acenn
seimper piò liquid ed spensieratezza.
La vén sò na nebióla doulsa ed denn
snucedi per d’ed là, d’ed sà la fessa
d’in dóve as vén al mend e as tourna a spenda,
la véta na róda, la bala tenda.

Cosa c’è di più bello che svanire nel sonno
in braccio a un dormiveglia, mezza goccia
di memoria scivola in un accenno
sempre più liquido di spensieratezza.
Sale una nebbiolina dolce di donne
inginocchiate all’aldilà, di qua la fessura
da cui si viene al mondo e si ritorna a sponda,
la vita una ruota, la palla rotonda.

Da: 44 OTTAVE, di Emilio Rentocchini, Book Editore, 2019 Continua a leggere

Omaggio a Alberto Nessi

La pubblicazione di questa Antologia in omaggio a Alberto Nessi,  raccoglie gli scritti di molti scrittori e amici di Alberto in occasione dei suoi 80 anni. Il  progetto è a cura della casa della Letteratura per la Svizzera italiana.

Pubblichiamo l’introduzione e a seguire, un estratto dal libro: l’intervista di Maria Grazia Rabiolo a Alberto Nessi  gentilmente messa a disposizione da RSI Rete Due.

 

RAMPE DI LANCIO DOGANIERI NUVOLE

Omaggio ad Alberto Nessi per i suoi 80 anni

Casa della Letteratura per la Svizzera italiana
Margherita Albisetti (Direttrice)
e Fabiano Alborghetti (Presidente)

Stazione

Partire la mattina presto
quando ai treni freschi di segreti
sulla scarpata fanno la guardia equiseti
rugiadosi, dalle reti metalliche
si sporgono a guardare riccioli
di vilucchio, partire da queste allodole
stramazzate tra fasci binari
rampe di lancio doganieri nuvole

(Alberto Nessi, in Un sabato senza dolore)

Da dove si comincia a cercare le parole per salutare e festeggiare Alberto Nessi? Le possibilità potrebbero essere molte, e per ognuno personali. Appartengono a un universo vagamente identificabile se appoggiato ai luoghi che Alberto abita ed ha abitato: Bruzella ora; Chiasso, Friburgo o Mendrisio. Eppure c’è un luogo ben più vasto e caleidoscopico, uno spazio formato da margini, confini, occhi, voci. È forse il più esatto ma non ha una posizione geografica precisa, né ha un nome. Non esiste perché coabita sovrapponendo alle molte vite che Alberto ha ascoltato e vissuto ed al contempo esiste perché diventato poesia o prosa. Forse lo spazio abitato che tanto risuona è nella lettura: ognuno di noi può figurare attraverso la sua scrittura un viso o un ricordo, un angolo, una bottega, un vagone ferroviario, l’odore di un tiglio, l’occhieggiare dell’erba lucciola o il canto di un merlo. Ognuno vede il grembo antico di una selva, i vasti scambi ferroviari di Chiasso, il segno remoto oppure recente di un gesto gentile. Alberto Nessi ha sulle spalle quasi cinquant’anni di scrittura: esordisce in volume nel 1969 con I giorni feriali in un panorama culturale impantanato ancora nelle avanguardie che hanno reso afona la letteratura. La scrittura di Alberto va controcorrente: non è solo chiara, limpida, ma da subito si indirizza a un impegno sociale che resterà la sua cifra delicata e umanissima per tutti gli scritti a seguire. Un impegno non solo verso i “secondi”, l’umanità che ha gli occhi bassi ma la schiena diritta, ma anche verso i margini, le zone esterne ai nuclei urbani, le esistenze rasoterra, che siano queste di uomini oppure della natura. Il resto è storia: alla poesia affianca la prosa; nel tempo scrive per quotidiani, riviste; i suoi libri vengono magistralmente tradotti e nella traduzione ecco un secondo risvolto di Alberto Nessi, lui che con tanta cura trasporterà autori di lingua francese verso l’italiano. Amante delle contaminazioni, quando è poeta talvolta si sente più prosatore e viceversa ma sempre persegue, citando Orazio, la direzione di trasformare il notum in novum. Grande filo legante, resta però la sua coerenza stilistica che Alberto applica sia all’osservare che allo scrivere come verrà anche ricordato nella Laudatio del Gran Premio Svizzero di Letteratura che gli viene conferito nel 2016. In questo novembre 2020 Alberto Nessi compie 80 anni: si fraintende a voler pensare che -citando la Signorina Felicita di Gozzano- “a quest’ora scende la sera”. Accade invece il contrario: lo testimoniano non solo le migliaia di lettori -in più lingue- che Alberto continua a nutrire di storie e versi che molti citano a memoria; la testimonianza ulteriore è data dall’affetto di amici, colleghi scrittori e poeti, traduttori, editori o entità culturali che hanno offerto un testo per questo libro-omaggio non troppo formale: la grande maggioranza inediti, altri emessi per altre forme ma mai stampati. Non ultimo, il segno di Luca Mengoni, che per questa pubblicazione ha regalato alcune sue opere perché siano riprodotte. Per ognuno i testi di Alberto Nessi sono stati di volta in volta rampe di lancio, per scoprire la bellezza della poesia (e per alcuni per la prima volta); oppure doganieri per il controllo misurato della lingua e dello stile; o infine nuvole, per la capacità di aprire al sogno e alla vastità che il testo scritto può solo suggerire ma che è compito di ognuno accogliere e respirare.

È uno strano compleanno questo: gli anni li compie Alberto eppure il regalo lo abbiamo ricevuto – e continuiamo a riceverlo – noi. Auguri e buona scrittura a te, trovandola (e citandoti) dove l’edera ancora si allaccia al castagno, dove la natura lo prende fra le sue rocce, dove splende per sempre un’altra luce.

Alberto Nessi

MARIA GRAZIA RABIOLO

INTERVISTA
ALBERTO NESSI

Caro Alberto, questo tuo rotondo compleanno è per me un’occasione preziosa per dirti grazie. Grazie, prima di tutto, per le tante parole che hai scritto. E poi per quelle che mi hai detto durante i nostri numerosi incontri (abitare vicini facilita): sulla letteratura, sulla malattia, sul tempo che passa, sul nostro essere al mondo, sull’amore per gli altri. Mai lunghi discorsi, ma concetti precisi, puntuali, illuminanti. È stato sempre così, anche quando ti mettevo tra le mani un microfono e ti chiedevo di parlare dei tuoi libri. Continua a leggere

Elisa Biagini, “Dialogo con Paul Celan”

Elisa Biagini

(dialogo con Paul Celan)

Esperimento di dialogo con un poeta amato: Paul Celan.
Elisa Biagini costruisce testi riprendendo singoli versi del poeta tedesco, allontanati dal contesto originario e utilizzati come accensioni di una nuova deflagrazione poetica.

Mi si chiudono
le notti dentro
il palmo,
ti tocco
e sei d’inchiostro.

Troppe cose già dette,
troppo già respirato,

nel palmo
solo una pietra risputata,
piccola come
una mandorla

(il dolce è troppo
nascosto e troppo
duro il guscio).

Contami tra le mandorle (1

(1 Zähle mich zu den Mandeln

La lingua vola ovunque, rotola,
gettala via, gettala via,
e cosí la riavrai: (2
sarà un frullare d’orecchio,
un’ala che s’apre a misurare il cielo.

(2 wirf sie weg, wirf sie weg, | dann hast du sie wieder

Quando la bocca
sputa la parola,
c’è un tempo, un
tra «me e te»,
che è una zolla
affettata dalla lama,
verme che poi
ritrova vita.

Questo torcersi di
piedi, come il cammino
in sogno, come
il racconto in
un orecchio
già di vetro.

Con gli occhi-
forbici  ti ritaglio (3
il profilo, ti fermo
con la lama di tempo
che mai fa ruggine.

(3 mit den Augen | -schere

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Cristina Campo (1923 – 1977)

Cristina Campo




E’ rimasta laggiù, calda, la vita,
 l’aria colore dei miei occhi, il tempo
 che bruciavano in fondo ad ogni vento
 mani vive, cercandomi…

Rimasta è la carezza che non trovo
 più se non tra due sonni, l’infinita
 mia sapienza in frantumi. E tu parola
 che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
 con me, già trapassato in altro viso
 come spera nel vino e consumato
 negli accesi silenzi…

Torno sola…
 tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
 roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
 del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.

*

La neve era sospesa tra la notte e le strade
 come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
 di campane diletto sei venuto…
 Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
 O tenera tempesta
 notturna, volto umano!

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
 stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

*

Devota come ramo
 curvato da molte nevi
 allegra come falò
 per colline d’oblio,

su acutissime làmine
 in bianca maglia d’ortiche,
 ti insegnerò, mia anima,
 questo passo d’addio…

da Quadernetto Continua a leggere

Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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La luce incerta di Sandro Penna

Sandro Penna, fotografato a Roma nella sua casa in Via della Mola de’ fiorentini, sul lungotevere

 La vita… è ricordarsi di un risveglio
 triste in un treno all’alba: aver veduto
 fuori la luce incerta: aver sentito
 nel corpo rotto la malinconia
 vergine e aspra dell’aria pungente.

 Ma ricordarsi la liberazione
 improvvisa è più dolce: a me vicino
 un marinaio giovane: l’azzurro
 e il bianco della sua divisa e fuori
 un mare tutto fresco di colore.

 ***

 Mi nasconda la notte e il dolce vento.
 Da casa mia cacciato e a te venuto
 mio romantico amico fiume lento.

 Guardo il cielo e le nuvole e le luci
 degli uomini laggiù così lontani
 sempre da me. Ed io non so chi voglio
 amare ormai se non il mio dolore.

 La luna si nasconde e poi riappare
 — lenta vicenda inutilmente mossa
 sovra il mio capo stanco di guardare.

 ***

 Felice chi è diverso
 essendo egli diverso.
 Ma guai a chi è diverso
 essendo egli comune.

 ***

 Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
 Ma più belli di te ragazzi ancora
 dormiranno nel sole in riva al mare.
 Ma non saremo che noi stessi ancora.

 ***

 Talvolta, camminando per la via
 non t’è venuto accanto a una finestra
 illuminata dire un nome, o notte?
 Rispondeva soltanto il tuo giudizio.
 Ma le stelle brillavano ugualmente.
 E il mio cuore batteva per me solo.

 ***

 Io vivere vorrei addormentato
 entro il dolce rumore della vita.

 da: Sandro Penna, Poesie, Milano Garzanti, 2000

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Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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Milo De Angelis, “Questo mio sempre”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Avevamo pubblicato in Anteprima Editoriale, il 10 giugno 2020 all’interno del progetto Catena Umana/ Human Chain la poesia inedita di Milo De Angelis, Nemini, che apre la sua nuova raccolta di versi, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021) uscita oggi, 26 gennaio in tutte le librerie italiane.

Ci sembra giusto proporre adesso la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, un canto a una sola voce, una monodia, sul senso della vita e sulla decisione di abbandonarla.
(Luigia Sorrentino)

 

IL PENULTIMO DISCORSO DI DANIELE ZANIN







Le antenne si muovono nel vento
 il corpo ondeggia ma è deciso a pronunciare
 ad alta voce le sue accuse. E tutto il quartiere,
 con il fiato sospeso, scruta quel ragazzo alto e magro
 in piedi sul tetto, con il golf bianco e le dita
 coperte di farina. Ognuno attende la sentenza.
 Ognuno affonda nel mistero
 di se stesso e guarda in alto, non sa
 dove si trova esattamente
 ma sa che quelle parole sono per lui
 e lui, mentre ascolta, le sta pronunciando.

“Mi chiamo Daniele e ho pensato seriamente alla vita.
 La vita ed io siamo state due creature
 che si accusavano a vicenda, finché un’energia furiosa
 ci ha spinti l’una contro l’altro e ho cominciato
 a vedere l’altra faccia di ogni foglio, ho cominciato
 a nuotare nei laghi del tramonto e ora sono qui
 con gli occhi forati e le lacrime di piombo
 e vi ho chiamati ogni mattina, vi ho chiamati
 uno per uno per nome e per cognome
 finché non vi ho più visti e cominciò
 questo mio sempre
 di ore deserte e istanti morti.”

“State attenti, tutti voi, perché non parlerò due volte.
 Sono nato alla fine di una festa, al Gallaratese,
 quando la bocciofila restò senza luce e tutti
 se ne andarono.
 Gridai che era tardi, ed era tardi.
 La musica delle sfere precipitò in una zattera,
 il mio pianto ammutolì e allagò tutta la vita,
 mi divisi per sempre da me stesso, persi la mano
 della fata e a tutti voi scagliai in faccia
 il mio sacchetto di canditi.”

“Nella vasca dove entrai un pomeriggio
 vidi la fine separata dal suo inizio, vidi
 le prime crepe del sorriso e divenni un istante ossidato,
 una mezza notizia che nessuno raccoglie, vidi
 la follia disegnata sulle mie unghie, vidi
 per la prima volta i miei amati cavalli
 fermi in una giostra di pietra,

mi aggiravo tra spigoli di buio, avevo un piede
 immerso nella calce, studiavo i libri
 degli antichi e dei moderni, riempivo la cucina
 di appunti e foglietti. Poi l’artiglio di un gattino grigio
 lacerò tutto il pensiero di Hegel.”

“Cominciai a vedere nelle lampadine spente
 il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia
 a succhiare veleno, mi immersi
 nell’acqua passata
 e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione
 nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla
 dei pazzi in una culla di catrame
 finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi
 che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino
 dormiva la morte.”


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Vittorio Sereni, poesie

Vittorio Sereni

In me il tuo ricordo
da Frontiera

In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.

Dimitrios
da Diario d’Algeria

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.

Intervista a un suicida
da Gli strumenti umani

Intervista a un suicida
da Gli strumenti umani

L’anima, quello che diciamo l’anima e non è
che una fitta di rimorso,
lenta deplorazione sull’ombra dell’addio
mi rimbrottò dall’argine.

Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato – con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte -­
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto…

In che rapporto con l’eterno?
Mi volsi per chiederlo alla detta anima, cosiddetta.
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido

indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia d’un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.

La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lanciafiamme…
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
– potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco –
anche… e parlando ornato:
«mia donna venne a me di Val di Pado»
sicché (non quaglia con me – ripetendomi –
non quagliano acque lacustri e commoventi pioppi

non papaveri e fiori di brughiera)
ebbi un cane, anche troppo mi ci ero affezionato,
tanto da distinguere tra i colpi del qui vicino mattatoio
il colpo che me lo aveva finito.
In quanto all’ammanco di cui facevano discorsi
sul sasso o altrove puoi scriverlo, come vuoi:

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Eugenio De Signoribus, poesie

Eugenio De Signoribus

(dove)

dove si culla il seme tatuato
di code anfibie gialle e nere
che nascondono i volti, se li hanno…
all’ombra di radici familiari
in quale ansa tempestosa sboccia
nell’inflorescenza degli anni
la filacciosa violenza simulacra,
colorazione accesa delle acque
che poi traversa nelle rapide menti…

Eugenio De Signoribus, da Altre educazioni, Crocetti, 1991

*

Domande

Perché la parte oscura
ancora può dolere
e tarla la coscienza
banale o no il sapere?
E il perdono chiesto
all’uomo e all’Uomo
incontra nel languore
come una spina dura?
C’è verità nel suono
che stride in interiore?

Eugenio De Signoribus, da L’altra passione, Interlinea, 2020

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Cesare Pavese, il poeta delle Langhe

Cesare Pavese

Tu non sai le colline

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

Ascolteremo nella calma stanca

Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.

Ti ho sempre soltanto veduta

Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.

Mattino

La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare. Continua a leggere

Mario Benedetti, da “Umana gloria”

Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.

Ho freddo ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti. Continua a leggere