L’ultimo saluto a Gabriele Galloni

 

Gabriele Galloni

A più di tre mesi dalla scomparsa del giovane poeta Gabriele Galloni, sabato 19 dicembre 2020 alle 14.30 l’urna, contenente le sue ceneri, verrà deposta al cimitero di Santa Ninfa, a Fiumicino, sul litorale tirrenico, il “cimitero dell’acqua e del vento”, accanto al Parco di Villa Guglielmi.

Fiumicino e Focene erano “i luoghi poetici” di Gabriele che ricorrono con evidenza nell’ultima raccolta di versi pubblicata in vita da Gabriele, L’estate del mondo. E proprio Gabriele aveva più volte espresso il desiderio – se mai ne avesse avuto la possibilità – di comprare una casa  a Fiumicino o a Focene.

Su Facebook il giorno 26 agosto 2020, Gabriele aveva scritto un post: “Comunque alla mia morte, voglio come epitaffio i seguenti versi:

“Noi fummo l’immagine dell’uomo,
non la creatura breve ma la traccia.”

I genitori, Irma Bacci e Mario Galloni, hanno rispettato la volontà di Gabriele e hanno inciso sulla lapide i suoi versi, una sorta di testamento della sua poesia.

Gabriele si è spento nel sonno per arresto cardiaco a soli 25 anni la mattina del 6 settembre 2020. Quella notte aveva dormito a casa del padre. E proprio il padre ha raccontato che la mattina del 6 settembre Gabriele si era svegliato verso le 7:00, si era alzato dal letto e avevano avuto una breve conversazione. Poco prima che il padre uscisse per fare la spesa, Gabriele aveva detto che si sarebbe messo a letto per dormire ancora un po’, aveva preso con sé un libro  poi, rivolto al padre aveva detto che avrebbero fatto colazione insieme al suo rientro.

Non è stato possibile … Gabriele non si è mai più svegliato.

(di Luigia Sorrentino)

 

da L’estate del mondo di Gabriele Galloni, Marco Saya Editore, 2019

Abbiamo superato Fiumicino
e tu hai fatto, ricordo, una battuta
su tutto ciò che era passato in questa
vita senza per noi lasciare traccia.

E poi hai indicato il fumo che saliva
dal mare. Tutte le strade erano bloccate
e noi già pensavamo ad altro; a quello
che tutti quanti pensano d’estate.

Campo

Un giorno la vedremo intera, questa
stagione. Basterà
un fuoco in spiaggia a memoria di festa
e il bagnasciuga a dire l’aldilà
delle conchiglie mai raccolte:

Controcampo

così tante – ricordi? – Che per tutta
la notte ci hanno tormentato. In sogno
maree su maree di conchiglie.
Il letto ne fu invaso; le lenzuola
ci ferirono per tutto il tragitto fino alla spiaggia.

**

Noi dormiamo raccolti nell’estate.

Ha smesso già di svegliarci il rumore
del mondo. I nostri piedi sono nudi,
scoperti, ché il lenzuolo è troppo corto.

Il nostro sonno è come una corrente
di risacca; per ore non riusciamo
a svegliarci. Trascorre la mattina

in una luce, una luce che è febbre
da fondale marino; sia destino
guardare tutta la vita da qui.

Sia destino arrivare al pomeriggio
sul filo che divide e l’acqua e l’aria;
e insieme farli in due passi questi anni.

**

I ragazzi alla spiaggia di Focene,
insieme incontro all’onda sonnolenta
che ritornando bagna loro il fianco
adolescente. È questa vita, lenta,

la sua illusione qui della durata
eterna. Quando ciò che resta è il bianco
della parete a fine di giornata;
il mese placido, tempo che viene,

i ragazzi alla spiaggia di Focene.

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Nino De Vita, nello scrigno della parola

Nino De Vita

MARTINU

Parlai ra luna.
Eramu una ricina,
nterra, aggiuccati,
a ggiru, nno jardinu.

Parlai ru bbiancu
ra luna;
ri màculi nno bbiancu
ra luna; ra luci
chi scoppa ri nna luna.
Ascutàvanu a mmia
taliannu ’a luna.

Cc’era Martinu,
’u picciriddu ch’avia
l’occhi astutati, nzèmmula
cu nniatri:
stava cu ’a testa calata,
’i manu ncapu l’erva
chi spuntava.

Parlai ra luna,
tunna e a fàuci;
ra mezzaluna;
ru jocu ra luna
chi s’ammuccia nne nèvuli
e s’affaccia…
E a ccorpu Martinu
mi firmau.
“È bbedda”
rissi “ ’a luna!”

MARTINO. Parlai della luna./ Eravamo una diecina,/ per terra, accovacciati,/ a giro, nel giardino.// Parlai del bianco/ della luna;/ delle macchie nel bianco/ della luna; della luce/ che viene dalla luna./ Ascoltavano me/ guardando la luna.// C’era Martino,/ il bambino che aveva/ gli occhi spenti, insieme/ a noi:/ stava a testa bassa,/ le mani sull’erba/ appena nata.// Parlai della luna,/ tonda e a falce;/ della mezzaluna;/ del gioco della luna/ che si nasconde fra le nuvole/ e riaffaccia…/ E all’improvviso Martino/ m’interruppe./ “È bella”/ disse “la luna!”

 

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Antonella Anedda, da “Notti di pace occidentale”

Antonella Anedda

Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.

Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.

Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.

Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

Antonella Anedda, da Notti di pace occidentale, Donzelli Poesia, 1999 Continua a leggere

Gino Scartaghiande, da “Oggetto e circostanza”

Gino Scartaghiande / Credits ph. Dino Ignani

 

Non ho mai conosciuto la collocazione

Ricordo la sera esattamente
Da collocare, temporalmente parlando,
in un anno compreso tra
Dei muri, delle strade.
Che non (si) potevano (chiamare) più
(essere chiamati) muri, strade.

Il nome

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza.

So di certo chi sei, chi sono. L’asfalto
grigio della strada. Il tuo sangue sull’
asfalto penetratomi sin d’allora. E so
che altre strade dovrò ancora assorbire,
altro vetro frantumare, prima di poter
pronunciare il tuo nome, che sarà anche mio
e infine nostro. Ti chiamerò Rosa Luxemburg.
Mi darai il nome. (lasciare 2 spazi)
Ti chiamerò mentre ti uccideranno. Sarà
come ricevere una tua lettera d’amore.
Dovrò meritarla. Ora ancora no.

I gradini scorrono lontano, fuggono come
tastiere di pianoforte, fuggono in tutte le
direzioni. Non so se muovermi coi piedi o se
affidarmi all’ascolto. Ma devo assolutamente
trovare il punto ove tutti i gradini e
tutte le voci confluiscono. Un foglio
trasportato dal vento, un grido d’aiuto
basterà?

Ora. Sono pronto a barattare ogni cosa
per questo incontro. E vedo talmente bene
il nero che cola sui gradini. Anche dagli
occhi, anche gli occhi che vedono colano
nero, come assassini che complottano,
che attentano.

Sono pronto. Ma non ancora in stato di
grazia. Cara Rosa, oggi è stata una
giornata piovosa, ma stasera il cielo

era sgombro e c’erano le stelle.
Sento di svegliarmi, non so ancora
dove. Con ostinata certezza percorro
tutte le ferrovie della terra.

Morire è un lusso che non possiamo permettere
né alla fantasia né alla pratica quotidiana.
E soprattutto a quest’ora di notte, nella strada
così nera e deserta, col silenzio gravido
che vorrebbe scoppiare in fragorosa giornata
d’estate, con bagnanti al mare e bambini
che giocano, mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini neri
coinvolti nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza:
il mare d’acqua azzurra non esiste.

Il ritardo assunse toni fatali. Erano
esattamente 5 giorni d’assoluto silenzio.
Muti io e lei. Neri e muti. Da 5 giorni
seduti al tavolino del bar, bevendo un caffè
che non finiva mai. 5 giorni oscuri come 10
notti. Vestiti di una pesante e appiccicosa
calzamaglia nera, sentimmo il turbamento
di una rondine su di un umido filo di
telegrafo, prima di partire, in autunno,
giornata piovosa, quasi sera. E un’altra
rondine sul filo opposto. Continua a leggere

Una poesia inedita di Luigia Sorrentino

Luigia Sorrentino / credits ph. Angelo Nitti                            

 

 

Per Antonio Grasso

 

cadevi sempre nei miei occhi
sulla strada

eri capace di fissare
il fuoco per ore
come una belva uscita dalla tana

la parola umida aleggiava nell’aria
di dicembre

l’ardere muto tutto chiuso
nella fornace pettorale

facemmo un patto quella sera

io sarò la tua ombra
tu l’animale di furia
divampato
in un cuore solo

[luigia sorrentino]

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Bruno Di Pietro, da “Colpa del mare”

Bruno Di Pietro

Amici morti per il fuoco
se l’acqua è inizio
ora interrogare il dopo
conoscete lo scopo
del pensare.
la cenere ha confuso il mare
deluso il cielo.
Il nostro era un viaggio terreno
e questa è terra di ulivi
di tramonto
terra di sale
da Elea a Metaponto.

**

ora la finestra ha vetri infranti
e la ruggine assale le fontane
segnano il tempo, stanche meridiane
filari di occasioni e di rimpianti Continua a leggere

Silvia Bre, da “Sempre perdendosi”

Silvia Bre / Credits ph. Dino Ignani

Altro sangue

C’è della grazia in voi che mi guardate
di cui so fare a meno.
Tra voi nessuno mi potrà salvare.
E non importa quello che vi dico,
ciò che dico davvero non si sente.
Lo sentite questo funebre annuncio
Che mi tiene presente?
Lo capite chi sono?
Io mi castigo in me con queste frecce.
Sono la direzione.
La voce mi reclama al mio tormento
e io rispondo, continuamente sveglio
mi lascio disperare e sogno il sonno
e grido per chi si va perdendo
un grido acuto
che subito si piega per un verso.

Dormire almeno,
dormite voi per me,
voi che potete.

Freccia

Che debole io nel mezzo
a vibrare tra la freccia e il sangue,
disarmato, sfranto, non fosse
per il fiato che mi passa,
per il disegno che lascia da ascoltare,
che trascina, non fosse per il pianto uguale
che ci tiene e vi riguarda
e chiede, e fa che io rimanga.

Ma non capisco. Ho sonno.
Non capisco.
Quello che accade non ha le sue parole.
Non mi serve una tragedia,
basta il coro,
il costante lamento del destino.
Basto io stesso che imploro.

Preso da un grido
senza un argomento da toccare
è per voi che comincio? Continua a leggere

Duncan Bush, poesie

Duncan Bush

Midsummer. Night.

There’s a moment in summer when everything stops.
Ten o’clock, and the young pear tree still
shines white as a bride

against trees lush with evening, black with June.
There’s a moment (though this may not be
the evening of the 21st)

when infinitesimally your life pivots
with the year (though probably it’s not your
thirty-fifth, and you may

not reach seventy). A moment
when the inch of wine set down forgotten
in your glass holds all

the failing light, and stands unwavering
as if your numberless progenitors had
lived, begotten, died

only so you should see such stillness.
There’s this moment one summer when summers
stand in silhouette, and the topmost leaves

of those trees which are as old as your bloodline
are stirred no more than by the breathing of
your sleeping child upstairs.

There’s a moment in summer when everything stops
(though the pear no bigger than a haw
will ripen under leaves)

and you sit so long at the window the room’s dark,
and just this tilted page is luminous,
though you can hardly see the letters.

Then you look outside again, and the peartree’s
gone, to the blackness beyond it. And tomorrow
from now on means only that:

a day, then a day, then a day. And life,
which was once vast as the atlas on the shelf,
is closer than your skin, and countable.

Mezza estate. Notte.

C’è un momento in estate in cui tutto si ferma.
Le dieci, e il giovane pero ancora
risplende bianco come una sposa

contro alberi turgidi per la sera, neri per il giugno.
C’è un momento (potrebbe anche non essere
la sera del 21)

in cui in modo infinitesimo la tua vita ruota
con l’anno (anche se forse non ne hai
trentacinque e potresti

non arrivare ai settanta). Un momento
in cui quel dito di vino dimenticato
nel bicchiere trattiene tutta

la luce che se ne va, e non ha un tremore
come se i tuoi innumerevoli progenitori avessero
vissuto, procreato, fossero morti

solo perché tu vedessi tale immobilità.
C’è questo momento in una estate in cui le estati
appaiono in silhouette, e le foglie più alte

di quegli alberi che sono antichi come la tua ascendenza
stormirebbero di più sotto il respiro
del tuo bimbo che di sopra dorme.

C’è un momento in estate in cui tutto si ferma
(ma la pera non più grande di una bacca
maturerà sotto le foglie)

e tu siedi tanto a lungo alla finestra che la stanza è buia,
e solo questa pagina alzata è illuminata,
anche se le lettere le vedi appena.

Poi guardi fuori di nuovo, e il pero
è sparito, dentro al buio circostante. E il domani
d’ora in poi significa solo questo:

un giorno, poi un giorno, poi un giorno. E la vita,
che una volta era grande come quel mappamondo lì,
ti sta più stretta della tua pelle, e la puoi contare. Continua a leggere

Mario Ramous (1924-1999)

Mario Ramous

LIMITE

UNA campana è il mio cuore più cupo
d’un disperato suonare a distesa.
Non c’è riposo alla vasta ossessione
dei grilli in questa notte già recisa
dal richiamo dei treni. E il tuo viso
appena sfiorato dal mio amore
ora è già smorto, caduto. Potranno
piangere gli uomini con il lamento
lungo delle strade, potremo piangere
che non ci è dato nulla oltre il nome.
Ricordo solo il tuo seno malato.

 

A MEMORIA

ERI come il cadere molle dei colli alla pianura,
quando si spande il caldo dell’estate,
il crescere sottile e schivo degli agnelli.
Poi il riposo, lungo e confortato di pianto.
Assopirsi lento dei sensi
e compiacersi del proprio silenzio.
Pure il tuo respiro era solo tristezza
e chiuso dolore:
un esilio vuoto di parole,
un levigato dormire.

In te era il mio gesto
come un’ombra sfiorita di accenti,
se ancora un limite mancava alla persona.

Così si spengono i tuoi occhi alla memoria.

 

PRESENZA

QUESTO incredibile pianto e il suono
che s’affloscia in sorde cavità
della ragione; il suono come vento
mutevole d’uccelli, di severi
animali inquadrati nelle valli,
immobili negli occhi. O ancora
la presenza ha un senso in questa vita
dirotta dal tempo? E forse io vivo? Continua a leggere

Alfonso Gatto (1909-1976)

Alfonso Gatto

Nella giovinezza, se non addirittura nell’adolescenza, la contemplazione dell’amore e la contemplazione della morte sono veramente nel nostro sguardo. Ma direi di più. Sono il nostro sguardo.

Alfonso Gatto

LA VEGLIA

Piove su questa casa bianca, è sera.
Lo squallore murario, nei balconi
verdi, nei raspi delle sorbe, annera.
I pavesi del lutto sui portoni

si vestono d’argento con quel lume
di cielo che rimane in alto, fioco.
Una sera di calma tra le brume
dolci del golfo, svèntola sul fuoco

del braciere una donna a sé traendo
il bambino assonnato che le pesa
sull’altro braccio. In quel che vedo intendo
spiegata tenerezza, la distesa

del mare nel suo cerulo sconfina.
Io ti parlo così con questa calma
che non è mia, è sempre più vicina
l’ora di tutti, vedo sulla palma

del lungomare la stanchezza occidua
della luce, la raffica silente.
Di controvoglia questa mano insinua
la carezza obliosa. Non è niente,

credimi, quest’effigie, questo fumo
continuo, non è niente. Negli assorti
pensieri della veglia mi consumo
per avvenenza come tutti i morti.

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Luigia Sorrentino, poesie

Luigia Sorrentino, gennaio 2020

nascosto nella tana dorme il bosco

le mani non sostengono più niente
piccole ossa, radici pietrose
di alberi accresciuti
dal seme oltre misura

l’eterno, la cosa compiuta
nella parola, appare in un coro

**

totale il sentiero della terra

la piccola forma della luce
è una fiamma,

innerva il collo
nel ritmo del torace

così dispiegata nel vento,
nello stesso petto discende

aderendo, siamo succo denso,
qualsiasi cosa, aperta e vuota

mostrata senza palmo
la sua essenza liberata
con la stessa devozione
del tradimento, di tutte le parole
si consuma l’intero universo

**

la massa del fiore
corolla di inesauribile accoglimento
urta il vento

incalcolabile il pianto, dai nudi
occhi scivola,
non è più sua
la piccola vita, si mette via

interrogata trema
fra i tronchi degli alberi

canta, così canta
tutta la notte adagiata Continua a leggere

Paola Febbraro (1956 – 2008)

Paola Febbraro

 

Se s’avvicina ciò che di me è stata
senza differenza tra chi ci fa nascere e chi ci abbandona
non è di poco conto una domanda
se non è di muoversi di stanza in stanza
ma occupar le stanze dire
non cerco strade non voglio camminare ma stare
in casa a più piani a più riprese d’ossigeno e di rose
dire: ce l’ho da fare

II

Se s’avvicina ciò che di me è stata
interrotta
allora mi allontana la sconfitta
come se non fossi stata io
convertita

ho fretta
voglio invecchiare
come la terra che sotto ha l’animale.

III

Se s’avvicina ciò che di me è stato
insonne sogno di clausura mio possesso lotta
per la supremazia dello spavento

allora trema e tremi la ragione
di uno stato terremoto
mio sesso nato da sesso uguale.

*

Ogni soffio di vento è una lama di gelo

scricchiola un velo diventato dal freddo
La natura fa visibile il respiro di anime e viceversa.
Nate comunque d’inverno
lode al Vostro silenzio e al Nostro
sesso dal primo respiro.

Da Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008 Continua a leggere

Gino Scartaghiande, poesie scelte

Gino Scartaghiande credits ph. Dino Ignani

Poemi naturali

Quando s’apre non si
ripercorre nel sogno suo
insabbiandosi come un folto
di luci già entrato e pronto
alle voci raccolte intorno.
Poi qualcuno certo si spaventa
a vederlo ma lancia una striscia
solida di conservazione
e attende gli uccelli ad ogni
bordo forcaiolo che li dissangua.
Uscire ora sarebbe entrare.
Ho concesso senza perdermi,
parlando piano lungo una parete
che subito mi riassorbiva.

*

Ho letto i miei anni
nell’insinuarsi lento
delle strade. Come un mutante
dagli occhi marini
nel bianco scomporsi
della sacralità. S’è svuotato
di nuovo. Chiunque vorrà
il mistero, e per due notti
intere, è un corpo gettato
alla fame densa dei colori.

*

Mentre passanti tra i vetri
colmi della degradazione,
anch’io più volte in
essi, l’intero discorsivo
giorno nelle relitte a riva
o in largo. Vedete ora
il distacco è
tale vicinanza. Non saprei
essere. Ma se vola
un uccello da una torre
all’altra e in mille. Saprà solo
lo spontaneo meno dell’azzurro.
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Maria Giorgia Ulbar, poesie

Maria Giorgia Ulbar

Dormo qui solo ogni tanto
su questa forma mia di materasso
con un affossamento
allungatosi nel tempo
forma di quello che sarei
fossi rimasta qui per tutto il tempo
a sporcare l’aria di me
lasciare odore nella stanza.
Invece l’aria qui è intatta
liscia e profumata
insieme alle camicie di mia madre,
solo altrove lontano ce l’ho fatta
a fare veri buchi
neri odorosi di presenza.

Da I fiori dolci e le foglie velenose, di Mariagiorgia Ulbar (Firenze libri, 2012)

*

Mi lascia insoddisfatta la montagna
e il lago si è perfino ritirato.
Un sole orizzontale mescolato
al vento e più lontano
una diga di qua alta, di là più ancora
cemento fatto a strati
l’inclinazione curva della pietra.
Tolgono il respiro le dighe che dividono
acqua forte covata che poi esplode
elettricità che scende fino a valle
e lì una fioca lampadina
a illuminare pelle su altra pelle.

Da Gli eroi sono gli eroi di Mariagiorgia Ulbar (Marcos y Marcos, 2015)

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Isacco Turina, “I destini minori”

Isacco Turina

Sentirti passare nel buio
come un seme nel frutto. Prevedere
il momento in cui mancheremo, il dopo
delle piazze crollati i campanili
superbi. Ti trovo nel buio:
da una palude immensa come un occhio
emerge la pupilla che mi sfiora. Dobbiamo
amare in silenzio la terra che ama
i morti come un marmo le sue vene.

*

Mi chiedi un figlio. Ovvero: come un dono
di carta colmo d’acqua, l’animale
che non posa sui rami e non sprofonda,
lama che divide le spighe
dai gambi, e il portatore sottopelle
di radici che ignora. La creatura
che stancherà i tuoi muscoli
fino a conoscerne ciascuno
e a tramandarti viva, ma staccato
il tuo viso da te come un affresco
mentre tu diventi muro. Mi chiedi
un figlio, dici, perché questo imbuto
che sentiamo d’essere, soffocato
di sabbia bagnata e muto benché
nutrito di tutte le parole
e d’altro ancora, restituisca infine
un granello alla terra, a tutti i libri
almeno una sillaba.

Isacco Turina, due poesie da I destini minori (Il ponte del sale, 2017)

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Lorenzo Mullon, il poeta di strada

per tanti anni
gli agenti della confusione
sono riusciti a distrarmi con i loro trucchi
poi un giorno
mentre il sole era allo zenit
le stelle sono apparse nell’azzurro del cielo

allora mi sono accucciato e ho capito
che sarei riuscito a partorire la realtà come creo i sogni
lungo lo stesso
misterioso percorso

Giannino di Lieto (1930-2006)

Ragazze in bilico

Donne giovani forse
senza volto senza corpo le voci
una voce in vena di canzonare
cela l’abbaglio di una farfalla di notte
alla luce immolarsi come valore semiotico
dei balbettamenti runici o
la ricerca assidua di liberazione
da un androne semibuio della fabbrichetta:
siamo divisi da un canale di acqua livida
contenuta fra l’erba palustre e il ciglio della strada
lungo una mattinata tersa.

da Poesie e racconti. 2005-2006. Ripubblicata nell’Antologia – Giannino di Lieto Opere (Interlinea 2010)

*

Deduzione al blu

Prevedendo una nana bianca non congiunta in abbandono
decade a giochi di chilometri sotto una cinta mineraria
come affascinati raccoglie in tracce di costellazioni
un regno di bellezza senza dubbi appollaiati all’orlo
messaggi di silenzio ruotano a conforto semplici pietre
disposte in cerchio hanno misteri di comunicazione al cielo
un turno di idee per vincere uno spazio vuoto nell’oscurità
nonostante trasparenze proprie del nuotatore subacqueo
contempla eventi lontani dove strappa storie dal cuore
una raffica come un’enorme nave dai boccaporti chiusi
il tempo di prendere contatti altri angeli o dèmoni
forniscono una base per decifrare codici agli uomini verdi
viaggiatori di una grande solitudine una stella il nostro carro
sconta la popolazione delle nubi tranquillo annichilire al rosso
non è più vicino di un castello medioevale tuttavia (Lapo)
riesce ad arretrare fino a noi deduzione al blu
òvvia come una palla di fuoco corre lontano perché
il cammino degli occhi è curvo così la frombola catturando vortici
si sente stanca, appare la gravità un manubrio
in scala d’altissime velocità per una geometria di maschere.

da Punto di inquieto arancione (Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Firenze 1972)

Ripubblicata nell’Antologia – Giannino di Lieto Opere (Interlinea 2010) Continua a leggere

Lutto nel mondo della poesia per l’improvvisa scomparsa del giovane Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

Di Gabriele Galloni mi parlò per la prima volta una mia amica, Ida Cicoira nell’aprile del 2018. Era un periodo molto difficile per me, mi preparavo a un cambiamento enorme, radicale, ma questa non vuole essere una giustificazione. Oggi so che avrei dovuto occuparmi di Gabriele, prestare attenzione alla sua poesia e per questo tornerò in seguito a parlarvi di questo giovane poeta.

Gabriele, mi scrisse Ida Cicoria, a soli 22 anni aveva già pubblicato nel 2017,  la sua prima raccolta di versi “Slittamenti” con una prefazione di Antonio Veneziani e subito dopo era uscita la seconda “In che luce cadranno”. Per scrivere il suo secondo libro, mi spiegò Ida, Gabriele aveva portato avanti un lavoro di ricerca intervistando dei malati terminali.

Non aggiungo altro. Pubblico una manciata di suoi versi… ripetendo qui quello che qualcuno dei suoi amici mi ha scritto la notte scorsa su messanger: “Gabriele si è addormentato e non si è più svegliato”.

Ciao, caro Gabriele. Perdonami. Non ho saputo difenderti.

LUIGIA SORRENTINO

______

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile.
Sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

*

Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni. Tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro

le coordinate per un’altra vita.

*

Scappi via e ridi; lasci che la schiuma
ti evapori nel tuffo – e piena l’onda
già ti fa ruzzolare sul fondale.

Questi anni nostri non avranno male;
saranno sempre gli anni del Miracolo
per ogni luce che mi indicherai

spegnersi a basso volo sopra i campi
di Torvaianica.

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Cesare Pavese, una poesia

Cesare Pavese

INCONTRO

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.

L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino, Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.

L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.

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Bianca Garufi, il volto delle donne

Bianca Garufi

“Tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. A volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. Anzi allora mi immagino di fare le due cose insieme e questa è tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola.”
Cesare Pavese

Pavese dedica a Bianca Garufi i “Dialoghi con Leucò”, trasposizione greca del nome Bianca. Lei è per Pavese, la Musa e l’interlocutrice ideale dei Dialoghi.

Una poesia di Bianca Garufi

Sono stata cavalla
mucca farfalla
Sono stata una cagna
una vipera un’oca
Sono stata tutte le cose mansuete
e ampie della terra
il vuoto del corno che chiama alla guerra
l’oscuro tunnel dove sferraglia il treno
la caverna a notte dei pirati
Sono stata quella che sempre deve essere là
una certezza quadrata
Sono stata tutto ciò che poteva servirti
a prendere il volo
sono stata anche tigre
cima e voragine
strega
sacra e terribile bocca dentata
Come avresti potuto altrimenti essere tu il cacciatore
l’esploratore
l’eroe dalle mille avventure?
Sono stata persino terra e luna
perché tu potessi metterci
il piede sopra
E adesso
questa ruota si è fermata
devo fare una cosa
mai fatta forse mai esistita
una cosa anche per te ma
soprattutto per me
per me sola
tanto autentica e nuova
che trema persino il volto della vita. Continua a leggere

Danilo Bramati, una poesia

Danilo Bramati

Mai, in verità, ho raggiunto
le soglie estreme del silenzio.

Mai, mai, neppure
quando ascoltavo il grande platano
sillabare nella nebbia,
quando tacevo con gli amici,
con la gente.

C’è un silenzio oltre quel platano
un silenzio oltre il silenzio.
Guardo il cielo che si oscura:
in ogni stella una stella tace.

Danilo Bramati, “Dietro ogni silenzio”, ATì ed.

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Fabrizio Lombardo,”Coordinate per la crudeltà”

Fabrizio Lombardo

Scrivo il falso – spesso – e svendo le parole
mischiando vergogna e vita vera con la sintassi
della menzogna. Non chiamarlo progetto di poetica
geometria binaria, o gioco d’ombre. Serve più coraggio
a vivere i pochi gesti possibili/ quelli rimasti.
Qualche respiro preso in prestito. La notte, nelle case.

*

Sei la terra e la morte. E forse è il nostro tempo
questo disfare/ e trattenere poi tutto
in una mano. Le case tra gli alberi
tratteggiano una linea dietro la collina.
Sono un margine qualunque d’esistenza
e basterà la prima nebbia oggi, o il fumo
delle fabbriche, a cancellarle.

*

Una natura come questa spaventa. Ci sposta
in un angolo del paesaggio. Siamo la firma.
Le due lettere in basso tra scogliera e cielo. Continua a leggere

Jolanda Insana, “Frammenti di un oratorio”

Jolanda Insana, credits ph Dino Ignani

.

accurrìti accurrìti gente
me figghia me figghia
portate una scala
me figghia
’na scala ’na scala
pigghiate me figghia
accurrìti accurrìti
u focu u focu
sa mancia
viva
a fini du munnu
a fini da so vita
viniti curriti
’na scala
tièniti tièniti
figlia

***

scanto
scanto grande
e mascelle serrate
narici aperte per assecondare il respiro
strette le chiappe per darsi un contegno
molli le gambe nel sobbollimento
di terra e mare
e gli occhi aggrottati
nel boato
finita
è finita la vita
ma riprende a fiatare
disserra la bocca
si tocca la testa
con due dita si carezza le guance e trema
non sa cosa c’è dietro la porta
di lì è passata la morte

***

impazzirono
e avevano sete
e non avevano acqua
e nudi correvano
alle finestre senza vetri
al balcone franato
con gli occhi insanguinati
in pianto Continua a leggere

Pierluigi Cappello (1967-2017)

Pierluigi Cappello

Lascio la camera com’era quando era nei tuoi occhi,
incontrarti è il sapore che trattengo nel sorso di caffè.
Tra il piacere e quel che resta del piacere
il mio corpo sta come un posto dove si piange
perché non c’è nessuno.
Un giorno settembre era limpido e ventoso
il silenzio ammutoliva, la terra tornava al cielo.
da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti Editore, 2010

Dal desiderarti al pensarti mia
sei rimasta tu, mentre entri e ti siedi.
La luce ti viene alle spalle dalla porta socchiusa,
il pruno lascia il suo bianco al mattino.
Cosí intonati, il bianco e il pruno
fermi nel sole, noi.
In questa maniera gli alberi parlano al cielo
l’ombra degli alberi cresce lungo le iridi
verde piú cielo
in questo modo di stare, precipitati.

da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti Editore, 2010

Dal desiderarti al pensarti mia
sei rimasta tu, mentre entri e ti siedi.
La luce ti viene alle spalle dalla porta socchiusa,
il pruno lascia il suo bianco al mattino.
Cosí intonati, il bianco e il pruno
fermi nel sole, noi.
In questa maniera gli alberi parlano al cielo
l’ombra degli alberi cresce lungo le iridi
verde piú cielo
in questo modo di stare, precipitati.

da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti Editore, 2010

Ci vuole un’estate piena e un padre calmo,
un dio non assisoin mezzo agli sconfitti
ma così in tutta bellezza lo posso immaginare
come un bambino alle prime pedalate,
reggilo, eccolo, tienilo così – adesso tiene
uniti la terra e il cielo dell’estate
non sbanda più, vince, è in equilibrio,
vola via.”

da Assetto di volo: poesie 1992-2005 Crocetti Editore, 2006 Continua a leggere

Franco Fortini (1917-1994)

Molto chiare…

Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.

Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.

(da Paesaggio con serpente, 1984)

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“Olimpia, tragedia del passaggio”

 

PREMESSA

di Luigia Sorrentino

 

Olimpia, Tragedia del passaggio (in scena al Napoli Teatro Festival Italia al Giardino Romantico di Palazzo Reale il 16 luglio 2020, h.22.30) trova la sua ragione più profonda nella distanza dell’uomo contemporaneo dal suo frammento divino.

*

Questo primo testo scritto per il teatro, che riprende alcune sezioni di Olimpia (Interlinea 2013) si presenta con un altro titolo e un nuovo personaggio, Empedocle.

*

Il tema centrale di Olimpia, tragedia del passaggio è il transito fra nascita e morte, un passaggio senza peso, privi di qualsiasi sostegno materiale: «Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo già stati.» (v. in Olimpia, “La discendenza” pag. 79, Interlinea, 2013-2019).

*

Voltarsi indietro significa quindi, entrare in dialogo – nella contemporaneità – con l’elemento poetico universalmente umano che porta a toccare la divinità, il canto dell’infinito radicato nell’umano, che ha origine in antiche tradizioni preelleniche, oscure, ctonie. Il transito ci conduce, pertanto, all’origine del linguaggio, alla meraviglia di un mondo che rinasce in forma di parola. Continua a leggere

Bartolo Cattafi (1922 – 1979)

Alle porte del Sud róse dal mare
agavi e capre bivaccano covando
il sangue fatto polvere nei secoli
vecchio odore immobile del mondo.

Mezzogiorno su razze dolorose
favola sbarcata come un padre
lamento della sete dei cammelli
ogni ulivo è per te una bandiera
ogni cuore l’arancia ritrovata
ogni donna la cavalla cavalcata.

Colmate le chiese d’incenso e di gridi
come battelli di spezie e di limoni
fanciulle atroci sull’antica schiena
affogano cantando il grosso sesso
uccello starnazzante rosso e nero
in un bagno mordace d’acquasanta.

Caldo corpo di favola e fuga
tinnante del frumento dalle pietre
Scirocco spada di Dio in processione
rosa in mano alle grige famiglie
nuvola e sonno maturo sopra i tetti. Continua a leggere

Lucio Piccolo (1901 – 1969)

Da sinistra Gioacchino Lanza Tomasi, Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando

Le sognanti, lontane ombre che sono
dietro le tue parole questa notte,
fantastiche o dolenti le portava
la corrente dei giorni, il vento che apre
i colori, ed ognuna il suo segreto
di dolore o di gioia che il destino
segnò e il buio chiude;
e ancora altre ne chiami
che dileguando diedero un’impronta
di lume: la promessa di un ritorno;
mani che schiusero i riposi,
occhi che riflettevano i meriggi
sotto i rami, le foglie della vite
che il raggio fa vivaci, oh le stormenti
stagioni attorno ai volti, le ore
che scendevano a noi come in dolcezza
umana fatte miti da uno sguardo;
viva siepe, riparo che fa
sicure in cerchio notti, albe, tramonti,
e come pienamente
rispondevano ad ogni sole
che mai le avrebbe, mai sfiorate il rombo
del mistero; ma in fondo ad ogni svolta
è il dolore, la cenere che tocchi
si riga: brace e sangue.
E sul quadrante gira una segno
indietro lascia la vacua spirale
dove l’anima è presa, e fuori attorno
ferma è la notte come una memoria
di sempre; sul piano
pietroso che sovrasta al mare basse
macchie di luna e cespi,
tarde stuoie di nuvole e un’ansia
s’alza d’ignoto, ricade; respiro
dell’aria scorre tra le gole, tocca
la paglia sotto il ponte, alle pareti
della cava risale e sopra i margini
si cela tra le foglie degli ulivi.

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In memoria di te, Alberto Toni

Alberto Toni, per gentile concessione della famiglia

A un anno esatto dalla scomparsa del poeta italiano Alberto Toni, (1954-2019) pubblichiamo il ricordo della sorella di Alberto, Alba Toni.

 

COMMENTO DI ALBA TONI

Avevo un fratello fantastico, amatissimo, era il mio unico fratello, la mia vita. Alberto Toni, uno dei più importanti poeti contemporanei, è stato mio fratello. Con lui ho vissuto fintanto che ho potuto averlo accanto, questa dicotomia tra la figura istituzionale del poeta e l’affetto fraterno profondo che ci legava. Alberto muore il sei aprile 2019, lo scorso anno, dopo una malattia feroce quanto fulminante, consegnandomi in un istante alla solitudine di un mondo tanto familiare ma anche d’improvviso estraneo, assente.

Ci vorrà del tempo per capire come recuperare quel linguaggio condiviso da noi e che possa essere compreso anche da altri, qualcosa che stia in bilico tra quello che eravamo insieme e quello che era lui, da solo.

Ho ripreso recentemente alcuni suoi inediti, inediti nel senso pubblicati non su libri, che sono usciti in edizioni originali simili a piccole stampe colorate di rosso, si tratta di una piccola raccolta intitolata Gatteria, dalla Collana Exemplar di Poesia diretta da Francesco Guadagnuolo che esce in prima edizione nell’ottobre del 1995. Continua a leggere

Dario Bellezza (1944-1996)

Dario Bellezza

Salgo e scendo le scale di una casa non più
castello di forti speranze o robusti amori, ma
che tessendo le fila dei miei disfatti giorni
annunzia inesorabile la voragine della sventura.
Lì, durante la scalata faticosa al vecchio
maniero abitato dai fantasmi sento voci precise
che appartengono all’incubo di notti cadute
addosso alla mia infanzia celeste nutrita
di ardori sconosciuti e angelici languori.

Fantasmi di amori morti, amicizie consumate
dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile
abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.
Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro
a casa furtivamente, sospetto di morire
per mano di un giovane assassino dietro
un angolo buio. Così appena arrivato, pieno
di sgomento ed eccitato dal mio sangue
non versato, alzo a me stesso la preghiera
solitaria di chi noti’ s’innamora più
del suo assassino innocente e reale. Continua a leggere

Luigia Sorrentino, da “Inizio e Fine”

Luigia Sorrentino

I

non credeva che le onde
parlassero vicino al canneto
le note più lievi vennero da lì
in un pomeriggio di polvere e vento
l’ultimo giorno di agosto

legava a un filo l’odore della terra
sottraendola alla perdita

la misura più breve guastava
il cuore del tempo

II

per tutta l’estate gli alberi piansero
sangue vischioso
l’occulto si era disciolto sulla corteccia
bruna

venne a renderci omaggio
l’opacità delle cose ultime

l’ultima stagione ci lasciò
in un’angoscia secca
eravamo caduti nell’ordine
della fine

III

la luce opaca preparava
un lago inespresso

raccolta negli occhi
la terra che nessuno possiede
attendeva

pretendeva, dall’inizio alla fine
ogni cosa che vive, il suo nome Continua a leggere

La voce spezzata di Mario Benedetti

Mario Benedetti, credits ph Dino Ignani

Cosa devo guardare per sentire che non è così vero,
e riuscire a spostarti nelle faccende di casa,
a risospingerti lungo le strade. E tra le righe
vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco
ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli,
gli anni Trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza.
E tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno,
quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedí,
tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita
con l´abito blu che mi avevi regalao e tutto il ricamo
del foulard. Così tanto elegante, cosí tanto bello. Continua a leggere

Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Prefazione di Luigia Sorrentino

In questi versi ulcerati di Giovanni Ibello c’è un sopravvissuto che invoca la rivoluzione dal margine dell’abbandono. La città sulla quale riversa lo sguardo il poeta non è patria madre per Amin – figura centrale del poemetto – ma nemmeno per l’altro protagonista di questi versi che condivide con il compagno la frustrazione della cancellazione. Il primo frammento del poemetto è già un avvertimento per il lettore: “La poesia è un lunghissimo addio”. La parola di questa poesia rivela fin da subito la cronicità della separazione, addio, miseria, segregazione si annidano in questi frammenti insurrezionali. I versi sorgono quindi da un grido di addio, dalla rinuncia a “fare alta la vita”, contratti come sono nel loro stato di alienazione, fino allo spasimo dell’ultima variante. Una parola potente che tocca la condizione umana tesa sul cavo di un burrone, una parola folgorante che si fa carico di qualcosa che non riguarda solo la capacita versificatoria di Giovanni Ibello. La lingua del poemetto, ha infatti, una prospettiva ampia, che parla di una generazione disposta a morire e a risorgere con Amin, con versi memorabili come questi: “Ci lega la parola feroce, una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido,/ tu che muori / in quell’assillo di aranceti / che ritorna.” Il cifrario della poesia di Ibello è uno Yucatan, inteso come luogo irraggiungibile e impenetrabile, che però, alla fine, trova nella cancellazione la tenerezza della visione: “Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare.” Ecco che la voce del reietto si fa espressione di una mutazione creaturale e lascia intravedere “un rammendo di secondi luce” che lenisce le ustioni provocate dalla violenza dell’esperienza terrena. Versi che rivelano che la speranza nasce dai disperati, dagli abbandonati: saranno loro a trovare “un altrove di spine e diademi.”

Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello (premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita). Continua a leggere

Emilio Rentocchini, “44 ottave”

Emilio Rentocchini, credits ph. Giorgio Gilberti

Tre e-mail
a Maria Cristina Cabani
sull’ottava

(Estate 2014)

– Caro Emilio, in attesa di spedirti il libretto /Amori/, che è finalmente uscito, mi rivolgo a te in cerca di suggerimenti. A settembre andrò a Città del Capo dove sono stata invitata ad un Convegno sulla poesia del ’900. Avrei intenzione di parlare della fortuna dell’ottava e dei poeti che la usano, prendendo le mosse dal /Requiem /di Patrizia Valduga.
In particolare vorrei esaminare come i poeti sfruttano la doppia natura, lirica e narrativa, del metro (tu mi sembri uno dei pochi che ne apprezza la liricità). Ti chiedo se puoi indicarmi interventi o saggi in proposito (anche e soprattutto tuoi) e anche se puoi dirmi in poche parole che cosa ti affascina dell’ottava, visto che è fra le tue forme predilette.
Un caro saluto.

Cristina

Temo, cara Cristina, che ti toccherà concentrarti sulla sfortuna dell’ottava nel Novecento, perché, a memoria, non mi viene in mente nessun poeta che l’abbia usata: a parte Sanguineti. Mi sembra anche di ricordare che nel discorso di accettazione del Nobel, Montale abbia esplicitamente affermato che nel suo -e nostro- secolo non si poteva più scrivere in ottave.
Comunque, per quel che mi riguarda, si è trattato di un colpo di fulmine, dopo aver riletto tutto d’un fiato il Furioso, nei pigri pomeriggi della primavera del 1988.
Ero partito con l’idea sonnolenta di leggiucchiare qua e là, in un noiosissimo periodo di insegnamento, dal quale tornavo avvilito. Be’, la magia del cristallino e liquido
endecasillabo ariostesco mi obbligò a leggerlo avidamente, senza scartare un verso, senza perderne una sillaba, o meglio, una nota…
E mentre leggevo mi chiedevo se non si potesse arditamente provare a riprendere in dialetto quella struttura di otto versi, coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo; in cui ogni cosa aveva trovato il suo posto, alonata di stupore. Il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso
dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo, pensai in conclusione. Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse
a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica, su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.
Altro grande vantaggio dell’ottava, poi, la brevità memorizzabile che mi permetteva di lavorare a mente, in qualunque momento: di levigare e ritoccare e portare a compimento senza bisogno d’altro che di una buona concentrazione… non mi è mai piaciuto scrivere. Con la sensazione di poter tenere dentro quello scrigno da niente musica e pensiero, poesia e poetica. Continua a leggere

Vittorio Bodini (1914 -1970)

Vittorio Bodini

Piano si staccano
i tocchi
da un orologio e nuotano
fra pioggia, vento e vetri di finestre.
Le terrazze tamburellano
come teli da tenda
e il grido dei fanciulli:«Aea!» si perde
nelle vie
come pei corridoi
d’un castello assediato.
Inverno assediatore
vecchiaia dell’anno,
mette angoscia nei sensi,
chiude il domani.

Ma lasciamo un momento questa città.
Andiamo nel sonno,
andiamo a vedere che succede.

*

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell’ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.
Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.

Vittorio Bodini, due poesie da La luna dei Borboni, Edizioni della Meridiana, Milano, 1952. Continua a leggere

Piero Bigongiari (1914-1997)

Piero Bigongiari

Pescia-Lucca

Ho vissuto
nelle città più dolci della terra
come una rondine passeggera.
Lucca era
un nido difficile tra le vigne
impolverate in fondo a bianche strade,
donde sarebbe traboccata
con ali troppo folli
pe’ tuoi cieli molli, Toscana,
antica giovinezza.
Malcerta ebbrezza, malcerta infanzia
lungo le case di Lunata
sfiorate in tram accanto al guidatore,
la morte è questa
occhiata fissa ai tuoi cortili
che una dice sorpresa
facendosi solecchio dalla soglia :
è nata primavera,
sono tornate le rondini.

Piero Bigongiari, da Le Mura di Pistoia, Mondadori, 1989. Continua a leggere

Alfonso Gatto, una poesia dedicata al padre

Alfonso Gatto

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
– Com’è bella notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba. Continua a leggere

L’essenzialità luminosa della poesia

COMMENTO DI NADIA AGUSTONI

La nuova raccolta di poesie di Francesco Balsamo è di un’essenzialità luminosa anche nel non concedere alcunché al sentimentale. Versi scavati di grande misura stilistica, in sintonia col lavoro precedente di un autore che è artista a tutto tondo ed è uno dei pochi capace di usare, oltre alla parola, la matita.

Il connubio poesie e disegni non potrebbe essere più felice. Si ha l’impressione di attraversare un paesaggio onirico, con richiami a tratti cinematografici (l’ultima Agnès Varda), ma sicuramente vicino alle immagini del miglior fumetto (penso sopratutto a un’autrice come Carol Swain con la sua vicinanza agli esseri più feriti, siano umani o animali, fino a trascriverli l’uno nell’altro); è infatti su questo confine umano/animale luce/ferite/ferirsi, che i testi si raccolgono e si fanno traccia di un percorso di una sensibilità lucidissima. Continua a leggere

Luigia Sorrentino, “Lo slancio della rosa”

Luigia Sorrentino

Lo slancio della rosa

il silenzio della rosa, della pace ferma
nel gomito sulla fronte di aprile
nascesti imperlato nella casa doveva essere
l’ultima in una primavera in cui fummo
davvero soli
portavamo lo stesso sangue
la stessa cellula che fu accanimento
accadimento anche precoce
la meraviglia era voce che spariva nella stanza
voce lenta
dove rimbombava la rosa
stesa nella domenica

non ricordo l’esattezza del timbro
né il carnevale che provavo in quella stessa ora Continua a leggere

Umberto Piersanti, da “I luoghi persi”

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

L’isola

Ricordi il mirto, fitto tra le boscaglie
bianchissimo e odoroso, scendere per i dirupi
sopra quel mare? e le capre
tenaci brucare il timo, l’enigma
dello sguardo che si posa
dovunque e sempre assente?

più non so il luogo dell’imbarco
come salimmo nel battello
quali erano le carte per il viaggio.

Scendevi alta per lo stradino polveroso
antica come le ragazze
che portarono i panni alle fontane
la tua carne era buona come la loro.

Férmati nella radura dove il vento
ha disseccato e sparso i rosmarini
qui potremmo vederle se aspettiamo
immobili alle euforbie quando imbruna
vanno alla bella fonte degli aneti
giocano lì nell’acqua e tra le erbe
e mai s’è udito un pianto
sono felici.

Tu eri come loro, solo una volta
quando uscivi dal mare, ti sei seduta
nei giardini del tempio, un’ombra appena
trascorse di dolore nella faccia.

Seppi così che il tempo era finito
che tra gli dei si vive
un giorno solo.
E riprendemmo il mare
normali rotte.

Qualcun altro s’imbarca, attende il turno
né l’isola sprofonda
come vorrei

(Gennaio 1990) Continua a leggere