Il gesto atletico nella poesia di Milo De Angelis

Milo De Angelis, Credits ph Viviana Nicodemo

Vicina all’anima è la linea verticale.
Il pomeriggio ci portò suburbani in un canto,
l’attimo divenne nudità
e potenza greca del finale: siamo i supplici
rimasti ad ascoltare, il cielo che nasce
in ognuno di noi, pattuglia di ragazzi
innamorati del numero giusto,
la bella epopea, il peso mortale di un pallone.

da “Alfabeto del momento”, in “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, Mondadori, 2010.
*

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Pier Paolo Pasolini, “Il pianto della scavatrice”

I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando. Continua a leggere

Giacomo Leopardi, “O mia diletta luna”

CANTO XIV

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Molto spesso nelle sue liriche Giacomo Leopardi si rivolge alla luna.  Siamo a Recanati, molto probabilmente sul colle dove il poeta scrisse “ L’infinito”, e in questa lirica quello che ci sorprende è la delicatezza del ricordo,  un ricordo che il poeta definisce pieno di angoscia.   Ma ora Leopardi ha lasciato da parte quell’angoscia giovanile proprio perché la ricorda in una dimensione diversa che fa pensare che l’abbia superata come “ picciol cosa”. Continua a leggere

Mariangela Gualtieri, “Quando non morivo”

Mariangela Gualtieri, credits ph Dino Ignani

IL QUOTIDIANO INNAMORAMENTO

L’amore mio ha tanti di quei nomi.
Batte le foglie a volte come cielo
che scende in gocce. Tira via le foglie
secche e le trasporta in volo.
A volte l’amore mio sorge e risplende
a volte per un momento breve
mi guarda sul sentiero con occhi
spaventati di capriolo. Ha molte facce
l’amore mio. Umane facce
e musi. Ha tutte le parole.
Ha note, sinfonie, voci cantate.
Ha un vuoto così grande
che mi accoglie mi chiama mi
atterrisce. L’amore mio.
Mi consola e mi duole.
E non muore – non muore.
Da forma a forma fiorisce. Continua a leggere

Assunta Finiguerra (1946 – 2009)

Assunta Finiguerra

L’uómmene pe mmé so state chiuóve
cadàvere de sole sope ô fiume
circhie de fuóche p’allazzà ’a lune
e àrdele cume appene ’a guardaie

Si tene nu mualepunde criste mie
falle murì mò ca è peccenénne
accussì pregaie notte e juorne mamme
penzanne de fermà ’a malasorte

Oie mammarella mie, destine e cazze
ósce so na farfalla mbusumuate
na fémmene ca nun pote cambià ’a mute
pecché ru ssuale de préte nge à ffatte

qual’amore, quala morte, nesciune
me pote ajutuà, so acqua passate
rame de presche da u viénde snervate
e fenute pe ccunduanne a restà nvite Continua a leggere

Nadia Campana (1954 – 1985)

Nadia Campana

Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete.

*

Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti della notte
Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi
Ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!
Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta
ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente
Guarda il campo
è così calmo, smisurato, stamattina.
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Danilo Bramati, da “Chiaro enigma del mondo”

Danilo Bramati

Il mondo stabile non mi parla più.
Lingue oscure, le foglie.
Tengo la sigaretta
come ruotando una clessidra,
filo di brace e cenere
misurato nel silenzio.
E sale, sale quell’ala grigia
oltre il muretto scalcinato…

Pioppi, magnolie, platani,
siete il tempo che non torna,
il verdeoro che mi piaceva
è un groviglio senza cura.
E il giardiniere non risponde.
Solo l’albero di Giuda è identico
contro un cielo fluttuante.

Penso: così si spogliano le cose,
non uno schianto, o un lamento, ma il sibilo
della serpe acquattata
dietro la siepe delle rose
che a notte fonda morderà.

L’ultimo tiro. È tardi.
Seppellisco il mozzicone
fra i sassolini pieni di ombre.
Qualcosa striscia nell’erba fredda…
Si gela. Quasi quasi torno dentro. Continua a leggere

Ferruccio Benzoni, da “Fedi nuziali”

Settembre le foglie

Settembre mi sgela da un torrido
d’afa: mai amato questo mese.
Ma non è immemore il tempo:
presto o tardi si contraddirà
e io con esso restituito
a una felpa di passi sulle foglie.
Non andrò più incontro a un’altra
estate – non sarà più Vaucluse.
E d’altra parte una gioia
d’anni miniaturizzabile in giorni è un amore
lascivo o semplicemente intenso.
Ma tu irripetibile che mi guardi
– l’amore che ti do è il mio
coraggio e la miseria
da settembre più tetri stillati
da un pozzo di foglie e veleni.
Aiutami aiutami a incespicare
sulle più non fiammanti foglie-rendimi
a una stagione ferita tuttora ardente.

Altra guerra

                              a Vittorio

Rideva con tutta la nicotina della guerra
delle minute possibili catastrofi
di una guerra girata altrove.
non l’amore gli faceva torto
se un fiume fulgeva o un amico
ma uno sgarro di devozione
alla gioventù: la vita girata altrove. Continua a leggere

Patrizia Valduga, da “Requiem”

[Il cuore sanguina, si perde il cuore]

 

Il cuore sanguina, si perde il cuore
goccia a goccia, si piange interiormente,
goccia a goccia, così, senza rumore,
e lentamente, tanto lentamente,
si perde goccia a goccia tutto il cuore
e il pianto resta qui, dentro la mente,
non si piange dagli occhi il pianto vero
è invisibile, qui dentro il pensiero.

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Valerio Magrelli, da “Ora Serrata Retinae”

POESIAFESTIVAL 2014
photo Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

Preferisco venire dal silenzio
per parlare. Preparare la parola
con cura, perché arrivi alla sua sponda
scivolando sommessa come una barca,
mentre la scia del pensiero
ne disegna la curva.
La scrittura è una morte serena:
il mondo diventato luminoso si allarga
e brucia per sempre un suo angolo.

Io abito il mio cervello
come un tranquillo possidente delle sue terre.
Tutto il giorno il mio lavoro
è nel farle fruttare,
il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
mi affaccio a guardarle
con il pudore dell’uomo
per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
come un tranquillo possidente delle sue terre.

La porta si chiude modulando
nei cardini il suono del corno.
È il canto della notte
l’armonia che giaceva
ignorata nel legno.
Chiunque passando provoca
la musica sepolta, ogni volta
riaffiora disuguale.
Forse un linguaggio ne governa
I termini e le misure, forse il caso.
Il discreto disegno
della ruggine e dell’acqua
narra la segreta epopea della soglia. Continua a leggere

La poetica del frammento di Piera Oppezzo

Piera Oppezzo

TRA LE ROVINE DELL’ESSERE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Un’ansia insopprimibile scuote la vicenda esistenziale di Piera Oppezzo e ostinatamente pervade la parabola della sua ricerca letteraria, dagli anni della sperimentazione a quelli intorpiditi dal silenzio della solitudine. Il dettato disadorno, privo di orpelli, riconducibile a una sorta di poetica del frammento, rivela l’ascendenza dickinsoniana di un universo circoscrivibile ai confini di una stanza. Se la vita è un esercizio di disciplina continuamente minato dalla paura della paura, la scrittura è un compito da assumere con spirito di abnegazione. Benché saccheggiata, fragile, isolata, la poetessa riesce a cogliere l’istante in cui è in procinto di germogliare una ferma utopia – probabilmente la riflessione femminista sulla necessità di un’emancipazione autentica. Rinnovarsi, per quanto vanamente, equivale a sopravvivere, mentre l’amore si decompone e il muschio ricopre la memoria.
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Mariella Mehr, nata sghemba

Mariella Mehr / Credits ph Dino Ignani

Nichts,
kein Ort.
Es lärmt noch immer
Das Unheil im Kopf,
und auf der Himmelskarte
bin ich nicht vorhanden.

Niemals war Frühling
Flüstern die Aschenstimmen,
auf der Sprachwaage
sei ich ein Wort ohne Gewicht
und beschneide die Zeit
mit bewaffneten Augen.

Zukunft?
Sie spricht mich nicht los,
mich Schiefgeborene,
Komm, sag sie,
der Tod ist eine Wimper
am Lid des Lichts.

***

Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
Di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.

Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.

Futuro?
Non assolve
Me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce. Continua a leggere

Corrado Benigni, da “Tempo riflesso”

In un atomo tutto è già scritto,
prima di noi.
Solo il buio mette davvero a fuoco il cielo,
questo è l’indizio.
Tieni un margine bianco sul fondo della pagina,
annoda in una parola suoni e volti,
i dettagli destinati alla perdita.
Un nome è il fossile che lasciamo.

*

La fotografia è un testimone che non mente
porta impressa, sicura, la memoria,
come la superficie l’orografia di un paesaggio.
Siamo se non nel segno di chi scrive
o guarda.
Così ci specchiamo nei corpi non trasfigurati
di un’immagine, nella loro violacea penombra.
Ma cosa divide dal nostro il loro destino?
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Tre poesie di Stefano D’Arrigo

Stefano D’Arrigo

Più di tutti mortale, trafelato,
tu più solo sei vissuto nel giro
degli orologi fatti a mano,
le improvvise clessidre del tuo male
donde quaggiù colava così esatta
coi granelli di sabbia raggelata
la tua noia infinita ove ti disfi.

*

Oggi tu alzi le tue mani a scudo
sul tuo petto assalito dalla luce,
alzi la voce, oh lancia che difenda
da quel drago favoloso tra di noi.
Così tu muori inerme, ti sfiguri
nei nostri gridi quando è notte o volo
di corvi notturnanti nel tuo sguardo. Continua a leggere

La parola tagliente di Jolanda Insana

Jolanda Insana, Credits photo Dino Ignani

Da: La tagliola del disamore, Garzanti, 2005.

la voce soffocata
suono vuoto
del vuoto
crea un sussulto
di tuono

Dalla plaquette: Due volte sette sono le parole, Le farfalle, 2018.

figlia di Inaco
Io desviata
due volte sette sono le parole
sale il dolore dai piedi alla testa
scende il dolore dalla testa ai piedi
ma arriverai al mare
al passo della giovenca
e farai il Bosforo
non più aggiogata alla collera
di Era ghiacciata

dio incatenato
incatena tu
l’anello che non tiene

* Continua a leggere

Stefano Dal Bianco, silenzio e volontà della parola poetica

Stefano Dal Bianco

In occasione della imminente presentazione a Pordenonelegge del volume di Stefano Dal Bianco” “Distratti dal silenzio” – Diario di poesia contemporanea – Quodlibet, 2019, (Pordenone 21 settembre), riportiamo qui la Prefazione scritta dall’autore, “Distrazione e silenzio”. “I poeti meritano ascolto?” si chiede Dal Bianco “O qualcuno sta abdicando al proprio ruolo?”. Attraverso saggi, interventi a convegni, prove di autoanalisi, interviste, il poeta analizza le questioni centrali per la poesia italiana degli ultimi trent’anni. Una rara forma di testimonianza, fra la dedizione al silenzio e la volontà di condivisione del dire, come fa la poesia.

Distrazione e silenzio

L’opera esprime senso attraverso l’ascesi nei confronti del senso. [T.W. Adorno]

Ciò che è divino è senza sforzo. [Eschilo]

«Distratti dal silenzio sono forse i poeti. Non tutti: ce n’è qualcuno, e non per forza dei peggiori, che se ne infischia del silenzio, ma questi a noi interessano poco. Quello che vogliamo è un indugio nella morte, per attraversarla con amore e arrivare di là, dall’altra parte, dove la nostra esistenza avrà un significato meno provvisorio di quello che siamo abituati a conferirle. Per farlo bisogna essere bravi, bravi nella vita e bravi nell’ascolto della lingua. È così che amare e respirare saranno per noi la stessa cosa. Una cosa per cui vale la pena di lavorare, di impegnarsi». Continua a leggere

Per Alberto Toni, in memoria

Alberto Toni / Credits ph. Dino Ignani

Piove a dirotto e là sullo scoglio
dei miei segreti c’è tutta la solitudine
del mare. Sì eccomi piccolo e solo
mentre mi giri intorno, amore. Sai
la fatica delle parole che ritornano
a frotte nei giorni della conta e del
destino segnato. Inseguo l’altra faccia
della medaglia, la lieve incrinatura
del legno.

Alberto Toni, da “Mare di dentro” (Puntoacapo, 2009)

*

Qualcosa dovevamo perdere,
un granello appena stinto,
sembra ieri. La ragione non sfugge,
no. Nell’incavo degli anni, appena
una memoria raccolta, in chiusa,
come distorta, sfilacciata. Chiedi
aiuto e ti ritrai, rimargina il viso
ogni cosa.
Ti batti per un pensiero buono,
ancora per noi, nel sentiero aspro
del margine. Che vedi? Che scomponi
con le mani in attesa di dirci: non andate?

Alberto Toni, da “Il dolore” (Samuele Editore, 2016)

NOTA A MARGINE

 

Il 6 aprile scorso è scomparso prematuramente l’amico e poeta Alberto Toni.
Le poesie qui proposte, scelte da Giovanni Ibello, sono l’occasione per ricordare un evento recente che ha coinvolto in prima persona i giovani allievi di Alberto, gli alunni dell’Istituto Comprensivo “Alberto Sordi” di Roma dove Alberto Toni ha insegnato per anni. Continua a leggere

Una “crepuscolare inquietudine”

Giovanni Pascoli


LA RICERCA DELLA PERDUTA UNITA’ IN PASCOLI

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

“Il gelsomino notturno” di Giovanni Pascoli – poesia inserita nella raccolta “Canti di Castelvecchio” (1903) – è un esempio significativo della poesia simbolista di Pascoli dominata da un senso di “crepuscolare inquietudine”: la corrispondenza tra vita e morte identificata dall’autore fra gli elementi della Natura.  Ecco che una poesia come “Il gelsomino notturno” rimanda, attraverso immagini naturalistiche,  al mistero del concepimento, ma anche alla perduta unità fra umano e natura: “i petali un poco gualciti“, “l’urna molle e segreta”, la “felicità nuova”, che simbolicamente alludono al mistero della donna percepita dall’autore come Natura in perenne metamorfosi.
Compito del poeta è – come scrive Baudelaire – saper cogliere “echi che a lungo e da lontano / tendono a una profonda, tenebrosa unità.”
Analogamente Pascoli esprime l’idea di unità umana e profonda nei compiti che affida al poeta nel suo famoso testo intitolato “Il fanciullino” in cui si legge: “I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili.
Egli è quello che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; Continua a leggere

Maurizio Cucchi, la forza della poesia

In occasione della imminente presentazione a Pordenonelegge del nuovo libro di poesie di Maurizio Cucchi, “Sindrome del distacco e tregua” Mondadori, 2019, (Pordenone 20 settembre), vi presentiamo alcuni estratti dalla sezione “La chiave di volta”. In queste prose Maurizio Cucchi porta a pieno compimento il superamento dei generi letterari cominciato più di dieci anni fa con “Vite pulviscolari” poi con “La maschera ritratto” e con “Malaspina”. L’autore crede, da un lato, a una prosa che abbia l’intensità e la comprensione potente della poesia, dall’altro, sostiene una poesia capace di assorbire, nell’intensità e nella varietà della parola, il racconto e il pensiero.

ESTRATTI

Osservo dalla mia finestra la chiave di volta della casa di fronte e subito penso a un ritmo scandito perfetto, a una musica, insomma, a un movimento, un movimento del corpo. E insieme penso a una provvisoria matematica esattezza, e soprattutto a un campo più vasto, un campo aperto di possibilità molteplici, o forse infinite, un campo intrecciato di corrispondenze sottili e di rimandi, di percezioni sensoriali diverse, leggibili, appunto, come “foreste di simboli” ai più sconosciute, dove “profumi, colori e suoni” portano in sé il progetto compiuto di un pensiero nascosto. Continua a leggere

Ungaretti, l’autorità della poesia

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

IL MISTERO DELL’ESISTERE

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

La poesia “Il porto sepolto” di Giuseppe Ungaretti, è tra le più importanti del Novecento. Composta nel 1916, mette in evidenza le profonde innovazioni stilistiche che Ungaretti apportò alla poesia italiana a lui contemporanea.

Il testo rivela una straordinaria novità formale rispetto alle correnti poetiche dell’epoca distaccandosi sia della magniloquenza dannunziana sia, dalle ironica “calata di tono” della tradizione crepuscolare.

La parola poetica, restituita di tutti i suoi valori antichi e primogeneii diviene lo strumento per giungere al cuore dell’esistere. Ogni elemento di questo testo rimanda a una dimensione mitica o simbolica: il poeta (nuovo Orfeo) deve tentare un viaggio negli abissi dell’essere e della coscienza, verso ciò che è stato dimenticato e di cui si è perduta ogni notizia. Lo strumento per giungervi è la parola poetica che deve portare alla luce e diffondere il mistero che dimora nel simbolico “porto sepolto”.
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Leonardo Sinisgalli, da “Vidi le muse”

Leonardo Sinisgalli

L’aurora appena
E’ uscita dai forni.
Nasce allora dal sonno
Al primo vento
Il lamento delle spighe.
Non più vigile la grazia
Ti cade dalla mano
Falce d’oro. Al suolo
Il seno ti accalora.
La testa in luce prende altura.
Grave ora è la terra
Al sole, forte il sesso.

*

Muore il ragazzo un poco
Ogni giorno per giuoco.
Per giuoco morde invano
Il cavo della mano.
Trascorre le vacanze ebbro
Tra i maceri cespi di papaveri
Steso sul letto per noia
E diletto a guardare le travi.
Ma lo stornano ombre
Solitarie nel cielo della stanza,
Labili ombre passeggere
Sul soffitto. È l’ariete
Che batte ostinato le corna
A capofitto nella quiete. Continua a leggere

Patrizia Cavalli, da “Datura”

Patrizia Cavalli

«Cosí schiava. Che roba!
Cosí barbaramente schiava. E dai!
Cosí ridicolmente schiava. Ma insomma!
Che cosa sono io?
Meccanica, legata, ubbidiente,
in schiavitú biologica e credente. Basta,
scivolo nel sonno, qui comincia
il mio libero arbitrio, qui tocca a me
decidere che cosa mi accadrà,
come sarò, quali parole dire
nel sogno che mi assegno».

 

Patrizia Cavalli, Datura, Einaudi, 2013 Continua a leggere

Cesare Pavese, nella luce stupita

LA NOTTE E IL RICORDO

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Lo stupore di una notte remota avvolge questa poesia di Cesare Pavese. È un istante della vita, ventoso e limpido il ricordo del vago ricordare. Lo sguardo del poeta ha conservato il ricordo di una notte lontana che non sapeva che avrebbe ricordato. Perché quando viviamo un’esperienza, non sappiamo che cosa resterà in noi di quel vissuto, cosa entrerà nel nostro ricordo, non lo sappiamo mai. Ecco apparire lo stupore, la fissità dello sguardo remoto che vede. Lo sguardo remoto è sempre immobile, statico, come pietra appuntita conficcata nel petto. Il bambino guarda la notte sui colli d’estate, ammassati, senza confini. E in quella immobilità solo il frusciare nitido delle foglie, in una morte inconsapevole, desiderio di nulla. Continua a leggere

I versi ruvidi di Franco Fortini

Franco Fortini

Il seme

Caduti i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è fitta
vedo l’erba crudele acida profonda
e l’interrogazione ritorna
ai colpi di vento si curva
si divide ritorna ma dicono i merli di no
camminando o fermi.

Mio padre
s’inteneriva sulla propria morte
udendo l’allegretto della Settima.
Negli angoli dove c’è a Marzo maceria
con gran pianti i bambini seppellirono
gli uccelli caduti di nido. Ma nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci sono io
o mio figlio o nessuno. Continua a leggere

Carlo Betocchi, scrivere su un lembo di giornale

Carlo Betocchi

Carlo Betocchi (Dal definitivo istante. Poesie scelte e inediti, BUR, Milano, 1999)

Il cuore a volte è un grumo secco, a volte
si scioglie ed inerbisce come zolla
dopo l’inverno: grazia o fortuna,
ossia virtù, il cielo è uguale per tutti;
tutti vi abbiamo un seme che butta
o non butta, a seconda della dolce
pazienza con cui si attende: o furia
con cui si vuole. Non si sa dove siano
i limiti del fausto o dell’infausto,
del vero o del falso, del giusto
o dell’ingiusto; dell’infinitamente
innocente: seppure esistano li vigila
una grazia sacrosanta. Stamani, così
verzicando, sono stato sorpreso
da questi pensieri. Mi sono riparato
dal vento in un portone, a scriverli
su un lembo di giornale. Continua a leggere

Roberto Carifi, da “Amorosa sempre”

Roberto Carifi

Con le mani chiodate
si alzano in volo
guardando la madre
che ha il volto prosciugato
e questa terra molle, lo sai, è l’unica
che resta tra la nascita e l’orma saccheggiata…
guardateci, dicono da un campo arato,
è la nostra sorella, la vita,
quella semina di bambini che picchiano,
picchiano sulle corde del cielo
e non sanno, loro, la scrittura di sasso
l’esito che hanno scavato
con un occhio nel letto e l’altro,
in croce, sull’arenile. Continua a leggere

In memoria di te, Alessandro Ricci

Alessandro Ricci

Alessandro Ricci da I cavalli del nemico, (Il Labirinto, Roma 2004)

Un gozzo demente
rade il cedimento de molo, la
macchia di catrame, la boa ossidata.
Eppure lo vedi andare, frodando
un’aspettativa di largo, di tarda
flora marina.
Perché mare e cielo
fingono comunque il bello, bello
è il suono amaro del diesel,
quatto quatto verso
il silenzio e l’assenza. Continua a leggere

Antonio Riccardi, da “Tormenti della cattività”

Antonio Riccardi

Solo una volta ho visto piangere
mio padre, una sola al principio
della sua tenebra e mai più.
Piangere come piange chi si oppone
da solo alla vita che si disfa
inclemente, ormai paurosa.
Nessun armistizio nella discesa
nessun risanamento a portata.
Solo io che mento sul futuro. Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini, da “Le ceneri di Gramsci”

Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

Con cieche schiarite…questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
Monti del Lazio…Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padre – non padre, ma umile
fratello – già on la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro; tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove. Continua a leggere

Isabella Morra, da “Rime”

Isabella Morra

CANTO PER IL PADRE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Sotto i colpi inferti da una Fortuna a lei avversa, Isabella Morra cristallizza la sua fulminea esistenza in un piccolo e adamantino canzoniere, composto nell’altissima solitudine di un castello. La condanna al destino dell’abbandono, celebrata dalla sua stessa famiglia, acuisce in lei la sensibilità per la sorte delle Arianne, le fanciulle che nel mito giacciono addormentate su una riva dimenticata, dopo la partenza dell’amato. Nei versi morriani, l’addio è alla figura paterna in fuga: il suo canto filiale si consuma in un funambolico equilibrio tra innocenza e accusa di tradimento. Il tormento che deriva dalla permanenza nel luogo dell’infelicità non impedisce tuttavia alla poetessa di proiettare il suo sguardo oltre il limiite imposto, nella ricerca mai paga di una visione che culli una qualche novella.

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La ricerca multiforme di Elio Pagliarani

Elio Pagliarani

da Tutte le poesie (1946-2005), a cura di A. Cortellessa, Garzanti, 2006

Che ci portiamo addosso il nostro peso
lo so, che schermaglia d’amore è adattamento,
guizzo, resistenza necessaria perché baci
la nostra storia i nostri uomo-donna
non solo all’ombra dei parchi
lo imparo ora, forse.
Oh, ma scompagina come il vento
freddo di viale Piave i giorni scorsi, e spaura,
quanto di me non solo porto
sulle spalle, ma mi tocca travasare
adattare al tuo flusso flessibile
e scontroso.
Io che speravo
necessario e sufficiente solo il fiore
che affiora, tocco con le carezze oltre che il tuo
fusto flessibile lo specchio la certezza
di come sia insufficiente il mio amore
per la tua capacità di comprenderlo,
per la tua capacità di comprenderlo
come sia immane il mio bisogno d’amore. Continua a leggere

Giuseppe Conte, da “Poesie 1983-2015”

AUTUNNO

L’Amante
Devoto deve essere l’amante
all’autunno. Non ai venti
torbidi, che fiaccano e fanno bianchi
di meli e di susini i cieli
né alla bonaccia nuda, distesa,
dalle grandi braccia di quiete.
È devoto all’autunno perché rimane
nei raggi obliqui e lunghi di ottobre
negli orti che si spogliano
lenti tra i muri delle case
in ombra, nell’odore
nuovo di pioggia tra i pini e gli allori
qualcosa della fervida spinta cieca,
qualcosa della placata vampa
ma come assottigliato, come fatto
finalmente nitido, in una stanca
matura ricchezza, acini dorati
dimenticati sulla vite, abbaglianti
soltanto l’attimo che incontrano
il sole.
Da ragazzo, ogni sera, mi strangolava
l’ossessa primavera di carezze
cercate.
Poi, inondante, venne l’estate
con lei. Lei incolpevole, mite e
così tenue, così ardente, come
la corolla purpurea del papavero
di california, come un canneto arso d’agosto.
Ora, da molto, molto non conosco
più quelle due stagioni.
Io sono l’inestinguibile.
In me l’amore è passato
per rapide rovinose e per lente
acque alte: ora va sicuro, veloce
come su una piroga verso isole
di tramonto. Ora è devoto
agli dei, devoto a Zeus
che fu per Leda un fulmine
bianco-piumato, un capo
teso sopra un collo troppo
lungo, insensato in quella
vertigine polverulenta. Devoto
ad Atena, ad Artemide che non
è facile scorgere sulle rive
di un fiume o tra le superstiti
cerve di un bosco, e che nessuno
può possedere. Amore in me
è solenne, spietato come una danza
guerriera, o è appena
futile, delicato,
come geranei in una fioriera.
Io e te non esistiamo: non
chiedermelo: e forse
staremo ancora insieme, correremo
come daini alla fonte
risaliremo il torrente
come trote
sapremo nell’energia che ci muove,
nel respiro delle stelle nuove
la nostra essenza.
Amore è questo
riconoscersi in tutto, nella prima
rosa del mondo, nell’ultimo
ranuncolo, nella bassa marea, nel profondo

oceano.

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Giorgio Manganelli da “Poesie”


Io mi divido

in giacca e calzoni e cintura
e ancora mi disgiungo
in cravatta e camicia
e mi scindo in cranio, in polmoni,
in visceri e pube,
e mi distinguo
in ogni cellula
che senz’amore s’accosta
ad altra cellula.
Così, casualmente, sussisto:
poi chiedo in prestito
la forza che congiunge
l’uno all’altro i miei volti possibili
all’improvviso sacramento
d’una chitarra,
al riso dell’amico,
allo squillo consueto del telefono,
nell’attesa distratta
d’una voce che perdoni la mia spalla,
la mia gamba, la mia dolce cravatta:
nell’oziosa attesa

del sacramento della nascita.

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Ivano Ferrari, la carne che non sfama

Ivano Ferrari

Dalla vasca d’acqua bollente
emerge un enorme maiale
bianco come uno spettro
che oscilla impudico fino a quando
dal finestrone il sole
accende quintali di luce.

A qualche centinaio di metri
passata la forma fresca del prato
e dopo case dagli occhi spenti
si trova il cimitero degli umani
dove c’è carne che non sfama. Continua a leggere

La luminosa inquietudine di Silvia Bre

Io vado destinata a un sentimento
che ha la forma del parco che ora vedo,
e ciò che vedo è il viale in cui l’inverno
è rami, pietre, acqua, tramontana,
e passi di una donna che cammina.
Ma per come procede e come leva
lo sguardo secolare sulle foglie,
lei è la specie, a lei torna la rima
nella quale riposa il mondo intero –
così la qualità del giorno vaga
continuamente tra le parole e il cielo.

*
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La poesia di Chandra Livia Candiani

Chandra Livia Candiani

Tu, prossimo o lontano, proprio tu

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

La poesia di Chandra Livia Candiani  è diretta, rapida, come una freccia. Non indugia nella traiettoria che compie per arrivare al bersaglio. La sua voce irrompe dal silenzio della stanza, una cosa viva, che colpisce con estrema precisione, al centro, penetrando uno spazio interiore e profondo che appartiene a ognuno di noi.  Ascoltando e leggendo le sue poesie si ha la sensazione che a prendere la parola sia una bambina che però ha la sapienza di una vecchia. Una bambina che ha la consapevolezza che qualcuno le ha fatto del male quando le ha rubato l’infanzia.  Eppure Chandra ha nascosto di quella età – forse in fondo a un cassetto, in un baule, in una credenza – lo stupore, la meraviglia, l’urlo della bambina. A volte c’è proprio il grido nei suoi versi, così come altre volte,  c’è una parola sussurrata all’orecchio complice di chi vuole finalmente ascoltare.

 

ESTRATTI

“Nel mondo ci sono i suoni.”
Ah sì?
E qualcosa li accoglie
e li abbandona?
Vie di mare,
perdute e abissali.
L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro.

da: La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014 Continua a leggere

Addio a Gabriella Leto

Gabriella Leto

E’ scomparsa sabato 18 maggio 2019 a 89 anni, la poetessa Gabriella Leto. Nata a Roma nel 1930  Gabriella Leto ha esordito nel 1975 sull’«Almanacco dello Specchio» Mondadori. Nel 1980 aveva preso parte all’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani I. Dieci anni dopo, ancora da Einaudi, il suo primo libro: Nostalgia dell’acqua (Premio Viareggio 1991) al quale ha fatto seguito con la stessa casa editrice nel 1997, L’ora insonne. Nel 2003 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Aria alle stanze.
Gabriella Leto è stata anche traduttrice di poeti latini. Con Einaudi ha pubblicato le Elegie di Properzio (1970), Le Eroidi (1966) e Gli Amori (1995) di Ovidio.

 

Qui dove all’improvviso
si interrompe il sentiero
per oscuro divieto
non più non mai reciso
langue in nudo pallore
il fiore del narciso
chiuso nel suo segreto
di voluttà e colore.

Da Nostalgia dell’acqua, (1991)

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Fiori, il poeta dalla voce precisa

Umberto Fiori

Coro (da Esempi, 1992)

Ai tavolini del bar
con l’ultima luce
la gente stava al fresco
a dire la sua.
Tutto il discorso in aria
per un attimo
erano solo le voci.

Inventate, sembravano.
Sembravano quelle che un matto
si trova in bocca
quando all’incrocio
grida e risponde
chiede scusa e dà ordini,
tutto da solo.

Lì intorno
non capiscono bene
ma appena sono
davanti a lui che si sbraccia,
subito cercano la faccia di qualcun altro,
e la trovano.
Ecco – così anche ora, con le cose
che ci sono da dire
vorresti dentro
voltarti, trovare la voce:
come all’incrocio
si incontrano i curiosi.
Poi via, come loro.

Stare in un momento
con la voce precisa.

La voce sola, buia, che in un punto
ha più occhi di un coro. Continua a leggere