Franco Manzoni, “Angelo di sangue”

Franco Manzoni

FRANCO MANZONI nella traduzione di ELIZA MACAN
da Nella febbre di Eros – În febra lui Eros

La tana

dove ti annidi tutta nera
a filigrana rosa
la pioggia bianca fa le fusa
linfa di miele e mulino
sul fieno nel cespuglio
un’orma di farina
prezioso capezzolo di ghiaccio
il corpo tuo la tana
si arrende al mio faro silenzioso
si dona e va per la pianura piana

Bârlogul

unde te cuibărești toată neagră
în filigranul roz
toarce ploaia albă
limfă de miere și moară
pe fân în desiș
o urmă de făină
sfârc prețios de gheață
bârlogul corpul tău
se predă farului meu tăcut
se dăruiește și pleacă pe cîmpia întinsă Continua a leggere

Paul Muldoon, “Dai sogni hanno origine le responsabilità”

Paul Muldoon, ph. by Beowulf  Sheehan

Da “7, Middagh Street

Dai sogni hanno origine le responsabilità;
fu a causa di una simile allegoria
che Lorca
venne crivellato di colpi

fino a giacere faccia a terra
nell’ombra cangiante del suo stesso sangue.
Quando i soldati ubriachi del Romancero
fecero per tornare in città

lo sentirono mormorare nella nebbia,
“Quando muoio lasciate aperte le finestre”
perché la poesia può rendere possibili le cose –
non solo può ma deve –

e questa stessa finzione
è in sé un gesto politico. Continua a leggere

Eugénio de Andrade, “Ascolto il silenzio”

Eugénio de Andrade

Ascolto il silenzio

Ascolto il silenzio: in aprile
i giorni sono
fragili, impazienti e amari;
i passi
minuti dei tuoi sedici anni
si perdono per le strade, ritornano
con resti di sole e pioggia
sulle scarpe,
invadono il mio dominio di sabbie
spente,
e tutto inizia ad essere uccello
o labbra, e vuole volare.
Un rumore cresce lentamente,
oh, lentamente
non cessa di crescere,
un rumore di palpebre
o petali
sale di terrazzo in terrazzo,
scopre un giorno
di ceneri con vestigia di baci.
Un solo rumore di sangue
giovane:
sedici lune alte,
selvagge, innocenti e allegre,
ferocemente intenerite;
sedici puledri
bianchi sulla collina sopra le acque. Continua a leggere

Charles Baudelaire, “I fiori del male”

Charles Baudelaire

 

IL CREPUSCOLO

Eccola, l’incantevole sera, amica del delinquente,
viene come un complice, col passo del lupo;
il cielo si richiude lentamente come la cortina d’un letto
è l’uomo insofferente diventa una bestia feroce.
Sera, o amabile sera, desiderata da colui
le cui braccia possono onestamente dire: Oggi
Abbiam lavorato! – È la sera che dà sollievo
a chi è divorato da un dolore crudele,
all’ostinato studioso con la fronte che gli pesa
all’operaio piegato, che può dormire finalmente.
Ma intanto, nell’aria, ammorbanti dèmoni si ridestano
con livore, come degli attaccabrighe, e sbattono volando
contro le imposte e gli sporti delle porte.
Il vento tormenta i bagliori mediante i quali
si accende nelle vie la Prostituzione,
che fuoriesce come da un formicaio, dappertutto
apre nuove strade segrete
come un nemico che tenta un’azione a sorpresa
si muove dentro la città corrotta come un verme
che ruba all’Uomo ciò che ha mangiato.
Senti qua e là un fervore di cucine, uno strepito
di teatri, un soffio di orchestre; le osterie,
dove si viene soprattutto per giocare, si riempiono
di puttane e di imbroglioni, che sono loro complici,
e gli stessi ladri, che non hanno sosta né pietà,
tra poco cominciano la loro attività,
forzando piano le porte e le casse
per camparci qualche giorno e vestire l’amante.

In questo momento grave, anima mia sta
in raccoglimento, sii sorda a questo verso di belva.
È l’ora in cui le sofferenze dei malati aumentano!
La cupa Notte li strangola; si compie il loro destino,
e s’avviano verso l’abisso comune;
l’ospedale si riempie dei loro sospiri. – Più d’uno
Non verrà più a mangiar la minestra profumata
accanto al fuoco, la sera, accanto alla persona amata.

E la maggioranza, per giunta, non ha mai saputo
com’è dolce avere una famiglia, e non ha mai vissuto!

Traduzione di Nicola Muschitiello

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Alle vittime di Genova, “lei era rimasta lì”

lei era rimasta lì
tenue la luce diradava
con enormi occhi l’ultima
volta lui la guardava
abbandonava
e si sentiva abbandonato

nel fondo stabile degli sguardi
solo il nero degli inverni
quella bellezza che si posa
dall’iride cadeva
rinnovandosi in lei
allontanandosi da lei

(Da: Olimpia, di Luigia Sorrentino, Interlinea, 2013)

 

elle était restée là
ténue la lumière irradiait
de ses yeux grand ouverts la dernière
fois lui la regardait
abandonnait
et se sentait abandonné

au fond fixe des regards
cette beauté qui se pose
de l’iris tombait
se renouvelant en elle
s’èloignant d’elle

(Traduzione Angèle Paoli) Continua a leggere

Martine-Gabrielle Konorski, “Une lumière s’accorde”

Martine-Gabrielle Konorski

Le sommeil s’éloigne
seulement pour infliger
l’assourdissante battue
de la pendule
Consciences anachroniques
embuées de paroles
dans les ruines du corps
suspendu à nos heures.

(Martine-Gabrielle Konorski)

Il sonno s’impone
va via solo per infliggere
il battito assordante
del pendolo
Coscienze anacronistiche
appannate di parole
tra le rovine del corpo
sospeso alle nostre ore.

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Shakespeare in scena, quattro traduzioni di Patrizia Cavalli

Queste che presentiamo – pubblicate per la prima volta e insieme – non sono semplici, seppure magistrali, traduzioni di quattro opere di Shakespeare: “La tempesta”, “Sogno di una notte d’estate”, “Otello” e “La dodicesima notte”. Sono molto di piú. Sono la voce che un poeta ha saputo dare ai personaggi, ascoltandoli, immaginandoli e vedendoli in scena. Sono traduzioni nate per la scena, che è il loro luogo naturale. Continua a leggere

Philippe Delaveau, poesie scelte

Philippe Delaveau

Traduzioni di Cristina Spinoglio

Da Petits instants ordinaires, Gallimard 1999

Il canto del mondo

Coloro che non sentono il canto del merlo
sul pino nero
coloro che hanno deciso di non ascoltare nulla –
scivoleranno verso altri giorni
nell’ombra che li attira –
E gli smarriti, gli imprudenti scompariranno
dietro il tintinnio del loro fallace potere.
Il giorno agita rami e cortine,
fumo di falò di foglie solitarie
Nei minuti giardini composti e ordinati,
ma la foresta, per celebrare silenzio e pace,
svela il suo enigma,
di cui si appropria il capriolo solerte.

Ho sentito a volte, diceva il viaggiatore nel Tirolo
i cervi tutti bianchi bramire in alto nella stagione degli amori,
e in basso rispondere con un mormorio nel tenero fogliame
le cerbiatte odorose color di neve.

Coloro con gli occhi coperti di rumore meritano il nostro disprezzo?
La vostra parola è morta dicono, oppure: questa non è la nostra pietà.
Non è più il tempo di effimeri chiarori,
per l’insolente sottomissione, su questa terra,
per tanta bellezza senza tregua,
la cui arroganza ci nega talvolta autorità.
Tutto agisce e si spossa e torna al nulla:
a che serve questo amore?

Ben misera cosa certo per gli affari, questa poesia
E Marthe che si agita invano in cucina,
ha detto il Maestro,
Marthe a volte si ferma e si ricorda.

Che ridano del nostro canto più semplice del vento tra i cespugli
la voce del vento e il clamore dell’acqua sugli scogli costieri.

Come l’uomo in piedi sul battello che si allontana,
amo le parole che pronuncio e queste grigie conchiglie
nella trasparenze delle ostriche,
Il mare le denuda nel suo esilio o il mare le ricopre,
a volte brancolanti in pieno giorno o per un fulgore di luna
nel paziente progresso del loro palazzo
dove l’acqua dentro s’ispira al mare aperto.

L’inverno sotto la bruma e la pioggerellina, l’estate con un sole fremente
come l’ostrica aperta in silenzio e che si chiude
Poniti danti alla linea inesauribile della riva
tra il grigio del mare e il grigio di un pensiero.
Nel suo rifugio allora l’uomo che veglia
contemplerà il sortilegio e coloro che lo rifiutano.

Da Le chant du monde

Ceux qui n’entendent pas le chant du merle
dans le pin d’Autriche,
ceux qui ont résolu de ne jamais entendre –
glisseront vers d’autres jours,
dont l’ombre les attire –
et disparaissent les égarés, les imprudents derrière
le cliquetis de leur pouvoir trompeur.
Le jour agite branches et rideaux,
fumées de feux solitaires de feuilles
dans les petits jardins tirés à quatre épingles,
mais la forêt, pour célébrer la paix et le silence,
délivre son énigme,
dont le chevreuil alerte se saisit.
J’ai entendu parfois, disait le voyageur dans le Tyrol
les cerfs tout blancs bramer en altitude à la saison d’amour,
et leur répondre en bas dans les feuillages doux par un murmure
les biches odorantes couleur de neige.
Ceux-là aux yeux couverts de bruits méritent-ils notre mépris ?
Votre parole est morte disent-ils, ou bien : ceci n’est pas notre piété.
Il n’est plus temps pour des lueurs éphémères,
pour d’insolentes soumissions, sur cette terre,
à tant de beautés sans répit,
dont l’arrogance nie parfois notre pouvoir.
Tout agit et se lasse et retourne au néant :
À quoi bon cet amour ?
Une bien maigre chose assurément pour les affaires, ce poème
et Marthe qui s’agite vainement dans la cuisine,
a dit le Maître,
Marthe parfois s’arrête et se souvient.
Qu’ils rient de notre chant plus simple que le vent des broussailles
la voix du vent et la clameur de l’eau sur les rocs de la côte.

Comme l’homme debout sur le bateau plat qui s’éloigne,
j’aime les mots que je prononce et ces gris coquillages
dans la transparence des claires.
La marée les dénude en son exil ou la mer les recouvre,
parfois tâtonnés du plein jour ou d’un éclat de lune
dans le patient accroissement de leurs palais
où l’eau dedans s’inspire du grand large.
L’hiver sous l’écume et la bruine, l’été par un soleil bruissant
comme l’huître en silence ouverte et qui se ferme
installe-toi devant l’inépuisable ligne du rivage
entre gris de la mer et gris d’une pensée.
Dans son refuge alors l’homme qui veille
contemplera le sortilège et ceux qui le récusent.

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Claude Royet-Journoud, “Le nature indivisibili”

Claude Royet-Journoud

Nota di Luca Minola

Libro estremo, selettivo Le nature indivisibili di Claude Royet-Journoud, pubblicato da Effigie nel 2016 e tradotto in maniera netta e inequivocabile da Domenico Brancale, è da codificare in continuazione e richiede studio e assiduità. Non appaiono all’interno le versioni dei testi originali dal francese, per una scelta motivata dall’autore stesso: “Nella traduzione, la lingua di arrivo è la versione originale e non l’inverso. D’altronde la poesia ha un corpo. Un recto, un verso. Uno spazio fisico e uno mentale. E’ racconto-e in una sola lingua. Non scrivo una raccolta, ma un libro. Nelle edizioni bilingue ciò che viene distrutto è la nozione stessa di libro: la doppia pagina (sinistra, destra), l’importanza del voltare pagina, la sospensione della narrazione, il rapporto con il tempo, ecc.”. Quindi l’inappropriato elemento dell’originalità di Royet-Journoud, che preferisce il contrasto, il contrario per eccellenza: liberare la traduzione del testo dalla gabbia della lingua originale o il bisogno della sospensione di spazi e tempo. Piace quello che non è, quello che non c’è, che non si può spiegare e soprattutto che non vuole essere spiegato: e “ho bisogno di pensare alla tua mano sulla carta/è l’esercizio più basso/che permette di seguire/una riduzione geografica/erano in attesa di essere notati”. Incide profondamente sulla lettura una pagina attraversata da una parola asciutta, tagliente, svincolata da un’energia comunicativa. Continua a leggere

Dylan Thomas, poesie

DYLAN THOMAS

Nel mio mestiere o arte ombrosa

 

Nel mio mestiere o arte ombrosa
praticata nella notte quieta
quando solo la luna s’infiamma
e gli amanti riposano a letto
con tutti i dolori nelle braccia,
il mio lavoro è cantare la luce
non per ambizione o pane,
non per vanagloria o commercio di incanti
su impalcature in avorio
ma per il modesto salario
del loro più segreto cuore.
Non scrivo per l’uomo orgoglioso
che si ritrae nella furia di luna
su questo zampillo di pagine,
non per i morti che torreggiano
con i loro usignoli e salmi
ma per gli amanti che abbracciano
i dolori di tutte le età,
e non offrono lodi o compensi
incuranti del mio mestiere o arte.

 

 

In my craft or sullen art

Exercised in the still night
When only the moon rages
And the lovers lie abed
With all their griefs in their arms,
I labour by singing light
Not for ambition or bread
Or the strut and trade of charms
On the ivory stages
But for the common wages
Of their most secret heart.
Not for the proud man apart
From the raging moon I write
On the spindrift pages
Not for the towering dead
With their nightingales and psalms
But for the lovers, their arms
Round the griefs of the ages,
Who pay no praise or wages
Nor heed my craft or art. Continua a leggere

Robert Creeley, il fuoco dei beatniks

THE DISHONEST MAILMEN

 

They are taking all my letters, and they
put them into a fire.
I see the flame, etc.
But I do not care, etc.

The poem supreme, addressed to
emptiness – this is the courage

necessary. This is something
quite different.

I POSTINI DISONESTI

 

Stanno prendendo tutte le mie lettere,
e le gettano nel fuoco.
Vedo la fiamma, ecc…
Ma non mi importa, ecc…

La suprema poesia, scagliata
nel vuoto – questo è il coraggio

necessario. Questo è un qualcosa
di profondamente diverso.

 

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La poesia anti moderna di Juan Arabia

Il colibrì inadattabile di Juan Arabia
di Víctor Rodríguez Núñez

Traduzione di Antonio Nazzaro

“Ci allontaniamo dalla cittá”, avverte il primo verso de “Lo sgombero della natura”, secondo libro di Juana Arabia (Buenos Aires, 1983). Il primo verso della poesia intitolata “Giudizio” è un manifesto basato nell’affermazione della natura e la presa di posizione per il selvaggio. L’opera di questo giovane poeta argentino realizza così uno degli antichi rituali della poesia: la critica della modernità. Il mondo moderno, questo eufemismo che si suole usare per nominare l’ordine sociale e culturale creato dalla borghesia metropolitana nella misura dei suoi interessi. In questo contesto, la poesia diviene “Il colibrì inadattabile… Porpora,/come il piacere del limite, assetato/come la distruttrice radice del salice” (Un colibrì sulla bauhinia). Questa radice è il simbolo del potere trasformatore, della sfida radicale al borghese e al civilizzato: Il nostro flauto rimase chiuso/nella radice di un salice:/ […]sollevando strade e mattonelle” (Giudizio).

Arabia fa bene a rifiutare la modernità e in particolare, quella che tocca vivere ai latinoamericani, deformata e dipendente. Le élite nel potere parteciparono ieri al saccheggio coloniale, e partecipano oggi al non meno cruento e ingiusto sfruttamento neocoloniale. Hanno creato nazioni per il beneficio delle antiche e nuove metropoli e certamente per il proprio beneficio come intermediari. Evocando questo contesto, il nostro poeta racconta che: “mi sono allontanato dalle tue strade come i miei/antenati si allontanarono dall’Europa” (B. A.). Ma la sua posizione è critica del colonialismo e del neocolonialismo, e per questi ci intima di “dimentichiamo le società dei ricchi,/ e passiamo il resto dei nostri/ giorni tra i lupi” (Ispirato in Jean de la Fontaine). La trasformazione sociale è percepita come un processo naturale: Per qui passò la rivoluzione,/come sono passate le stagioni” (Ardenne), ed è necessario “recuperare ogni sgombero della natura” (B. A.).


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MontesantoArte

MontesantoArte è il primo programma di residenza promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee | Museo Madre, il museo d’arte contemporanea della Regione Campania, nell’ambito del bando “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura” (ed. 2016) in collaborazione con Quartiere Intelligente, una piattaforma multi progetto di rigenerazione urbana fondata nel 2013 nel centro storico di Napoli lungo le scale monumentali di Montesanto.

Curato da Adriana Rispoli, il programma semestrale di residenza ha coinvolto quattro giovani artiste italiane con lo scopo di promuovere le ricerche artistiche contemporanee sul territorio regionale. Coerentemente con la dinamica progettuale del Quartiere Intelligente, le artiste sono state invitate a focalizzare la ricerca sul rapporto natura-cultura utilizzando linguaggi trasversali tra le arti visive – video o performance – architettura, design, gardening e auto- costruzione. L’obiettivo è stato quello di creare tangenze tra le discipline, di generare una contaminazione che, entrando in contatto con la comunità di riferimento, ha prodotto buone pratiche di vivere civile, sperimentazioni artistiche esportabili e replicabili anche in altri contesti sociali e urbani.

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Sylvie Fabre, “La casa senza vetri”

Traduzione di Fabio Scotto

Poesie da “La Maison sans vitres” di Sylvie Fabre  (tratta da “La Casa senza vetri”, in uscita in Francia a marzo 2018).

La disperata passione di essere al mondo

Le ceneri di Gramsci,
Dal Diario e altre poesie
di Pier Paolo Pasolini,
La Storia di Elsa Morante

 

La tua poesia è quella che canta questa disperata passione
di essere nel mondo dopo aver guardato in faccia il sole,
radioso, accecante, incendiario, e se essa non disconosce
la forza primitiva dei raggi, né la loro luce, né il loro calore,
nemmeno nasconde le fredde ceneri che ne restano,
disperse alle nozze del tempo votato all’assoluta felicità
e all’assoluta miseria che aggroviglia la vita nella morte.
Non hai sempre saputo che dal fondo della storia
fino all’intimo dell’umano ha luogo una lotta
perché la vita sia la vita nella sua grazia, le sue sconfitte e
il suo inalienabile mistero? Liberamente inscritto nella tua voce,
tu l’hai condotto spingendo le porte mitiche della lingua
per abbandonarti al tuo destino rosso di poeta, ed è maturato
nella gloria nella vergogna e nella persecuzione, esigendo da te la verità.

La tua poesia è quella che tenta di tracciare la strada d’amore,
come di dolore in questo mondo in cui inspira e soffia
e soffoca la parola dei poeti, questi iniziati dalla testa d’angelo ardente.
Ed esser nato a Bologna, città medievale d’argilla e sangue,
piuttosto che a Newak, a Roma o a Charleville, avervi portato a spasso
il tuo cuore nottambulo d’adolescente sotto le torri e
le arcate della sua antica università non cambia nulla.
Presto abbandonato all’inebriante sensualità dei corpi, alla rabbia
che cova sotto la brace la tua coscienza eretica, tu hai scritto
l’ossessiva giovinezza dei desideri, un canto fisico, e
spirituale, poiché perseguita anche la colpa intima e collettiva
con quella follia di chi rifiuta non la povertà innocente
o la violenta allegria del vivente ma l’aria viziata dell’oltraggio
e della corruzione che nega l’essere, che umilia le sue speranze.

La tua poesia è quella che ritorna alla sostanza stessa
del reale per far scoppiare il riccio pungente della realtà
e rivelarci il gratuito gheriglio della bellezza,
gustato fin dall’infanzia nell’incanto dei cieli nei quali
l’incessante balletto delle rondini urlava nella sua pura gioia
la certezza della separazione, l’effimera abitazione della terra
che risuonava da mane a sera di richiami, di lamenti e preghiere,
e in primo luogo quelli della madre e dei suoi figli a Casarsa,
talora imperlati di dolcezza, talora d’acuti laceranti,
come li avranno poi a Roma la tua voce e quella della Morante,
e senza ingenuità, poiché il crimine dei fascisti, l’irrealtà del comunismo,
piaghe che scavano a sangue la tua lingua di un padre e di un nome,
Guido, che ha lasciato le persiane chiuse su tante immagini orrende,
sul tuo volto a venire, e allora che può il canto dell’usignolo?

La tua poesia è quella che serba il canto originale dell’usignolo
e quello del grillo amaro, tutte le tonalità opposte della vita,
nuda, perduta, non perduta, radiosa, in lacrime, gloria dell’infanzia
e tomba di un tempo prima durante e dopo la guerra,
quando il ventesimo secolo alla ricerca d’altre assonanze,
dimentica che l’uomo non finisce mai di distruggere ciò che ha creato,
e che perfino se ritrova il linguaggio dei suoi antenati,
rifà i loro gesti e parla il loro dialetto, ne smarrisce il senso,
più non sapendo a che servano i campi e le voci friulane,
le verdi rive del Po o il mar latino, il cielo d’argento
sopra ogni città e villaggio dell’umile Italia
dove passa la Storia facendo di lui un vinto, e così barbaro
da gridare con te: io non voglio esser uomo!
Specchio della tua vita innocente e peccatrice, tragica e sacra,
riflesso ed unica eco della vita che tutti facciamo,

la tua poesia è quella che pronuncia voti per le vittime,
Maria di Casarsa, fratello crucifisso, popolino diseredato
delle borgate, delle bidonville, dei grandi nuclei urbani,
delle zone nelle quali in La Storia, bambini, rifugiati, prostitute, ragazzi
dalla lingua mozza, dallo spirito immaturo accettano l’esperienza
semplice e crudele della realtà del mondo e la vivono con il loro corpo
così pieno di vitalità nell’alienazione, nell’ebbrezza o nella rovina,
con il cuore straziato, così intero nell’amore o nell’odio.
La tua poesia è quella che sposa il caos e la serena pietà,
accendendo i lumi poetici nel cinismo del giorno,
nell’ingenua speranza dei crepuscoli, nella visita delle notti
che annunciano l’alba fiduciosa di Useppe o tenebrosa della tua morte.
E come la sua inquieta malinconia potrebbe non essere anche la nostra
di fronte a tante vite offese, a tanti sogni ingiustificati?

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Antonio Nazzaro & Luigia Sorrentino

Proponiamo un’anteprima di alcune poesie di Luigia Sorrentino tradotte in spagnolo da Antonio Nazzaro e pubblicate dalla rivista di poesie ispano-americana Ærea, (link: http://www.aepoesia.com/p/inicio.htmlu) diretta da Daniel Calabrese e Eleonora Finkelstein.

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Philip Larkin

Philip Larkin

 

 

 

THIS BE THE VERSE

They fuck you up, your mum and dad.
They may not mean to, but they do.
They fill you with the faults they had
And add some extra, just for you.

But they were fucked up in their turn
By fools in old-style hats and coats,
Who half the time were soppy-stern
And half at one another’s throats.

Man hands on misery to man.
It deepens like a coastal shelf.
Get out as early as you can,
And don’t have any kids yourself.

SIA QUESTO IL VERSO

Mamma e papà ti fottono.
Magari non vogliono farlo, ma tant’è.
Ti trasmettono le loro antiche meschinità
E aggiungono qualche extra, solo per te.
Però anche loro sono stati fottuti
Da alienati con cappelli e cappotti fuori moda,
Che passavano metà del tempo a poltrire
E l’altra metà a ghermirsi la gola.
L’uomo cede all’uomo la disperazione.
Sprofonda come una piega costiera.
Quindi sbrigati a levarti da mezzo,
E non mettere al mondo alcun figlio.
(dalla raccolta High windows, 1974)

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Mark Strand

THE END

BY MARK STRAND

Not every man knows what he shall sing at the end,
Watching the pier as the ship sails away, or what it will seem like
When he’s held by the sea’s roar, motionless, there at the end,
Or what he shall hope for once it is clear that he’ll never go back.

When the time has passed to prune the rose or caress the cat,
When the sunset torching the lawn and the full moon icing it down
No longer appear, not every man knows what he’ll discover instead.
When the weight of the past leans against nothing, and the sky

Is no more than remembered light, and the stories of cirrus
And cumulus come to a close, and all the birds are suspended in flight,
Not every man knows what is waiting for him, or what he shall sing
When the ship he is on slips into darkness, there at the end.

LA FINE

DI MARK STRAND

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine,
guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà
quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine,
o cosa spererà una volta capito che non tornerà più.

Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto,
quando il tramonto che infiamma il prato e la luna piena che lo gela
non compariranno più, non ogni uomo sa cosa scoprirà al loro posto.
Quando il peso del passato non si appoggia a nulla, e il cielo

non è più che luce ricordata, e le storie di cirro
e cumulo giungono alla fine, e tutti gli uccelli stanno sospesi in volo,
non ogni uomo sa cosa lo attende, o cosa canterà
quando la nave sulla quale si trova scivola nel buio, là alla fine.

Traduzione di Damiano Abeni

Da: “L’uomo che cammina un passo davanti al buio” Poesie 1964-2006, Oscar Mondadori, 2011

Laure Gauthier, ” kaspar de pierre “

Laure Gauthier

di Laure Gauthier

” kaspar de pierre” è un racconto poetico che dà voce a Kaspar Hauser, il bambino arrivato misteriosamente nel 1828 alle porte di Norimberga dopo 17 anni di prigionia. Per prima cosa, era necessario far saltare il mito del “rapito dal cuore puro” così come lo chiama Françoise Dolto che lo descrive, alla stessa stregua di Verlaine e del suo “pregate per noi povero Gaspard”, come un bambino innocente, quasi fosse un Cristo.

In “kaspar de pierre”, non ho ricomposto l’essenza di Kaspar Hauser, ma solo un po’ la superficie del suo essere. La pietra. Il mio progetto non consiste nel ricostruire un’archeologia delle passioni sulle tracce dei lavori di Véronique Bergen. No, questo racconto fa capo al mero compito di ricercare negli archivi, là dove non ci sono atti, per inventare spazi e tempi “tra i fatti” registrati dalla cronaca, là dove non c’è suono né voce. Un fuori campo che fa tremare il campo della storia. Continua a leggere

Beppe Fenoglio

Beppe Fenoglio


di Fabio Izzo

“Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sotto terra.
Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta la casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su la testa.”

Incipt de La Malora

Beppe Fenoglio è stato un vero uomo di Langa (in piemontese). L’incipit de “ La Malora”, a mio modesto parere è uno degli inizi maggiormente riusciti della nostra letteratura. Questo estratto infatti rende al meglio l’idea dell’intensità del rapporto tra lo scrittore e la sua terra, ufficialmente inclusa, insieme al Roero Monferrato, nella lista dei beni del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Fenoglio ne ha raccontato la storia e le vicissitudine nelle pagine dei suoi romanzi “I ventitré giorni della città di Alba”, “La malora”, “Una questione privata”, “Il partigiano Johnny” e “La paga del sabato”. Continua a leggere

John Kinsella

John Kinsella Ph. Andrew De La Rue

 

il filamento di blu, l’invisibile corrimano

Scala a chiocciola verso un filamento di blu:
su Santa Lucia di F. Furini
(Galleria Spada, Roma)

 

Discesa di compensazione

nell’abituare gli occhi

a scrutare dal buio —

occhio strappato ed esposto —

quel che resta sembra

già abbastanza difficile per un paio,

ti penetra da parte a parte,

un feroce tumulto,

l’avido sguardo della singolarità —

occhio strappato ed esposto —

non guardare dove il guardare

non è voluto — messaggio

invertito — per entrare

con l’inganno nella chiarità, i becchi

delle aquile al di sopra di Hong

Kong Harbour, e a casa prima

che lasciassero i cieli

sulla vallata di Jam Tree

Gully — in absentia —

cos’è successo, un filamento

di blu sulla nuca, capelli blu

che accendono uno spalle-scoperte

riflettendo di rimando non

una convenzione pittorica,

le scale di pietra

che la raggiungono,

avanzando a tentoni

nella poca luce

che facciamo — nel filamento

di blu che seguiamo,

l’invisibile corrimano. Continua a leggere

In memoria di Joëlle Gardes

Joëlle Gardes

 

di Tommaso Di Dio

Dedicate alla memoria della poetessa, studiosa e traduttrice Joëlle Gardes, da poco scomparsa, si presentano qui tre poesie, nella lingua francese e italiana.

Dopo aver generosamente tradotto il mio libro Tua e di tutti per Recours au Poème, Joëlle era da tempo impegnata insieme a Jean-Charles Vegliante nella traduzione dell’opera del comune amico Mario Benedetti. Fin da subito, capii che la traduzione per lei non aveva un semplice significato letterario, ma era – e non poteva che essere – una concretissima e affettuosa pratica di conoscenza: un modo di abbracciare ciò che la sorte ha posto lontano.
Per questo, noi suoi amici vogliamo salutarla con quello stesso gesto che le era caro: traducendo insieme una sua poesia inedita e traducendo reciprocamente le nostre due, dedicate a lei. In questo scambio di lingue, in questo lavoro o travaille, ognuno fa proprio, per un momento, quella comunione con la pura lingua dell’intraducibile che ogni poeta non può non tenere a mente; e Joëlle in questo – e non solo in questo – era ed è stata la più fine poeta. Continua a leggere

Joëlle Gardes. Un ricordo, attraversando la poesia di Julien Blaine

Joëlle Gardes

di Alberto Bramati

Nella sua prima raccolta di saggi scritta in francese, “L’arte del romanzo”(Gallimard 1986, tr. it. Adelphi 1988), Milan Kundera presenta nel capitolo intitolato “Sessantasei parole” il suo dizionario personale, le sue «parole-chiave», «parole-problema», «parole-amore» (p. 172). Alla voce “Eccitazione”, si legge:
ECCITAZIONE. E non piacere, godimento, sentimento, passione. L’eccitazione è il fondamento dell’erotismo, il suo enigma più profondo, la sua parola-chiave. (p. 180)
Ho riflettuto spesso su questa definizione e credo di non essere d’accordo con Kundera. Ciò che rappresenta il mistero delle relazioni umane non è per me l’eccitazione ma l’attrazione, un fenomeno psichico che non riguarda solo la dimensione dell’erotismo ma l’intero campo delle relazioni affettive.

Quando l’attrazione è reciproca, ciò che nasce e si sviluppa è un attaccamento che coinvolge due esseri fino ad allora estranei. La nascita e lo sviluppo di un legame affettivo – come da una totale estraneità si passi per slittamenti impercettibili a una più o meno profonda intimità – sono sempre stati per me un mistero impossibile da ricostruire e da spiegare. Ogni volta che ripenso a come sono nati i legami che hanno contato nella mia vita, la mia memoria si blocca, divento incapace di ricostruire in modo ordinato le tappe che dall’iniziale estraneità hanno portato all’esistenza del legame affettivo. E questo mi succede anche ora, ripensando alla mia amicizia con Joëlle.

Alberto Bramati

La conobbi nel 2003, durante il mio dottorato in linguistica all’Université de Provence. Non era la mia direttrice di tesi, ne seguivo i corsi solo per interesse personale. Quando mi fu chiesto di fare un esame in più per la convalida della mia attività annuale, mi rivolsi a lei. Ricordo che mi chiese che cosa mi interessasse. Le risposi che mi sarebbe piaciuto studiare la concezione del linguaggio di Gorgia. «Interessa anche a me», mi disse. Fui colpito dalla sua volontà di trasformare un obbligo burocratico in un’occasione di ricerca e di arricchimento reciproco. Quando finii il dottorato, si era trasferita a Parigi alla Sorbona. La contattai per un eventuale scambio docenti nel quadro delle borse Erasmus. Fu subito d’accordo. Per tre anni ebbi così l’occasione di intervenire nei suoi corsi. Poi vennero i convegni, le conferenze, le pubblicazioni, e negli ultimi anni, dopo che aveva lasciato l’università, le visite di piacere, io a casa sua, ogni volta che andavo a Aix, e lei a casa mia, quando veniva a trovare i suoi amici milanesi. Continua a leggere

Louise Colet

Louise Colet, lithographie de Marie-Alexandre Alophe

Un’autrice troppo dimenticata: Louise Colet

di Joëlle Gardes

Nessuno è profeta in patria e Louise Colet ne è l’esempio. Lei, relativamente conosciuta in Italia per il suo impegno politico durante il Risorgimento e per i suoi volumi L’Italie des Italiens, è oggi, nel suo stesso paese, ridotta al ruolo di musa di Flaubert, Musset o Vigny…
Il trattamento riservatole in vita è una testimonianza lampante degli ostacoli che una donna, bella, indipendente e autrice, poteva incontrare all’epoca. Più che la scrittrice è la donna che si attaccava, come se una donna non potesse essere dotata nella scrittura, come se ogni minimo successo fosse dovuto unicamente alla sua avvenenza.
Louise Colet è nata ad Aix-en-Provence, nel 1810. La famiglia originaria era borghese da parte di padre, e aristocratica ma di spirito rivoluzionario da parte di madre. Dopo la morte del padre, si trasferisce con la madre e con i fratelli e le sorelle a Servane, nei pressi di Saint Rémy de Provence. In disaccordo con la famiglia, molto conservatrice, dopo la morte della madre che la sosteneva, Louise non ha che un’idea in testa: sposarsi e trasferirsi a Parigi, ciò che fa sposando il musicista Hyppolite Colet, con il quale però non andrà mai d’accordo. I due finiscono per separarsi, ma è a casa di lei che lui morirà, di tubercolosi, nel 1851. Continua a leggere

Il Panormita, “Ermafrodito”

 

 

di Nicola Gardini

Trascendendo il suo tempo, Antonio Beccadelli (Palermo, 1394 – Napoli, 19 gennaio 1471) detto il Panormita, continua a insegnare al mondo che la letteratura è stata – e ancora può essere – il solo modo per parlare degli istinti; che la letteratura ammette nello spazio del sociale le inclinazioni di ciascuno, anche le piú difficili da comprendere e da definire sul piano della morale, a cominciare dal sesso. Non si sottolineerà mai abbastanza che la poesia e la prosa per secoli hanno svolto il compito di rappresentare la diversità e l’eccezione e di affermarle, se non come alternative, sí come realtà possibili. Continua a leggere

Papusza, “Canto romanì”

Papusza, Bronislawa Wajs, 1908-1987

CANTO ROMANÌ CON PAROLE USCITE DALLA TESTA DI PAPUSZA

Il bosco mi ha allevata come ramo dorato,
in tenda romanì simile a un fungo.
Amo il fuoco più della mia vita.
Venti impetuosi e lievi
cullarono la bimba romanì.
La spinsero come trottola in giro…

Le piogge mi asciugarono le lacrime,
il Sole – aureo padre romanì –
m’ha il corpo riscaldato
e l’anima abbronzato.
Dalla fonte azzurra forza ho tratto,
i miei occhi ho sciacquato… Continua a leggere

Anna Świrszczyńska

Anna Świrszczyńska

In occasione dell’inizio delle celebrazioni in Polonia dell’Insurrezione di Varsavia del 1944pubblichiamo 12 poesie di Anna Świrszczyńska: le prime 6 sono legate all’esperienza di guerra della poetessa, le altre fanno parte del filone femminista della sua produzione poetica. Le traduzioni sono di Claudia Caselli e Marcin Wyrembelski.

L’insurrezione di Varsavia fu una lotta eroica che si concluse tragicamente. Durò 63 giorni (da agosto a ottobre del 1944) ebbe inizio il primo giorno di agosto per iniziativa dell’esercito nazionale polacco, un’organizzazione polacca della Resistenza clandestina. Prima che l’esercito sovietico raggiungesse Varsavia, i russi si erano fermati alle porte della città e non intendevano intervenire in difesa di Varsavia,  alle forze armate nazionali clandestine dell’Armia Krajowa si unirono molti giovani attivisti e volontari nel tentativo di aiutare i soldati a liberare Varsavia dall’occupazione tedesca/hitleriana. Anna Świrszczyńska partecipò all’insurrezione lavorando come infermiera, un’esperienza che la segnò profondamente, come donna e come poetessa.

(Luigia Sorrentino)

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Bolesław Leśmian

Bolesław Leśmian

di Fabio Izzo

Bolesław Leśmian, uno dei più importanti poeti polacchi, nacque a Varsavia il 22 gennaio del1877 dove morì il 7 novembre del 1937. Le sue spoglie riposano al cimitero Powązki, assieme a quelle di altri grandi scrittori, poeti e artisti della nazione polacca.

La figura di Leśmian smonta alla perfezione l’idea dell’intellettuale tormentato e viaggiatore. Burocrate di paese, avvezzo a maneggiare documenti, moduli e timbri, padre di famiglia, si è rivelato un perfetto demiurgo di un mondo poetico popolato e animato fantasiosamente da elementi fantastici, mitologici e folcloristici, sfociando anche in un erotismo raffinato e delicato.

Il suo battesimo poetico avvenne nel 1985, con la pubblicazione di alcune sue poesie sulla rivista letteraria Wędrowiec; i suoi lavori all’inizio passarono inosservati, La sua prima raccolta di versi fu pubblicata nel 1912 a Varsavia, Crocevia, pubblicò poi il suo lavoro più noto: Łąka (Prateria, 1920) a cui seguirono seguirono Benda ombrosa (1936) e le pubblicazioni postume Accadimento boschivo (1938) e Leggende polacche (1956).

Leśmian ha sviluppato uno stile unico, personale, ricorrendo ad ambienti fantastici e mitologici legati alle tradizioni e al folclore polacco. Ha descritto la sua vita in sillogi filosofiche. I protagonisti delle sue opere sono spesso esseri umani in difficoltà, sofferenti, vittime del conflitto esistente tra natura e cultura, impossibilitati ad accettare pienamente il loro destino. Per lui il poeta è un essere primitivo, l’unico in grado di vivere sia a livello culturale che naturale.

Per i polacchi Leśmian è un poeta idiomatico, accessibile per intuito, un poeta amato, potremmo quasi dire popolare. Lesmian è però così poco conosciuto al di fuori dei confini polacchi per via della sua reputazione storica, limitata a un piccolo circolo di intellettuali amici, tra cui Pasternak, che ne furono ammaliati, attratti dal fascino magnetico della sua parola.

Nacque nel 1877 e spese gran parte della sua gioventù in Ucraina, dove il padre lavorava da dirigente ferroviario. Studiò presso l’Università di Kiev e i suoi primi versi furono scritti in russo, una lingua che, a detta di molti, ha avuto un’influenza cruciale sul suo stile poetico in polacco.
Il suo libro d’esordio fu pubblicato nel 1912 e passò quasi del tutto inosservato. In vita Leśmian ha pubblicato solo tre libri, e a parte l’essere diventato un membro dell’Accademia Polacca di Letteratura, nel 1933, è sempre rimasto una figura marginale nella vita letteraria tra le due guerre .

Ha lavorato come funzionario pubblico, notaio di provincia in una piccola città polacca, si è sposato con Zofia Chylińska, da cui ha avuto due figlie. A titolo di curiosità segnaliamo come una di loro, per l’esattezza Wanda, sia stata la madre di Gillian Hills, l’attrice britannica diventata famosa per il ruolo interpretato in “Blow- Up“, la famosa pellicola di Michelangelo Antonioni. Continua a leggere

Agnieszka Osiecka, la poetessa del colore rotto

Agnieszka Osiecka

di Fabio Izzo

Agnieszka Osiecka fu poetessa, regista e giornalista, ma fu anche una delle protagoniste assolute della storia del suo Paese, la Polonia, contribuendo a ridisegnare la società polacca culturale, e non solo, del secolo scorso. In altre parole Agnieszka Osiecka è musica e poesia per l’orecchio polacco e meriterebbe maggiore attenzione nel resto del mondo. Senza trascurare che la sua vita si è interconnessa e ha influenzato Andrzej Wajda, Roman Polanski e Marek Hłasko. Continua a leggere

Arnaut Daniel di Pietro Tripodo venti anni dopo

Pietro Tripodo

A distanza di venti anni si ripubblicano le traduzioni del corpus poetico del trovatore provenzale Arnaut Daniel eseguite dal poeta Pietro Tripodo.

di Carlo Pulsoni

Ho conosciuto Pietro tanti anni fa grazie a Paolo Canettieri. Mi capitava di assistere alle loro infinite discussioni su come tradurre quel verso o quel lemma arnaldiano. A volte vi intervenivo. All’epoca studiavo i problemi attributivi della lirica provenzale, e credo di essere il responsabile dell’inserimento nel volume anche del corpus apocrifo del ‘miglior fabbro’. Mi piace ricordare una conversazione che ebbi con Pietro su Dante e sul numero 9. Pietro era affascinato da questa costruzione dantesca: il 9 come massima espressione dell’amore divino, in quanto ha come radice quadrata il numero tre, la Trinità. Continua a leggere

SUSAN STEWART, “C E N E R E”

Susan Stewart

‘Dimmi, cantore devastato,

come la cenere generi il seme.’

Nota e traduzione a cura di Maria Cristina Biggio

Le poesie qui presentate sono tratte dal nuovo libro di Susan Stewart, CENERE (New and Selected Poems, GRAYWOLF 2017). Il volume raccoglie una sezione di nuove composizioni (Pine: New Poems) e un’ampia retrospettiva di testi precedenti che abbracciano oltre trent’anni di poesia. Salutata dalla critica come uno dei maggiori intelletti delle lettere americane, la poetessa statunitense si conferma, con questa raccolta che re-incanta il mondo, come una delle voci più originali degli ultimi cinquant’anni e autentica pietra miliare nel panorama della poesia contemporanea. Continua a leggere

Attila József

Ad Aprile si festeggia in Ungheria la Giornata della Poesia. E proprio ad Aprile nacque, poco più di 112 anni fa, uno dei maggiori poeti del Novecento ungherese, Attila József, scomparso tragicamente, alla fine del 1937. Le sue poesie furono pubblicate nel 1938, a cura dei suoi compagni della redazione della rivista “Szép Szo” (La bella parola), della quale József fu uno dei redattori-fondatori. Continua a leggere

Joëlle Gardes, “Histoires de Femmes”

La scrittrice e poetessa Joëlle Gardes

Nota dell’autrice

Storie di donne (Histoires de Femmes, Editions Cassis Belli, 2016)) è una raccolta in qualche modo impegnata che esprime la mia indignazione per la sorte che ancora viene riservata alle donne. Nasce dalla mia esperienza personale, da quello che ho osservato nelle donne della mia famiglia o quelle che mi circondano, da accadimenti avvenuti qui e altrove, e da un libro dell’etnologa Yvonne Verdier che mi ha segnato molto. Lei ha descritto la vita di un villaggio nel centro della Francia negli anni cinquanta. Lì, tre donne avevano un ruolo fondamentale prima che la modernità cambiasse tutto: la lavandaia, la cuoca, la sarta. Una delle mie prozie era cuoca e la mia nonna paterna era una sarta. L’osservazione e la cultura si sono incontrate. Il libro di poesie in versi liberi o in prosa, si compone di sette sezioni: cicli, maternità, lavori, maledizioni, famiglia, ritratti, identità. Ognuna è accompagnata da un disegno a carboncino originale del pittore Stéphane Lovighi Bourgogne. Non sono illustrazioni in senso stretto, ma proposte emerse dopo un’immersione nella raccolta. Continua a leggere

Dylan Thomas nella traduzione di Roberto Sanesi

Dylan Thomas

 

Dall’introduzione di Roberto Sanesi

In una sua nota d’apertura ai “Collected poems”, pubblicati nel 1952, Dylan Thomas scriveva: “Ho letto da qualche parte di un pastore che, quando gli chiesero perché rivolgesse, dal centro di cerchi magici, ossequi rituali alla luna per proteggere il suo gregge, rispose: ‘Sarei un pazzo dannato se non lo facessi!’ Queste poesie, con tutte le loro crudezze, dubbi e confusioni, sono scritte per amore dell’Uomo e in lode di Dio, e sarei un pazzo dannato se non lo fossero”. La nascita e la morte, visioni bibliche ed echi letterari, significati soggettivi e puri suoni, tutto confluisce a creare l’immenso e variegato immaginario poetico di Dylan Thomas. Una voce, quella del poeta, che può risultare a tratti oscura, ma che, come scrive Roberto Sanesi nel suo saggio introduttivo, “riesce a far presa su chiunque”.

ESTRATTI 
da: Dylan Thomas, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, con testo originale a fronte, Guanda, 2017

Tutto tutto e tutto gli aridi mondi sollevano

I

Tutto tutto e tutto gli aridi mondi sollevano,
Il basamento del ghiaccio, il solido oceano,
Tutto dall’olio, dall’urto della lava.
Città di primavera, il fiore governato,
Ruotano dentro la terra che ruota,
Le città incenerite in un cerchio di fuoco.

Eccoti ora mia carne, mio compagno nudo,
Mammella del mare, domani membruto,
Verme nel cranio, recinta e incolta.
Tutto tutto e tutto, l’amante della spoglia,
Sparuto come il peccato, spumose le midolla.
Dalla carne tutto sollevano gli aridi mondi.

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Ewa Lipska, “Il lettore di impronte digitali/Czytnik linii papilarnych”

Ewa Lipska

Un verso randagio vagabonda nella materia oscura della carta. Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato in balìa del destino. Orfano di parole.

A volte i versi sono come cani abbandonati che abbaiano alla poesia.
Vincitrice di numerosi premi letterari nazionali e internazionali, Ewa Lipska è considerata la più grande poetessa polacca vivente. Tradotta in oltre venti lingue, tra le quali inglese, francese, tedesco, russo, danese, ebraico e spagnolo, è autrice anche di testi in prosa, canzoni e opere teatrali. Questa raccolta affronta un tema molto caro alla poetessa, il paradosso degli esseri umani, condannati all’impossibilità di comprendere loro stessi e il mondo enigmatico in cui vivono. La solitudine dell’individuo diventa ancora più evidente nell’era di internet, nella quale una rete sembra unire «i nostri file virtuali di corpi», dove «ci baciamo con miliardi di bocche», mentre in realtà emerge drammaticamente l’impossibilità di un incontro tangibile e autentico. La realtà virtuale è una metafora eccellente della nostra condizione esistenziale, poiché simula una realtà effettiva che è dato conoscere solo in minima parte e nella quale l’unico modo per avere certezza di ciò che siamo è rappresentato dalle nostre impronte digitali. Anche l’amore, inteso come «luogo che non c’è, ma che sento», è un frammento sfuggente di una vita che sembra essere una «forte misura preventiva contro la morte», scorrendo lungo l’asse temporale del ricordo e della memoria.
La caducità e l’inafferrabilità della vita corrispondono all’impossibilità di rispondere alle domande pregnanti dell’esistenza, perché non sappiamo neanche «se è la storia che ha creato noi/ o se abbiamo creato noi la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui». Il paradosso e la metafora sono gli strumenti retorici con cui la Lipska costruisce il proprio corpo poetico, creando un universo complesso nel quale gli elementi scavalcano le usuali categorie di tempo e di modo e dove il tempo diventa dilatato e reversibile. I versi della poetessa «come cani che abbaiano alla poesia», in maniera straziante pongono il lettore, «orfano di parole», di fronte all’assurdità dell’esistenza umana e lo accompagnano in un viaggio di consapevolezza la cui meta finale è guardare se stessi, «dritti nell’abisso». Continua a leggere

Ovidio, Morte e Trasfigurazione

Immagine di Ovidio| hp

Il 9 marzo 2017 dalle ore 9 alle 16,30 presso l’American Academy in Rome e il 10 marzo presso l’Università La Sapienza di Roma e in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, si terrà Ovidio, Morte e Trasfigurazione, una conferenza organizzata da Joe Farrell dell’Università della Pennsylvania, Alessandro Schiessaro, Università di Manchester e Damien Nelis, Università di Ginevra. Continua a leggere

Gili Haimovich

Gili Haimovich

Today even the buses turn their behinds to me.
I am limping on my heart.
The drive changes the way things seem to be.
And from so much driving, the face of the biker that passes here
turns into yours.
I wear pants that are definitely black.
Definite like the way everything you do
is in the cute zone.
Between us stands a theoretical lure.
We are speaking jazz improvisations.
Every offer from you, it’s another stage in a striptease
that’s not being done.
I know
to touch you
will be like moving my hand on a blank page.
Meanwhile it’s like a definite darkness
only out of instinct, I know where we are standing.

**

Oggi anche gli autobus mi mostrano il sedere
Zoppico sul mio cuore.
La guida cambia l’apparenza delle cose.
A forza di guidare, il volto del motociclista in sorpasso
diventa il tuo.
Indosso pantaloni sicuramente neri.
Come sicuro il modo in cui tutto ciò che fai
è in zona fascino.
Tra noi incombe un’attrazione teoretica
Parliamo come s’improvvisa jazz
Ogni tua offerta, è il passo successivo in uno striptease
che non sta accadendo.
So
che toccarti
sarà come passare la mano su una pagina bianca.
Nel frattempo un’oscurità definita
solo per istinto, so dove siamo. Continua a leggere

Antonio Nazzaro

Antonio Nazzaro

 

 

di te so poco
la lunghezza delle tue braccia
il tempo dei tuoi baci
quelli umidi dell’amore vorace
e quelli lenti dell’amore quotidiano
il taglio degli occhi
e l’incedere scalza
il movimento dei seni
a cui accordo il respiro
quel gesto tuo
di spostare i capelli
quello che so
è che quando arrivi
e ti siedi in un sorriso
sogno Continua a leggere

Morten Søndergaard, quattro poesie

MORTEN-SØNDERGAARD

Morten Søndergaard

Si

Si ricomincia!
ballo all’inferno

Non ho le ali
e
la morte fa la parte
del mio nome.

Gioco con i fiammiferi sotto la scala.
Brucio e brucio al suolo il mondo.

Colleziono bombe e scopo con rumori negli occhi.
Vengo condannato a morte da mamma e papà.

Sto sanguinando:
La carta mi fa da cerotto.

Ja

Forfra!
Jeg danser i helvede.

Jeg har ingen vinger
og
døden er en del
af mit navn.

Jeg leger med tændstikker under trappen.
Jeg brænder og brænder verden ned.

Jeg samler bomber og knepper med støj i øjnene.
Jeg dømmes til døden af mama og papa.

Jeg bløder:
Papir er mit plaster.

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