Carol Ann Duffy, “Valentine”

Carol Ann Duffy

      VALENTINE

 

Not a red rose or a satin heart.

I give you an onion.
 It is a moon wrapped in brown paper.
 It promises light
 like the careful undressing of love.

Here.
 It will blind you with tears
 like a lover.
 It will make your reflection
 a wobbling photo of grief.

I am trying to be truthful.

Not a cute card or a kissogram.

I give you an onion.
 Its fierce kiss will stay on your lips,
 possessive and faithful
 as we are,
 for as long as we are.

Take it.
 Its platinum loops shrink to a wedding-ring,
 if you like.
 Lethal.
 Its scent will cling to your fingers,
 cling to your knife.

      A SAN VALENTINO

 

Non una rosa rossa o un cuore di raso.

Ti dò una cipolla.
 E’ una luna avvolta in ruvida cart a scura.
 Promette luce
 come il lento spogliarsi dell’amore.

Eccola.
 Ti accecherà di lacrime
 come un amante.
 Renderà il tuo riflesso
 un traballante ritratto di dolore.

Sto cercando di essere onesta.

Non un biglietto lezioso o baci per interposta persona.

Ti dò una cipolla.
 Il suo bacio pungente resterà sulle tue labbra,

possessivo e fedele
 come noi,
 finché lo saremo noi.

Prendila.
 I suoi cerchi di platino si riducono a un anello nuziale,
 se vuoi.
 Letale.
 Il suo odore si appiccicherà alle tue dita,
 al tuo coltello.

VALENTINE, di Carol Ann Duffy, tratta da La donna sulla luna, poesie scelte di Carol Ann Duffy, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, 2011

 

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Le fragili esistenze di Milo De Angelis

NOTA DI LETTURA DI MASSIMILIANO MANDORLO

Lì, sulla linea di confine “tra la gioia e il grumo più buio”, si muovono le creature notturne del nuovo libro di Milo De Angelis. Qualcosa di oscuro e segreto preme dietro l’apparente ritmo più disteso di questi testi, irrompe sulla scena congiungendo la biografia terrestre a un respiro cosmico, universale: “Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie”.

Tornano i luoghi familiari alla poesia di De Angelis: la Milano notturna dei tram e dell’Idroscalo, dei bar e della periferia con “l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina” e poi gasometri abbandonati, parcheggi e piscine, aule liceali dove si consumano “gloriose avventure terrestri”.

C’è nel gesto atletico, pindarico, dell’atleta sui blocchi di partenza o del tuffatore pronto per il salto una forza che illumina quel segmento di tempo e lo proietta nelle profondità di un altro tempo: “dovevo tornare / per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo / rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri […] per il tuffo /che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento”.

Così, come in una sequenza cinematografica, in Sala Venezia l’occhio del poeta inquadra i passi al rallentatore di un uomo appena entrato in una sala da biliardo, si sofferma sui movimenti e sulle parole pronunciate, sul tavolo da gioco su cui va in scena l’attimo decisivo di una vita intera: “sorridi e ti acquieta il panno verde / come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi / di legno che ora contengono il tuo evento / e la forza centripeta conduce l’universo / in un solo punto illuminato”. Il poeta se ne sta lì, come un mendicante o un eremita, a raccogliere “gli emblemi dell’inizio e della fine” come frammenti dispersi, linee intere o spezzate delle fragili esistenze che abitano il mondo.

Sono le linee di forza, continue o interrotte, che compongono il Libro dei mutamenti cinese, qui immagine e simbolo delle numerose vite che si agitano sospese “nel brivido del tempo”, ai bordi della vertigine.

È in questa spaccatura che abita la poesia di De Angelis, tra le ripetizioni e i continui andare a capo che frantumano il respiro del verso e lo tendono fino a un punto finale, assoluto: “e ora io mi fermo in un luogo / qualsiasi e lo riempio di purissima benzina, / la benzina che amavo da bambino ai distributori / della A7, e chiudo in ventidue metri quadrati / il mio episodio”.

Aurora con rasoio è il titolo dell’ultima, intensa sezione del libro in cui il poeta, navigando controcorrente, affronta un tema così controverso e innominabile come quello del suicidio.

Lontana da ogni passione o interesse sociale, la poesia di De Angelis compie uno scavo nelle profondità abissali dell’esistenza, anche a costo di compiere un’ulteriore tappa di questo viaggio al termine della notte.

Quando “la luna non concorda” più con il “battito terrestre” non c’è più nessun commento o parola possibile, ma un grande silenzio scende sulle vicende terrestri di chi ha già visto troppo “della vita e dei suoi sotterranei”. Continua a leggere

Francesco Negri, “Ultimo stadio”

Milano, Stazione Centrale

NOTA DI LETTURA DI ALESSANDRO BELLASIO

Bildungsroman sfigurato, avventura tragico-picaresca in chiave ultrapop, pastiche espressionista con un occhio al sampling (dichiarato) e uno al cut-up (non dichiarato), Ultimo stadio, romanzo d’esordio di Francesco Negri, è un viaggio al termine della notte sparato in un acceleratore di particelle, prima ridotto in pezzi e poi riassemblato. Non solo in virtù del procedimento di sampling preso in prestito dall’hip-hop, ma per la distorsione e la frantumazione spaziotemporale con cui viene imbastita la trama, con continui salti tra gli anni immediatamente precedenti e quelli immediatamente successivi al “crovid-19”, in una Milano sterminante e sterminata, tutta periferie e pattume, disperazione e sorveglianza assoluta. L’attualità la fa da padrona, ma l’epoca è assunta con lucidità implacabile, a tratti con vera furia, in un moto di odio e di rivolta che, tuttavia, più che al sovvertimento punta al rilancio della posta in gioco, spingendo all’estremo le contraddizioni del nostro tempo e portandole fino al parossismo, all’intollerabile.

La vicenda ci immette nel cuore delle vite di tre giovanissimi amici, cresciuti a fame vera e fame chimica tra le panchine e i casermoni della Barona, periferia sud della metropoli, che di eccesso in eccesso passano dal tifo ultrà alla fama artistica internazionale, transitando per il carcere, i boschetti di Rogoredo e i salotti mondani della società bene. Negri compie una scelta coerente con le proprie premesse (il mondo è dato per frammenti impazziti, vediamo cosa succede frammentandoli ancora di più e scaraventandoli tutt’intorno a velocità supersonica), e aziona una macchina narrativa al cui interno storie, riflessioni, personaggi, sentimenti ed esperienze vengono sempre bruciati sul nascere, come se non ci fosse tempo per dilungarsi troppo perché ogni cosa è già distrutta nel momento stesso in cui è intravista, toccata, e molto più spesso comprata. Consumata prima di consumarla, cosicché tutto ciò che ancora si può fare non è che reiterarne la sparizione, con il fantasma del (auto)sacrificio, infatti, sempre sullo sfondo. Sparizione che però non è mai assoluta (ed è questa la sua, la nostra dannazione) perché tutto è infinitamente permutabile, perfettamente reversibile, in un mondo basato unicamente sul loop della propria autoconsunzione, che come tale non termina mai.

emerge è così un ritratto fedele della velocità (e voracità) anfetaminica con cui si è obbligati a esistere e estinguersi nell’epoca dell’ipercapitalismo planetario, ridotti a materiali di scarto prima ancora di essere entrati nel ciclo produttivo, e condannati comunque e da sempre a una vita larvale. D’altro canto, la decisione preliminare di accostarsi mimeticamente all’oggetto del proprio furore, nel tentativo di destrutturarlo dall’interno, accentuandone al massimo le linee di faglia e esasperandone le tensioni oppositive, trova riscontro in una lingua e in una sintassi più travolte che stravolte, in un cozzare e deflagrare dei segni che lascia inviolato il codice che li governa, nel tentativo (impossibile?) di batterlo sul suo stesso terreno, svelandone tutta l’ipocrisia e il nichilismo di fondo. Non poco, perché nel panorama (non solamente nostrano) di sempre più soffocante omologazione letteraria, culturale, esistenziale, il gesto di sfida e la vitalità tachicardica del romanzo di Negri rappresentano una vera boccata di ossigeno per chi non si accontenta della paccottiglia concertata a tavolino che, sempre più disinvoltamente e impunemente, viene spacciata per letteratura. Continua a leggere

Addio a Philippe Jaccottet

E’ morto Philippe Jaccottet, poeta, traduttore e critico letterario, vincitore del Premio Goncourt per la Poesia nel 2003. Jaccottet, svizzero, aveva 95 anni.

Lo ha annunciato il figlio all’agenzia di stampa France Press. La casa editrice italiana, Marcos Y Marcos che ha molti suoi titoli in catalogo ha fatto sapere che il 17 marzo 2021 pubblicherà Passeggiata sotto gli alberi, opera inedita in Italia inclusa nella Pleiade di Gallimard.

 

Parler est facile, et tracer des mots sur la page,
en règle générale, est risquer peu de choses:
un ouvrage de dentellière, calfeutré,
paisible (on pourrait même demander
à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse),
tous les mots sont écrits de la même encre,
«fleur» et «peur» par exemple sont presque pareils,
et j’aurais beau répéter « sang » du haut en bas
de la age, elle n’en sera pas tachée,
ni moi blessé.
Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur,
qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire
en y jouant, au lieu de se risquer dehors
et de faire meilleur usage de ses mains.
Cela,
c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur,
qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche
en déchirant les brumes dont on s’enveloppe,
abattant un à un les obstacles, traversant
la distance de plus en plus faible – si près soudain
qu’on ne voit plus que son mufle plus largeque le ciel.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.

Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina
vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa:
lavoro da merlettaia, ovattato,
tranquillo (perfino alla candela si potrebbe
domandare una luce più dolce, più ingannevole),
le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro,
«fetore» e «fiore» per esempio sono quasi uguali,
e quando avrò ricoperto di «sangue» l’intera pagina,
lei non ne sarà macchiata,
o io ferito.

Capita dunque di provare orrore per questo gioco,
di non capire più cosa si voleva fare
giocandoci, invece di arrischiarsi fuori,
e di fare un uso migliore delle proprie mani.

Questo
è quando non ci si può più sottrarre al dolore,
quando il dolore somiglia a qualcuno che viene,
strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge,
abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando
la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino
che non si vede più che il suo muso più largo
del cielo.

Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco
insulto al dolore, e inutile spreco
del poco di tempo e forze che ci resta.

La mer est de nouveau obscure. Tu comprends,
c’est la dernière nuit.Mais qui vais-je appelant?
Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne.
Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne
dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris
cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,
tous ces jours sont perdus, déchirés par ses ailes
noires, la majesté de ces eaux trop fidèles
me laisse froid, puisque je ne parle toujours
ni à toi, ni à rien. Qu’ils sombrent, ces «beaux jours»!
Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,
sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.

Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), dall’Effraie(Gallimard, 1953) – Traduzione italiana: P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorant (con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)

Portovenere

Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.

 

Plus je vieillis et plus je croîs en ignorance,
plus j’ai vécu, moins je possède et moins je règne.
Tout ce que j’ai, c’est un espace tour à tour
Enneigé ou brillant, mais jamais habité.
Où est le donateur, le guide, le gardien?
Je me tiens dans ma chambre et d’abord je me tais
(le silence entre en serviteur mettre un peu d’ordre),
et j’attends qu’un à un les mensonges s’écartent:
que reste-t-il? que reste-t-il à ce mourant
qui l’empêche si bien de mourir ? Quelle force
le fait encore parler entre ses quatre murs?
Pourrais-je le savoir, moi l’ignare et l’inquiet?
Mais j’entends vraiment qui parle, et sa parole
pénètre avec le jour, encore que bien vague :
«Comme le feu, l’amour n’établit sa clarté
que sur la faute et la beauté des bois en cendres… »

Philippe Jacccottet (Moudon, 1925), L’Ignorant (Gallimard, 1958; traduzione italiana: Philippe P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)


L’ignorante

Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano : cosa resta? Cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»

NOTA CRITICA DI ALBERTO FRACCACRETA

Ricordo di Philippe Jaccottet

Quando si legge un libro di Philippe Jaccottet, poeta svizzero di lingua francese scomparso qualche giorno fa a Grignan all’età di novantacinque anni, si prova un’esperienza che forse non è del tutto improprio definire mistica. Come accade nella silloge E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006), un martin pescatore, un pettirosso, «insulse» e «infime» viole, la carota selvatica e i convolvoli sono capaci di «sgombrare la vista», cioè rendere evidente la cognizione di qualcosa d’altro («una via», «una traccia») sì da conoscere il mondo per come esso è veramente. I medesimi tentativi di purificazione del vedere — con uno stile personalissimo a metà tra il poème en prose, il carnet de voyage e l’ekphrasis — sono espressi con limpidezza pari a verginità espressiva negli scritti dedicati a Giorgio Morandi, nei diari della Semaison o nel cahier bleu del viaggio in Terrasanta.

Non è un caso allora che la critica (con Starobinski in cima) abbia univocamente appioppato a Jaccottet il titolo di «poeta dell’umiltà», sempre pronto a ritrarre l’io dalla materia d’ispirazione per accogliere la fiamma dell’alterità nel cuore dell’ordinario. Cantore delle ultime cose e delle cose ultime, egli ha seguito un percorso coerente e credibile che gli è valso il Prix Goncourt de la poésie nel 2003 e il prestigioso Prix mondial Cino del Duca nel 2018, nonché la perenne candidatura al Nobel. Continua a leggere

L’ultima lettura di Carlo Bordini

Carlo Bordini, credits ph. Dino Ignani,  Orto botanico, Roma, 2018

 

di Luigia Sorrentino

Questa breve lettura è l’ultima compiuta in video da Carlo Bordini. Carlo presenta la rivista “Diacratica”, da lui co-diretta e legge una poesia tratta da “Sonetti per King-Kong“, (1977) un libro ormai introvabile, mai più ristampato, del poeta Gino Scartaghiande. Un commovente saluto all’amico poeta.

NOTA DI CLAUDIO ORLANDI
(Radio Pomona)

Ero a casa sua agli inizi di ottobre 2020 e gli chiesi se avesse voluto fare una video lettura per Radio Pomona, lui decise per questa presentazione.

Carlo parla del progetto «Arianna – I libri ritrovati», una collana di poesia ospitata dalla rivista online “Diacritica” e diretta da lui, Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi. (continua dopo il video)

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Roberto Cicala, “I meccanismi dell’editoria”

A N T E P R I M A    E D I T O R I A L E

Roberto Cicala, uno dei maggiori esperti del settore editoriale, in questo libro in uscita a fine febbraio 2021 dal titolo: I MECCANISMI DELL’EDITORIA  Il mondo dei libri dall’autore al lettore  (Il Mulino, 2021) racconta l’innovazione e la tradizione nelle fasi di progettazione, produzione e promozione del libro, sia cartaceo che e-book. Un’introduzione aggiornata all’universo librario attuale, alle professioni culturali dentro e fuori le case editrici e alle modalità nuove di lettura, in presenza e in digitale, con l’analisi di numerosi casi esemplari, dai Gialli Mondadori a Harry Potter, da Calvino a Eco, da Gomorra a Elena Ferrante, dal self publishing alle piattaforme social. Un viaggio dentro la mediazione editoriale per capire l’attuale società attraverso questo prodotto culturale che, pur in continua mutazione, resta in equilibrio tra materialità e immaterialità, artigianato e industria.

E’ un libro utile soprattutto alla formazione dei giovani nelle università. Si rivolge comunque a un pubblico vario, che intende ragionare sulle nuove prospettive digitali e sui fenomeni visti da dietro le quinte.

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Charles Simic, “Avvicinati e ascolta”

Charles Simic

Some Birds Chirp

Others have nothing to say.
 You see them pace back and forth,
 Nodding their heads as they do.

It must be something huge
 That’s driving them nuts –
 Life in general, being a bird.

Too much for one little brain
 To figure out on its own.
 Still, no harm trying, I guess,

Even with all the racket
 Made by its neighbors,
 Darting and bickering nonstop.




Alcuni uccelli cinguettano

Altri non hanno niente da dire.
 Li vedi zampettare avanti e indietro,
 ciondolano la testa a ogni passo.

Deve essere qualcosa di enorme
 che li fa uscire di senno –
 la vita in generale, l’essere uccelli.

Troppo perché un cervellino
 ci arrivi da solo. Comunque,
 tanto vale provarci, mi sa,

anche con tutto il can can
 che fanno i vicini,
 che sfrecciano e bisticciano nonstop.




Hide-and-Seek

Haven’t found anyone
 From the old gang.
 They must be still in hiding,
 Holding their breaths
 And trying not to laugh.

Our street is down on its luck,
 Its windows broken here and there
 Where on summer nights
 We heard couples arguing,
 Or saw them dancing to the radio.

The redhead we were
 All madly in love with,
 Who sat on her fire escape
 Smoking late into the night,
 Must be in hiding too.

Nascondino

Non ho trovato nessuno
 della vecchia combriccola.
 Devono essere ancora alla macchia,
 trattenendo il respiro
 e cercando di non ridere.

La nostra strada ha visto tempi migliori,
 le finestre sfondate qui e là
 dove le sere d’estate
 sentivamo litigare le coppie
 o le vedevamo ballare alla musica della radio.

La rossa di cui
 eravamo tutti cotti,
 che sedeva sulla scala d’emergenza
 a fumare fino a notte fonda,
 deve essersi data alla macchia anche lei.

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Cristina Campo (1923 – 1977)

Cristina Campo




E’ rimasta laggiù, calda, la vita,
 l’aria colore dei miei occhi, il tempo
 che bruciavano in fondo ad ogni vento
 mani vive, cercandomi…

Rimasta è la carezza che non trovo
 più se non tra due sonni, l’infinita
 mia sapienza in frantumi. E tu parola
 che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
 con me, già trapassato in altro viso
 come spera nel vino e consumato
 negli accesi silenzi…

Torno sola…
 tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
 roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
 del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.

*

La neve era sospesa tra la notte e le strade
 come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
 di campane diletto sei venuto…
 Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
 O tenera tempesta
 notturna, volto umano!

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
 stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

*

Devota come ramo
 curvato da molte nevi
 allegra come falò
 per colline d’oblio,

su acutissime làmine
 in bianca maglia d’ortiche,
 ti insegnerò, mia anima,
 questo passo d’addio…

da Quadernetto Continua a leggere

Parole che (s)occorrono

ll desiderio e il dovere di un confronto con noi stessi, con gli altri, col mondo circostante e col tempo in cui viviamo: la poesia è oggi più che mai un linguaggio capace di affrontare la complessità del reale senza lasciarsi abbagliare e fagocitare dai facili miti del momento. Parole e non fatti, si dice correntemente, con un certo disprezzo. «Ma – come sottolinea Riccardo Donati – i fatti sono cose concluse, statiche, sono participi passati, mentre le parole, invece, sono faccende, sono le cose che avvengono, che circolano tra noi. Sono, insomma, il mezzo gerundio della realtà in divenire. E questa realtà, interiore o esteriore che sia, è complessa. Ciò che la poesia fa, quando è frutto di studio e rigore, passione e sincero coinvolgimento, è esattamente questo: dire in forma sintetica la complessità.»

Questo volume nasce da un confronto tra due poetesse e un critico che dialogano tra loro sul senso di scrivere e leggere versi oggi.

Raccoglie inoltre un’antologia commentata di alcune delle più significative voci poetiche di ogni tempo e latitudine: Saffo, Lucrezio, Ovidio, Osip Mandel’stam, Emily Brontë, Emily Dickinson, Anne Sexton, Zbigniew Herbert, Bartolo Cattafi, Andrea Zanzotto, Eugenio Montale, Paul Celan e altre e altri ancora. Il libro si chiude con una riflessione delle due autrici sulla natura e la pratica della loro scrittura.

Un libro rivolto a chi già legge poesia e ancor più a chi non la legge ma intende fermarsi a riflettere sulle cose che succedono per raccogliere le idee e rifondare la propria capacità di dirsi, di dire. Un libro per lavorare sul vissuto e costruire una comunità pensante, incoraggiare la lettura e la riflessione, favorire la pratica della scrittura intesa come gesto individuale e azione collettiva, intervento sul mondo.

Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola” di Antonella Anedda e Elisa Biagini, a cura di Riccardo Donati (Chiare Lettere Editore, 2021).

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La materia organica di Durs Grünbein

Durs Grünbein





Die Ausgeschlossenen


Ich habe Gespenster gesehen im Park –
 Afrikaner. Sie lagen verstreut auf dem Rasen
 Unter unnahbaren Pinien, wie Breughels Bauern
 Im Schlaraffenland. Sie schliefen dort draußen
 Bei Wind und Wetter, hangten die nassen
 Kutten und Hosen aus den Caritas-Containern
 Zum Trocknen an Bauzäune, Busche.
 Sie machten früh Katzenwäsche, putzten
 Die weißen Zähne in den dunklen Gesichtern
 Am Brunnen mit dem eiskalten Wasser
 Der Aquädukte, von römischen Sklaven erbaut.

Unsichtbar waren sie, für die meisten kaum mehr
 Als Randfiguren. Schatten aus einer Unterwelt,
 Nur von den Schnüfflern beachtet – Männern
 Mit Schäferhunden –, schlichen sie
 Den ganzen Tag wie im Morgengrauen umher.
 Stolze Menschen im Grunde, doch nutzlos
 In ihrer Verborgenheit, von zwei Augen punktiert,
 Die glühten noch lange nach, wenn man sie traf,
 Wie im Traum das Meer, das sie hertrug,
 Das Meer zwischen ihnen und uns.

 

Gli esclusi

Nel parco ho visto spettri –
 africani. Sparsi, sdraiati sull’erba
 sotto inaccessibili pini, come contadini di Breughel
 nel paese di cuccagna. Dormivano fuori
 con qualsiasi tempo; appesi a cespugli, a steccati
 ad asciugare c’erano calzoni e giubbe bagnate
 che vengono dai container della Caritas.
 Come i gatti si lavano, la mattina presto,
 e quei denti bianchi su volti neri
 se li puliscono con l’acqua gelida della fontana:
 gli acquedotti costruiti dagli schiavi romani.

Invisibili erano, figure marginali per i più
 o meno ancora. Ombre dagli inferi,
 li notano solo i ficcanaso – uomini
 con cani lupo – tutto il giorno a zonzo
 come sul far dell’alba.
 Persone orgogliose, in fondo, ma inutili
 nella loro clausura bucata da due occhi
 che rimanevano un pezzo accesi quando li incontravi,
 come in sogno il mare che qui li portò,
 il mare fra loro e noi.

(Traduzione Anna Maria Carpi)

Da: Schiuma di quanti, Durs Grünbein, Einaudi, 2021

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Marina Cvetaeva (1892 -1941)

Marina Ivanova Cvetaeva

Marina Cvetaeva, La principessa guerriera

Dall’Introduzione
Fiabe, filigrane e un finale tragico

 di Marilena Rea

 

Nell’universo Cvetaeva il poema Zar-fanciulla (Car’-devica), una fiaba in versi (poema-skazka, recita il sottotitolo), occupa un posto cardinale. Perché venne composto nel 1920, anno di enormi privazioni, di miseria, freddo e lutto: tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina. Perché è l’espressione più complessa di quello che Cvetaeva chiama la sua «linea russa», cioè l’immaginario folclorico, epico e fiabesco – «Voi sapete quanto io ami l’arte popolare (NB! Io stessa sono il popolo!)». E soprattutto perché è sempre stato considerato da Cvetaeva la sua «cosa migliore».

In un tempo astorico e ciclico, tipico della tradizione folclorica, ripartito in tre Notti e tre Incontri fondamentali (più una breve Notte ultima e una Fine), si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re. Suo è il regno al di là dei mari, sua è la forza ignea, suo è il dominio sugli elementi del creato; di altezza smisurata e potenza da bogatyr’ (l’eroe epico delle byliny), principio universale maschile, simboleggia la forza attiva del Sole: ha il volto tondo e radioso che ustiona chiunque si accosti, ha una folta chioma riccioluta di un rosso infuocato, vive in un rosso palazzo, guida un Vascello di Fuoco, siede in un rosso padiglione; e, infine, agisce sempre di giorno, durante gli Incontri.

Cvetaeva iperbolizza la principessa guerriera della tradizione, protagonista delle due fiabe russe (la n. 232 e la n. 233) raccolte in Narodnye russkie skazki dell’illustre etnologo Aleksandr Afanas’ev, un libro di fiabe ricevuto in dono nel 1915 dagli amici pietroburghesi Jakov Saker e Sofija Cackina, un libro amato, probabilmente uno di quelli con cui «mi bruceranno», scrive Cvetaeva nel 1926. Guerriera, eretica, santa, pellegrina, strega – sono tante le maschere in cui Cvetaeva racconta il suo rifiuto nei confronti del ruolo convenzionale della donna, a partire dalla lirica Se ti chiamo caro – non ti annoiare (1916), fino ai poemi coevi di Zar-fanciulla (Il Prode, Sul cavallo rosso, Vicoletti); un popolo di donne leggendarie – Pentesilea, Brunilde, Giovanna d’Arco – marcia in filigrana con lo stesso passo militare di Zar-fanciulla, finendo per sovrapporsi alla stessa Cvetaeva. Di questo mondo guerriero femminile – intriso di epos ma anche di leggende popolari e superstizioni, narrato con un inconfondibile linguaggio che si muove, nota Karlynsky, tra registri incolti e colloquiali, registri della Bibbia, dello slavo ecclesiastico e del russo antico – Zar-fanciulla porta il vessillo, con un’ostinata volontà di salvare dall’oblio quell’autentica cultura moscovita, la «Mosca dell’ultima ora e dell’ultima volta» che, con tanto orgoglio, Cvetaeva aveva regalato a Osip Mandel’štam durante il soggiorno a Mosca nel 1916. […] Continua a leggere

Anna Elisabetta Raffin, i migranti della Val Rosandra

Senza Corpo è un progetto fotografico di Anna Elisabetta Raffin sul fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica..

Anna Elisabetta Raffin, da sempre interessata al tema dei migranti, ha voluto realizzare un progetto artistico fotografico intitolato – Senza Corpo– con l’intento di attirare l’attenzione sul problema e anche per aiutare l’associazione Linea d’Ombra di Trieste  con la quale è in contatto, associazione di volontariato che fa un lavoro improbo, invisibile ai più. È andata in un bosco della val Rosandra, dove appunto arrivano i migranti dalla rotta balcanica e ha raccolto vestiti e oggetti lasciati da questi prima di entrare in città (si cambiano per non essere riconosciuti). Li ha poi portati a casa e fotografati secondo l’ottica del progetto: prodotti di consumo in un sito dall’apparenza di un e-commerce, con relativo pulsante d’acquisto.

La contrapposizione tra il mondo asettico del consumismo e la realtà tragica di queste persone vuole mettere in evidenza le contraddizioni di una società che vive in una bolla di benessere, professando grandi valori e diritti, i quali hanno, però, una resistenza morale solo fino ai confini del paese.

“L’assenza del corpo non è solo un richiamo al corpo umano che ha indossato quegli abiti (…) ma è soprattutto un’allusione al corpo privato di valore umano, di diritti e di ruolo sociale.

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Henry Reed (1914-1986)

Henry Reed

A CURA DI GIORGIA SENSI

Benché sia stato scrittore e poeta prolifico, Henry Reed è conosciuto dalla maggior parte dei lettori per un’unica poesia, “Naming of Parts”. Come poesia di guerra, è forse la più antologizzata nel Regno Unito.

Reed in realtà la vera guerra non la vide. Fu arruolato nel 1941 ma non partecipò mai a un combattimento, anzi nemmeno lasciò l’Inghilterra. Lavorò alla decifrazione dei messaggi in codice, prima italiani e poi giapponesi.

Nei pochi mesi in cui servì l’esercito, poté seguire un corso di base all’uso delle armi che consisteva in lunghi e noiosi addestramenti.

Per divertire i compagni, faceva delle imitazioni comiche del sergente istruttore, e dopo un po’ si rese conto che il linguaggio che questi usava, tratto da un manuale dell’esercito, rivelava una trama ritmica che poteva essere la base di una poesia.

In “Naming of Parts” si alternano due voci, quella dell’istruttore, nella prima parte di ogni stanza, che parla con frasi semplificate e meccaniche, seguita, in un flusso senza interruzioni, da quella della giovane recluta annoiata, sognante, lirica.

Ne risulta una spiritosa parodia dell’esercito e della sua scarsità di attrezzature, e un tono di arguto e “understated” antimilitarismo.

 

NAMING OF PARTS  

 

Today we have naming of parts. Yesterday,
We had daily cleaning. And tomorrow morning,
We shall have what to do after firing. But today,
Today we have naming of parts. Japonica
Glistens like coral in all the neighboring gardens,
And today we have naming of parts.

 

This is the lower sling swivel. And this
Is the upper sling swivel, whose use you will see,
When you are given your slings. And this is the piling swivel,
Which in your case you have not got. The branches
Hold in the gardens their silent, eloquent gestures,
Which in our case we have not got.

 

This is the safety-catch, which is always released
With an easy flick of the thumb. And please do not let me
See anyone using his finger. You can do it quite easy
If you have any strength in your thumb. The blossoms
Are fragile and motionless, never letting anyone see
Any of them using their finger.

 

And this you can see is the bolt. The purpose of this
Is to open the breech, as you see. We can slide it
Rapidly backwards and forwards: we call this
Easing the spring. And rapidly backwards and forwards
The early bees are assaulting and fumbling the flowers:
They call it easing the Spring.

 

They call it easing the Spring: it is perfectly easy
If you have any strength in your thumb: like the bolt,
And the breech, the cocking-piece, and the point of balance,
Which in our case we have not got; and the almond blossom
Silent in all of the gardens and the bees going backwards and forwards,
For today we have the naming of parts.

 

IL NOME DEI COMPONENTI

 

Oggi abbiamo il nome dei componenti. Ieri,
Abbiamo avuto la pulizia quotidiana. E domattina,
Avremo cosa fare dopo lo sparo. Ma oggi,
Oggi abbiamo il nome dei componenti. La japonica
Riluce come corallo nei giardini adiacenti,
E oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

Questo è l’anello inferiore per la cinghia. E questo,
È l’anello superiore per la cinghia, ne capirete l’uso,
Quando avrete la cinghia. E questo è il gancio per la rastrelliera,
Che nel vostro caso non avete. I rami
Nei giardini mantengono pose silenziose ed eloquenti,
Che nel nostro caso non abbiamo.

 

Questa è la sicura, si rilascia
Con un semplice scatto del pollice. Che non vi veda
Mai usare un altro dito. E’ un gesto facile
E richiede solo un minimo sforzo del pollice. I boccioli
Sono fragili e immobili, e stanno bene attenti
A non farsi vedere a usare un altro dito.

 

E questo che potete vedere è l’otturatore. Serve
Ad aprire la culatta, come vedete. Lo possiamo far scorrere
Rapidamente avanti e indietro: lo chiamiamo
Innescare. E rapide avanti e indietro
le prime api assalgono e frugano i fiori:
Lo chiamano innescare la primavera.

 

Lo chiamano innescare: è facilissimo e richiede
Solo un minimo sforzo del pollice: come l’otturatore,
E la culatta, il tiretto, e il punto di bilanciamento,
Che nel nostro caso non abbiamo; e il mandorlo fiorisce
In silenzio nei giardini e le api s’affannano avanti e indietro impazienti,
Perché oggi abbiamo il nome dei componenti.

 

da A Map of Verona, J. Cape, 1946 – traduzione di Carla Buranello Continua a leggere

Procida, la rivincita della Poesia

di Monica Acito

 

 

La conquista dell’Italia minore, quella dei borghi e dei grappoli d’azzurro pescati sui fondali marini. La rivincita della lentezza,  del tempo dilatato e dell’odore dei limoni. “Procida, la cultura non isola”: questa è la formula del dossier che ha incoronato Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Ma Procida in quanto isola ci ricorda anche che ognuno di noi è un’isola, insondabile, irraggiungibile, impenetrabile, da difendere, da tutelare come bene assoluto. Ed è la prima volta che una piccola isola ha trionfato, sbaragliando una folta concorrenza. Procida si è laureata Capitale Italiana della Cultura per tante ragioni, ma vi è anche una motivazione poetica, una radice al di là del tempo.

Non è stata decisiva solo la dimensione patrimoniale e paesaggistica, e nemmeno la possibilità di uno sviluppo sostenibile delle realtà isolane e costiere del Paese: a fare la differenza è stato, anche a detta della giuria, soprattutto il messaggio poetico che scaturisce da questa scelta. Una piccola isola che punteggia il golfo di Napoli, che brilla in mezzo al mare e colpisce, con la sua luce, tutta la penisola; un puntino che pulsa di vita, che insegna che la cultura non dipende dalla posizione geografica, ma dalla vocazione e dalla volontà di costruire un discorso comune. Perché la cultura non è isolamento o esilio; non è soltanto un orpello da indossare col vestito buono della domenica, o un trofeo da tenere su una mensola per impressionare il proprio interlocutore. La cultura è sale marino, villaggi di pescatori, sudore e orizzonti tremolanti di mare; la cultura è fatta di storie che attraversano le grotte e le insenature di un’isola e che diventano eterne, magnificando se stesse nel momento stesso in cui prendono corpo. L’isola non è soltanto un coagulo di terra e rocce, che svetta in mezzo al mare: possiamo affermare, con orgoglio e una certa dolcezza, che l’isola è un vero e proprio genere letterario.

Al di là del nome: che si chiami Procida, Ischia, Capri o Itaca, l’isola è sempre Madre e mai matrigna, un ventre a cui tornare per ritrovare quella vita ancestrale che solo la poesia può rievocare.

L’orizzonte letterario dell’isola di Konstantinos Kavafis è Itaca: un approdo, un punto d’arrivo, ma anche un posto del mondo dal quale ripartire, un luogo che ha l’odore dello iodio e la crudezza della libertà. Kavafis viaggia per scoprirsi e liberarsi, e l’isola diventa il suo corrispettivo terrestre.

Sì, perché l’isola, a prescindere dal nome con cui viene chiamata, è la meta finale del nòstos (νόστος): il poeta si mette in viaggio, solca il mare e lascia dietro di sé scie d’inchiostro. Alle rocce affida i suoi segreti e la dimensione dell’isola gli riconsegna sempre la verità luminosa e incandescente. Cosa rimane alla fine del viaggio verso l’isola? Gli rimane proprio il viaggio, che è il più prezioso dei doni da affidare all’immaginario del poeta, che saprà plasmarlo e addomesticarlo.

Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.

(Konstantinos Kavafis, Itaca, vv.31-36, Tutte le poesie, Einaudi, 2015, a cura di Nicola Crocetti)

Itaca come Procida, contiene e diffonde gli spasmi del poeta; isola a cui alla quale tornare, per sentirsi figli di divinità mai tramontate, perché i numi dell’isola sono semplici, composti di acqua, minerali ed elementi naturali.

E non importa quale sia il nome del lembo di terra o del costone roccioso, perché l’essenza spudorata e primigenia della poesia vivrà sempre, tra le fessure e gli anfratti di ogni isola.

Il nome di Procida è, innegabilmente, nome poetico di ampio respiro.

Iosif Brodskij

Procida riecheggia in una poesia del poeta russo Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, ed è sempre emozionante osservare il profilo dell’isola attraverso gli occhi di un poeta che ha saputo essere sia “classico” che “contemporaneo”, qualsiasi sia l’accezione di entrambi i termini. Perché l’isola è classica, patria del mito, ma è anche e soprattutto contemporanea perché continua a contenere il sangue della nostra civiltà, è culla della poesia e attualità che non possiamo ignorare. E ancora di più non possiamo ignorarlo adesso.

Procida

Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.

Un gabbiano artiglia l’orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.

(Iosif Brodskij, “Poesie italiane” Adelphi, 1996, traduzione di Giovanni Buttafava)

Reti stese ad asciugare e fissate, nello sguardo del poeta, come parenti dei lenzuoli. Uno sguardo quasi chiaroveggente, purificato dal sale dell’isola, che rende tutto più nitido. I colori sono perfettamente messi a fuoco, la mossa del gabbiano è precisa e chirurgica, e il blu di Procida è un vero e proprio manto che avvolge tutta la poesia con grazia e decisione.

Il tocco finale, con la stella incandescente che s’incendia, sembra offrirsi al lettore come un martirio estremo, quello della poesia che prende fuoco nel cielo e si offre a tutti, disperdendosi negli atomi di sale, acqua e sabbia.

Che l’isola possa assumere le sembianze di una Madre lo riscontriamo anche nel poema in versi di Luigia Sorrentino. Olimpia si trasforma in una creatura immensa, gravida di mare e di umanità. Ed è con il peso dell’umano nel grembo che la creatura approda alla piccola isola.

Coro 1

tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava lì sotto e dentro

questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa

le acque la accolsero

e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola, tutti
portava nel suo grembo

(Luigia Sorrentino, Olimpia, Coro I, Iperione, La caduta, Interlinea, 2013, 2019)

L’isola è dunque l’approdo gravido d’umanità di una Madre in un luogo senza confini dal quale si staglia una voce che rivela all’umano la notte del grembo.

La Sorrentino come un oracolo, con versi chiari e luminosi, sembra sussurrare al mare parole che smuovono le onde: “c’è una notte arcaica in ognuno di noi / una notte dalla quale veniamo/ una notte piena di stupore/ quella perduta identità dei feriti,/ si popola di volti”, e ci ricorda che tutti proveniamo dallo stesso seme notturno, e quella notte arcaica rimarrà sempre nel nostro codice genetico, come una condanna o una rivelazione.

Ed è proprio dall’approdo al profilo roccioso dell’isola, da quella notte arcaica, che possiamo scoprire la nostra vera identità di naufraghi. Dalla notte possiamo risollevarci, rinascere e purificarci, guardando il mare dal profilo dell’isola che accoglie e rigenera.

Non è Procida l’isola della Sorrentino, o forse sì, potrebbe esserlo. Perché un’isola è sempre un’isola, da qualunque parte la si osservi, è una terra emersa dalla quale far emergere la coscienza, la consapevolezza di ciò che siamo. Continua a leggere

Alberto Rollo, “L’ultimo turno di guardia”

Alberto Rollo nella foto di Adolfo Frediani

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Un uomo anziano serrato in una torre, infermo, soltanto una guardia a sua custodia. È questa la condizione alternativamente reale e simbolica, beckettiana, che rispecchia la fine della storia, il crollo delle ideologie e l’inizio di un’èra nuova e indefinibile. Nel poemetto di Alberto Rollo, L’ultimo turno di guardia, una sequenza lirica che consta di sessantasei frammenti divisi in cinque parti, la degenza fisica e allegorica del paziente-vegliardo sembra penetrare nel tessuto dei versi fino a squarciare il velo della presunta temporalità. L’io lirico è «malato di tempo» e, posto su una cupola che guarda verso una fantomatica «torre gemella», riflette, monologa, salmodia sul presente e sul passato, osservato a stretto giro da un infermiere che è anche spia e carceriere, nel cui silenzio sommesso si cela tutta l’incomprensibilità e l’incomunicabilità con l’altro da sé, a metà tra l’inferno del sartriano A porte chiuse e l’innocente di Turgenev («tanto è poco l’io di cui son io/ che il poco del tuo tu fiammeggia appena»).

La storia narra, infatti, per bocca del vegliardo le insidie della solitudine e dell’assenza di una vera comunicazione, lo sfogo psicologico e il tenue apparire del tu in un orizzonte mai del tutto agguantato, sempre lontano e inaccessibile. È una fotografia della nostra età contemporanea, nella quale l’atteggiamento interno, solipsistico (aggravato dal virus e dai suoi derivati) è l’unica maniera per proteggersi da un esterno invadente e selvaggio.

In un ritmo corrusco, balenante, che ricorda il graffio di Sereni e lo scatto fortiniano, i versi di Rollo – romanziere, finalista al Premio Strega con Un’educazione milanese (Manni 2016) ed editor di Mondadori – tentano di rintracciare un senso alle variabili esistenziali messe in scena dal protagonista, rimembrando e accusando, ricusando e difendendosi dall’asciutta quiete del misterioso inquisitore («vi cercherete ciechi sopra il muro,/ come timidi gechi pattugliando/ il giorno e i suoi improvvisi/ nidi di ombre»).

Scolpito da endecasillabi e settenari che si chiudono spesso, soprattutto nelle clausole finali, in enjambement – ricreando così la possibilità frantumata del doppio settenario –, il poemetto, lontano parente di Parini e Testori, dunque pienamente ancorato alla tradizione lombarda, si muove lungo una scala valoriale (e linguistica) richiamante la corporeità, anche nei suoi aspetti più bruti e infimi, per indagare l’oltre, ossia per centrare l’esperienza del celeste nella dura scorza del terrestre, come attesta il frammento trentadue: «E di là il vento./ Vento d’inverno,/ sii più forte di me che ti resisto/ in questa sgangherata/ torre-lazzaretto;/ inchiodami a quella neve rossa/ di piscio, a quella nera/ di tutti gli escrementi,/ o tienimi con gli argani del gelo/ alto sopra le strade, spingi me/ e il mio peso verso aeroporti, scali,/ stazioni, moli. Alzami in volo/ come plastica, indifesa contro il cielo,/ odiosa e inerme, finché posi/ dentro immense, sconfinate sale/ d’attesa». L’alto e il basso, il lucente e l’oscuro.

È un chiaro esempio di scatologia ed escatologia, analisi di deiezione e tensione alle finalità ultime dell’essere umano, in una compresenza di mondi (ironica, spaesante) molto vicina all’ultimo Montale. L’evoluzione “drammaturgica” del racconto (non si dimentichi che Rollo nasce come autore di testi teatrali con Tempi morti Gli ultimi giorni di Lorenzo Mantovani), come per la Fortezza Bastiani abitata dal tenente Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati, è avvolta in un grigiore di senso, in un logorio di spente accensioni, mentre si fa sempre più essenziale la richiesta di eludere le catene del tempo («E poi salimmo – in quale compagnia/ il tempo sfuoca – per tornanti/ agganciati alla festosa, folle/ grazia di foglie e di ramaglia/ di farnie, carpini e castagni/ su per la sgretolata cieca vena/ del calcare, e il rovinio di acque/ timide, e di tremanti specchi»). Il gesto del “salire” racchiude in sé, quasi in forma archetipica, la speranza di una liberazione per l’uomo di oggi, soffocato nella prigione delle sue ansie. Continua a leggere

Poesie d’amore di Carol Ann Duffy

Carol Ann Duffy

 

A CURA DI BERNARDINO NERA E FLORIANA MARINZULI

Nata a Glasgow verso la fine del 1955, Carol Ann Duffy è la primogenita di una famiglia cattolica di estrazione sociale operaia, composta dal padre Frank Duffy, dalla madre Mary Black e da altri quattro fratelli. All’età di sei anni Carol Ann si trasferisce insieme alla famiglia a Stafford, nel nord dell’Inghilterra, per motivi di lavoro del padre.

L’esperienza di emigrazione e sradicamento dalle proprie origini scozzesi risulterà decisiva nella formazione del carattere dell’allora bambina Carol Ann. In particolare, lo stato di iniziale esclusione da parte dei coetanei inglesi e la conseguente alienazione nel vivere fra due dimensioni, quella domestica, familiare, rassicurante contrapposta a una dimensione a lei estranea, nuova e alla quale vi è la necessità, seppur con fatica, di integrarsi e adattarsi, la portano a sviluppare una sensibilità singolare nei confronti degli accenti e della lingua in generale.

L’interesse per la poesia nasce tra i banchi della St. Joseph’s Convent School, incoraggiata dalla sua insegnante, June Scriven, che ne aveva individuato la naturale inclinazione, ma è la città di Liverpool, dove Carol Ann Duffy si trasferisce nel 1974 per intraprendere gli studi di filosofia, a iniziarla ai numerosi poetry reading messi in scena in città e a farle da scuola di formazione artistica.

A Liverpool Carol Ann frequenta assiduamente Adrian Henri, e fin d’allora tra i due nasce un intenso rapporto affettivo e artistico che originò la composizione dell’opera poetica scritta in coppia e pubblicata in tiratura limitata nel 1977, con il titolo Beauty and the Beast.

Il 1985 è l’anno dell’esordio letterario con la pubblicazione della prima raccolta poetica, Standing Female Nude, accolta assai positivamente dalla critica. Seguono Selling Manhattan (1987), The Other Country (1990), Mean Time (1993), The World’s Wife (1999), Feminine Gospels (2002), Rapture (2005), e The Bees (2011) che le valgono tra i più importanti riconoscimenti poetici, dal Dylan Thomas Award del 1989 per The Other Country al prestigioso T. S. Eliot Prize del 2005 per Rapture, al Costa Book Awards per la penultima raccolta della poetessa: The Bees (2011). L’ultima antologia poetica pubblicata con il titolo Sincerity, è del 2018 ed è stata tradotta in italiano da Bernardino Nera e Floriana Marinzuli, nel 2020 per l’editore Ladolfi.

Il 1 maggio 2009 Carol Ann Duffy viene nominata Poet Laureate del Regno Unito. Oltre a essere consacrata ufficialmente voce poetica più significativa e amata del paese, la sua nomina segna una svolta memorabile nella tradizione letteraria britannica. È difatti la prima donna, omosessuale dichiarata, a rivestire tale carica in 341 anni di laureateship al maschile. Nel succedere ad Andrew Motion, Duffy si dichiara onorata dell’incarico e non nasconde di aver umilmente accettato a nome di tutte le donne, proprio perché nessun’altra prima di allora era stata insignita di tale onorificenza.

La nomina a Poet Laureate di Carol Ann Duffy segna finalmente l’agognato riconoscimento da parte delle istituzioni della poetessa a figura pubblica.

L’incarico conferitole dalla Regina Elisabetta, che prevede la composizione di versi in occasione di eventi ufficiali, ha dato nuova linfa al suo genio creativo e ha messo fine a un lungo periodo di silenzio, segnato dalla grave perdita della madre e dalla separazione dalla poetessa scozzese Jackie Kay.

L’antologia Lo splendore del tempio, pubblicata dall’editore Crocetti nel 2012, dalla quale sono tratte alcune delle poesie tradotte in italiano da Bernardino Nera e Floriana Marinzuli che presentiamo ai lettori del blog, include in maniera completa ed esaustiva gran parte delle poesie d’amore pubblicate dal 1985, compreso l’intero indice di un’antologia pubblicata nel 2010 con il titolo Love Poems. L’opera, insignita nel 2013 con il Premio Achille Marazza per la traduzione poetica, rappresenta una silloge i cui testi di volta in volta trattano i molteplici volti dell’amore, nelle sue diverse declinazioni e manifestazioni di passione, brama e struggimento che si tramutano in stati di sofferenza, separazione, perdita e lutto, e al contempo giocano sull’elemento dell’ambiguità nei riguardi dell’oggetto del desiderio, al quale sovente non è dato né un nome né un’identità specifici, innescando in tal modo un’opera di esplorazione e rinegoziazione dei rapporti tra innamorati con l’intento, da parte della poetessa, di sovvertire la divisione sbilanciata di potere tra uomo e donna, amante e amata su cui da sempre la tradizione lirica amorosa si è basata. Continua a leggere

Il poeta cileno Mario Meléndez

Mario Meléndez

ARTE POETICA

 

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

La mucca abbandona il paesaggio
continuiamo a sentire i muggiti
la nostra memoria adesso pascola
in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria
le parole cambiano nome
ci soffermiamo a piangere
sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto
le parole stanno sulla sua groppa
il linguaggio si burla di noi

 

ARTE POÉTICA

Una vaca pasta en nuestra memoria
la sangre escapa de las ubres
el paisaje es muerto de un disparo

La vaca insiste con su rutina
su cola espanta el aburrimiento
el paisaje resucita en cámara lenta

La vaca abandona el paisaje
continuamos escuchando los mugidos
nuestra memoria pasta ahora
en esa inmensa soledad

El paisaje deja nuestra memoria
las palabras cambian de nombre
nos quedamos llorando
sobre la página en blanco

La vaca pasta ahora en el vacío
las palabras están montadas sobre ella
el lenguaje se burla de nosotros Continua a leggere

Rosmarie Waldrop, “La riproduzione dei profili”

Rosmarie Waldrop

FATTI

 

Avevo dedotto dalle immagini che il mondo era reale e per questo mi fermavo, perché chi sa cosa può accadere se parliamo di verità salendo le scale. Di fatto, avevo paura di seguire l’immagine fino a dove raggiunge la realtà, contro cui si poggia come un righello. Pensavo che sarei morta se il mio nome non mi avesse toccata, o se l’avesse fatto soltanto con la sua estremità, lasciando l’interno aperto a così tante antenne come una pioggia casuale che scroscia dalle nuvole. Hai riso e hai detto a tutti che avevo preso la Torre di Babele per Noè nella sua Ebbrezza.

*

Non volevo prendere, nella mia mano fredda, questa strada che mi avrebbe riportata a casa, né seguire il consiglio che mi avevi dato di trovare un altro uomo che mi trattenesse perché lo studio di un’emicrania non avrebbe risolto il problema della sensazione. Tutto quel tempo, provavo a pensare, ma il fiume e la sponda si fondevano in un’unica oscurità, e le parole si appropriavano di significati che le rendevano difficili da usare alla luce del giorno. Credevo che entropia significasse abbracciarmi le gambe strette al corpo così che l’ombra del ponte sul Seekonk potesse scriversi nel mozzo della sua ruota abbandonata.

*

Nella mia immagine del mondo la parte accidentale cade con la pioggia. Qualche volta, di notte, l’aria diluita. Mi hai detto che le case più povere, giù lungo il fiume, portano ancora il segno dell’inondazione, ma il mondo si divide in fatti simili a vagabondi sorpresi e scompigliati da un vento improvviso. Quando hai smesso di preparare citazioni dai misogini dell’antichità era chiaro che avresti presto dimenticato la mia strada.

 

FACTS

 

I had inferred from pictures that the world was real and therefore paused, for who knows what will happen if we talk truth while climbing the stairs. In fact, I was afraid of following the picture to where it reaches right out into reality, laid against it like a ruler. I thought I would die if my name didn’t touch me, or only with its very end, leaving the inside open to so many feelers like chance rain pouring down from the clouds. You laughed and told everybody that I had mistaken the Tower of Babel for Noah in his Drunkenness.

*

I didn’t want to take this street which would lead me back home, by my own cold hand, or your advice to find some other man to hold me because studying one headache would not solve the problem of sensation. All this time, I was trying to think, but the river and the bank fused into common darkness, and words took on meanings that made them hard to use in daylight. I believed entropy meant hugging my legs close to my body so that the shadow of the bridge over the Seekonk could be written into the hub of its abandoned swivel.

*

The proportion of accident in my picture of the world falls with the rain. Sometimes, at night, diluted air. You told me that the poorer houses down by the river still mark the level of the flood, but the world divides into facts like surprised wanderers disheveled by a sudden wind. When you stopped preparing quotes from the ancient misogynists it was clear that you would soon forget my street.

Rosmarie Waldrop, La riproduzione dei profili, a cura di Maristella Bonomo, nella collana “Le Meteore”, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat, per FinisTerrae di Ibis, Pavia 2021.

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La poesia di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

L’arte del montaggio: Gabriele Galloni, Creatura breve, Ensemble, 2018
di Giuseppe Martella

 

Per comprendere a fondo la poesia di Gabriele Galloni, è bene tenere a mente le preziose indicazioni che egli ci ha offerto in diverse occasioni, a partire dall’intervista concessa a Michele Paoletti su Laboratori di poesia, dove, alla domanda su come nascano le sue poesie, risponde: “Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando.” Questa bipolarità caratteristica della inventio di Gabriele è un indizio di un più decisivo dualismo che caratterizza la sua poetica: quello fra immagine e parola, che si manifesta poi con diverse modalità e a diversi livelli nei suoi vari testi. Come se fra l’ordine verbale (più pacato e tradizionale) e quello iconico (più convulso e sovversivo) corresse una continua tensione, irriducibile all’unità di un solo codice. Si tratta di un dialogismo radicale che non riguarda solo o tanto l’ambito dei generi letterari, coinvolgendo invece i vari media della espressione artistica, come se i suoi versi costituissero nel contempo gli appunti di una sceneggiatura cinematografica in fieri.

Le sue poesie nascono dunque da una istantanea che contiene un nucleo narrativo che poi si sgrana nel rosario dei versi da cui attinge da un lato la misura e dall’altro la possibilità della messa a fuoco di qualche dettaglio, nel gioco degli stacchi e dei controcampi, proprio come nell’esercizio del montaggio cinematografico. In questo duplice movimento si realizza in senso tecnico quella tensione fra discorso e figura, o fra vita e forma, che anima da un lato il testo artistico e dall’altro la creatura vivente, per quanto breve sia il tempo della sua esposizione allo sguardo altrui. E’ ciò che io chiamo poetica del foto-gramma intendendo con ciò la resa (o l’arrendersi) dell’istantanea nella traccia chirografica e nella gabbia del verso. Non si tratta dunque solo della traduzione dell’immagine viva in segni inerti, didascalie della vita, ma anche della tensione irrisolta fra due tipi di segno, l’icona e il simbolo, come se fossero entrati in un vortice gravitazionale che conduce a uno stravolgimento dello spazio-tempo del discorso: come nel vertice di una clessidra, o spirale di un passaggio epocale, doppia elica che segna il fissarsi di una traccia (treccia) nel DNA dell’esserci qui ed ora della “creatura breve”. Del Fanciullo Divino, il poeta millennial, scrittore ed editor di immagini, che si cala nella sua cesura epocale, giocando ai limiti della trasparenza dove ogni ritocco è a rischio di cancellazione.

Poetica del fotogramma, intesa poi anche nel senso proprio della istantanea predisposta al montaggio cinematografico o digitale, ma pertanto sempre esposta al rischio di essere scartata dalla versione finale del film, per diventare appunto un out take, come recita il titolo della prima lirica di questa silloge che ci dà la chiave per l’interpretazione di tutta la produzione di Galloni, che obbedisce a una poetica del ritaglio e del prelievo, del ritocco e della cancellazione, operando sulla soglia che distingue l’epoca della rappresentazione da quella della simulazione e la civiltà letteraria da quella digitale, fondendo l’ontologia dell’icona con quella del simbolo. Perché qui si tratta di un montaggio anomalo, spurio, che coniuga immagini e parole senza risolverne il dissidio, mantenendole in una esitazione prolungata che complica di fatto quella canonica fra suono e senso, caratteristica di tutta la poesia. La complica assumendola come un’eredità defunta, da un lato, e dall’altro consegnandola all’interazione con l’immagine-movimento, così come i nostri trapassati sono “le didascalie del mondo” e “l’indicibile/ della conversazione” e la loro musica “il contrappunto/ dei passi sulla terra”, per usare immagini tratte dalla silloge precedente che pone tra l’altro anche una domanda cruciale sul destino della creatura breve e della sua traccia, del singolo e della specie umana.

I due testi sono infatti intimamente connessi nella loro struttura radicale, al di qua della tematica stessa. Se insieme a Slittamenti e a In che luce cadranno questa Creatura breve è infatti terza di una trilogia, bisogna precisare però che si tratta della costola di una costola, dal momento che Slittamenti costituisce il repertorio tematico-strutturale da cui viene poi estratta ed espansa la pantomima dei morti viventi, di cui a sua volta Creatura breve costituisce un ritaglio che ne espande certi dettagli, mostrando scorci inediti e sorprendenti. Si tratta dunque a mio avviso di un’opera cruciale nella breve carriera di Galloni, come uno spasma rivelatore del “poco tempo concesso all’autore”[1], perché qui raggiungiamo il massimo della contrazione del discorso e le sue figure raggiungono la massa critica, scomponendosi in gesti spasmodici che preparano il Big Bang, quella loro dissoluzione in atmosfera che si attuerà mirabilmente nell’Estate del mondo. Se è vero infatti che qui si interroga la natura della brevitas letteraria in quanto tale, sondando i limiti dell’aforisma e dell’epigramma in quanto forme di chiusura del senso nello spazio chirografico, tali limiti si sfumano e sfrangiano poi nel rinvio all’immagine, nel passaggio di genere dal racconto alla sceneggiatura, nella mutazione funzionale della scrittura dal momento che è divenuta un pretesto di quel racconto per immagini che è il film e più in generale di tutte le composizioni audiovisive che gli hanno fatto seguito. Di queste mutazioni Creatura a breve reca una traccia da non sottovalutare perché, se in una prospettiva puramente letteraria questa silloge è probabilmente la meno riuscita della triade, nella dimensione intermediale in cui effettivamente opera essa è assolutamente rivelatrice della poetica di Galloni, in quanto nuovo paradigma in cui comprendere la poesia dei millennials. In questa prospettiva essa dischiude anche la bellezza e il valore di una serie di gemme in sottotraccia, perché il terreno di questo discorso porta le crepe, i segni di un terremoto metafisico. Si osservi infatti la struttura frattale dell’opera intera di Galloni, di cui ogni parte riprende il disegno dell’intero come in un effetto zoom in cui affiorano particolari imprevisti, veri e propri annunci angelici icasticamente e perversamente condensati per esempio nello sperma che l’angelo pazzo e muto depone in bocca alla Vergine o alla Beatrice di turno (8.) Messaggio in codice genetico (16), fenotipica torsione di ogni progetto esistenziale o storico, nonché dell’intero genere della profezia biblica, mutazione della parola incarnata (poetica o evangelica) in quanto testimonianza dell’offerta del Creatore che si fa creatura, e più in generale del sacrificio del capro espiatorio di turno (parte maledetta e pietra angolare di ogni comunità immaginabile) e della sua trasfigurazione nel Dio di un popolo. O si prenda per l’appunto il tema dei “morti viventi”, prelevato di peso dalla raccolta precedente e messo subito a fuoco e a soqquadro all’inizio di questa silloge, come scarto di montaggio, Outtake recuperato, messo in rilievo e riassunto in una immagine folgorante che coniuga il destino della eredità culturale con quello della speculazione, affondando nel medesimo naufragio il retaggio della civiltà letteraria e l’atto della sua rappresentazione: “I morti naufragano negli specchi.” (7) Da cui emergono poi, nello spazio della simulazione intermediale, squisiti e blasfemi, osceni e perversi, gli ologrammi della nuda vita. Naufragio epocale alla presenza di una divinità interdetta e ammutolita, nel vortice di angeli ed annunci che segna il nuovo gioco del mondo: “Giocammo a ciò che ci sembrava/ essere il gioco giocato dagli angeli -/ ma Lui non potrebbe mai dirvelo.” (9) Continua a leggere

Biennale Venezia/Leoni per il Teatro

Krzysztof Warlikowski (FOTO M. STANKIEWICZ)

 

Krzysztof Warlikowski Leone d’oro alla carriera

Kae Tempest Leone d’argento

E’ il regista polacco Krzysztof Warlikowski, figura emblematica del teatro post comunista che ha marcato la scena internazionale creando visioni memorabili, il Leone d’oro alla carriera per il Teatro 2021.

Il Leone d’argento è tributato all’inglese Kae Tempest, insieme poeta, autore per il teatro e di testi narrativi, rapper e performer di travolgenti e affollatissimi reading.

Lo ha deliberato il Consiglio di Amministrazione della Biennale di Venezia accogliendo la proposta di ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte), direttori del settore Teatro.

La premiazione avrà luogo nel corso del 49. Festival Internazionale del Teatro (2 > 11 luglio).

“Da più di vent’anni Krzysztof Warlikowski – secondo la motivazione – è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra l’opera teatrale e il pubblico, Warlikowski sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente”.

Presente con le sue regie teatrali nei maggiori festival di tutto il mondo – dall’Europa alle Americhe – e con i suoi allestimenti lirici nei più importanti teatri d’opera – da Parigi a Londra e Salisburgo – Krzysztof Warlikowski è “un artista libero – scrivono ricci/forte – che apre brecce poetiche illuminando con un fascio di luce cruda il rovescio della  medaglia;  che  rompe  la  crosta  delle  cose  toccando le coscienze; che scende nelle viscere del dolore e mette in discussione con ironia le ambiguità sia della Storia con la “s” maiuscola sia quelle della nostra esistenza individuale, offrendoci la visione di una società minacciata da cambiamenti radicali e sempre più assediata da una tentacolare classe dirigente di predatori famelici, evidenziando la violenza nei rapporti sociali e familiari e il bisogno urgente che l’emozione di un puro e semplice desiderio d’amore ci può donare”.

Kae Tempest (FOTO JULIAN BROAD)

Kae Tempest è “la voce poetica più potente e innovativa emersa nella Spoken Word Poetry degli ultimi anni – recita la motivazione – capace di scalare le classifiche editoriali inglesi e raccogliere consensi al di fuori dei confini nazionali per il coraggio ardimentoso nel dissezionare e raccontare con sguardo lucido angosce, solitudine, paure e precarietà di vivere, i più invisibili eppure concreti compagni di vita della nostra epoca – tra identità, ipocrisie e marginalità vissute anche sulla sua pelle – scaraventandosi contro l’odierna morale imperante e opprimente.
Kae Tempest, con una candidatura ai Brit Awards 2018 e riconoscimenti intitolati a Ted Hughes e T. S. Eliot, è ora attribuito il Leone d’argento per il Teatro 2021 – scrivono ricci/forte – “per l’audacia luminosa nel posizionare deflagranti inneschi riflessivi e per voler ancora sperimentare in un genere definito di nicchia, come la poesia, mescolando l’aulico con il basso, la rabbia con la dolcezza degli affetti – tra versi e rime taglienti di shakespeariana memoria e dal forte contenuto sociale, miti classici e ibridazioni hip hop – arrivando a parlare col cuore a un pubblico sempre più vasto, entrandoti fin dentro le ossa, costringendoti a specchiarti nella tua dolorosa intimità”.

The Book of Traps & Lessons è l’ultimo dei leggendari reading di Kae Tempest che verrà presentato in prima per l’Italia al 49. Festival Internazionale del Teatro. Continua a leggere

Per Carlo Bordini

CONFRONTO TRA SCRITTORI E CRITICI SULLA SUA OPERA

L’incontro è ospitato dalla libreria ELI (Esperienze Libri Idee) il 13 febbraio alle ore 18,00.  Si potrà seguire in diretta sulla pagina Facebook: https://www.facebook.com/libreriaeliroma

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AUTUNNO

Quando la fantasia
 scopre l’invenzione di se stessa
 si stanca
 di inventare la realtà
 non esistono le ore, non esistono i giorni, l’esistenza e la vita si
 confondono.

È questo il paradiso? O l’autunno?
 l’inverno precede dunque l’autunno? È questa la cabala?
 così come la guerra precede la pace.
 l’acqua è acqua di pozzo, molli onde, concentriche.

Ciò che richiama il tuo incerto sorriso. Un ricordo oltre i mari, oltre
 le colonne di sole. Le foglie girano e riportano indietro.

tu non immagini di vivere in un castello incantato, e
 di svegliarti dopo trent’anni, credendo di aver dormito
 dieci minuti

forse sono le ragnatele ad aver dormito, o forse abbia-
 mo dormito entrambi. abbandonai
 nei tuoi terrori i miei. l’autunno
 è appena iniziato.

Carlo Bordini

Carlo Bordini

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Una poesia di Carol Ann Duffy

Carol Ann Duffy

      THE LONG QUEEN

The Long Queen couldn’t die.
 Young when she bowed her head
 for the cold weight of the crown, she’d looked
 at the second son of the earl, the foreign prince,
 the heir to the duke, the lord, the baronet, the count,
 then taken Time for a husband. Long live the Queen.

What was she queen of? Women, girls,
 spinsters and hags, matrons, wet nurses,
 witches, widows, wives, mothers of all these.
 Her word of law was in their bones, in the graft
 of their hands, in the wild kicks of their dancing.
 No girl born who wasn’t the Long Queen’s always child.

Unseen, she ruled and reigned; some said
 in a castle, some said in a tower in the dark heart
 of a wood, some said out and about in rags, disguised,
 sorting the bad from the good. She sent her explorers away
 in their creaking ships and was queen of more, of all the dead
 when they lived if they did so female. All hail to the Queen.

What were her laws? Childhood: whether a girl
 awoke from the bad dream of the worst, or another
 swooned into memory, bereaved, bereft, or a third one
 wrote it all down like a charge-sheet, or the fourth never left,
 scouring the markets and shops for her old books and toys –
 no girl growing who wasn’t the apple of the Long Queen’s eye.

Blood: proof, in the Long Queen’s colour,
 royal red, of intent; the pain when a girl
 first bled to be insignificant, no cause for complaint,
 and this is to be monthly, linked to the moon, till middle age
 when the law would change. Tears: salt pearls, bright jewels
 for the Long Queen’s fingers to weigh as she counted their sorrow.

Childbirth: most to lie on the birthing beds,
 push till the room screamed scarlet and children
 bawled and slithered in their arms, sore flowers;
 some to be godmother, aunt, teacher, teller of tall tales,
 but all who were there to swear that the pain was worth it.
 No mother bore daughter not named to honour the Queen.

And her pleasures were stories, true or false,
 that came in the evening, drifting up on the air
 to the high window she watched from, confession
 or gossip, scandal or anecdote, secrets, her ear tuned
 to the light music of girls, the drums of women, the faint strings
 of the old. Long Queen. All her possessions for a moment of time.

      LA REGINA LUNGA

La Regina Lunga non poteva morire.
 Giovane quando chinò il capo
 al freddo peso della corona, aveva guardato
 il figlio cadetto del conte, il principe forestiero,
 l’erede al ducato, il lord, il baronetto, il visconte,
 e poi preso per marito il Tempo. Lunga vita alla Regina.

Di che cosa era regina? Donne, ragazze,
 zitelle, streghe e befane, balie, vedove,
 mogli, matrone, madri di tutte costoro.
 La parola della sua legge l’avevano nelle ossa, nell’innesto
 della mano, nel piede scatenato nel ballo.
 Non c’era bimba al mondo che non fosse figlia della Regina Lunga.

Non vista, lei governava e regnava; alcuni dicevano
 in un castello, alcuni dicevano in una torre nel cuore di tenebra
 di un bosco, alcuni dicevano in giro cenciosa, travestita,
 a separare i buoni dai cattivi. Spediva lontano i suoi esploratori
 nel cigolio delle navi ed era regina di altre ancora, di chi,
 ora non più, in vita era stata femmina. Viva la Regina.

Quali erano le sue leggi? Infanzia: se una ragazza
 si destava dal peggiore dei sogni, o un’altra
 illanguidiva nei ricordi, affranta, desolata, o una terza
 annotava tutto in un atto d’accusa, o la quarta mai s’allontanava,
 e perlustrava mercati e negozi alla ricerca dei suoi vecchi libri e giocattoli –
 non c’era ragazza che crescesse che non fosse beniamina della Regina Lunga.

Sangue: prova, nel colore della Regina Lunga,
 il rosso reale, di intenti; il dolore quando una ragazza
 la prima volta mestruerà sarà insignificante, da non lamentarsi,
 e una volta al mese, legato alla luna, fino alla mezza età,
 quando la legge cambierà. Lacrime: perle di sale, gioielli lucenti
 che le dita della Regina Lunga peseranno nel contarne la pena.

Parto: le più giaceranno sul letto di travaglio,
 spingeranno con urla che faranno scarlatta la stanza e i bambini
 gli guizzeranno strillanti fra le braccia, fiori ammaccati;
 alcune saranno madrine, zie, maestre, affabulatrici,
 ma chi l’avrà provato giurerà che il dolore valeva la pena.
 Nessuna madre ha partorito figlia che non onorasse nel nome la Regina.

E i suoi piaceri erano le storie, vere o false,
 che giungevano la sera, e per l’aria salivano su
 all’alta finestra da cui lei guardava, confessione
 o pettegolezzo, scandalo o aneddoto, segreti, l’orecchio teso
 alla musica lieve delle ragazze, i tamburi delle donne, le flebili corde
 delle vecchie. Regina Lunga. Tutto le sue ricchezze in cambio di un attimo di tempo.

Una poesia di Carol Ann Duffy, ‘The Long Queen’ tratta da La donna sulla luna, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere, 2011

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Paul Celan, “Di soglia in soglia”

NOTA DI PIETRO ROMANO

Il senso della soglia come condizione liminare che soddisfa il ricongiungimento con un’idea di origine trova nella poesia di Paul Celan il massimo della sua rappresentazione. In particolare, la raccolta di 47 poesie del 1955, Von Schwelle zu Schwelle, in Italia riproposta nella traduzione einaudiana dal titolo Di soglia in soglia a cura di Giuseppe Bevilacqua, sottolinea il bisogno di riallacciarsi alla «soglia non rimossa», al di là della quale tutto ciò che ha preso congedo dall’esistenza possa vedersi riunito.

Tuttavia, per capire la pregnanza di cui l’immagine della soglia appare intrisa, occorre rifarsi alla vita del poeta il quale, perduti i familiari nei lager nazisti, si trova a dovere cercare nella parola un luogo che faccia propriamente «casa» e colmi così lo sradicamento che lo accompagna.

Infatti, come nota Bevilacqua, se si tiene conto delle origini ebraiche del poeta, appare doveroso segnalare la cifra simbolica che, nella tradizione giudaica, assume la soglia in quanto luogo iniziatico dei valori familiari. L’uso sineddotico di tale immagine, nella quale peraltro paiono condensarsi due componenti fra loro strettamente correlate, ovvero il ricordo e la lingua materna, non toglie però valore alla soglia in quanto spazio pregno di evento, oltre il quale si staglia la dimensione del possibile: al contrario, i due significati si trovano compenetrati all’interno di una visione che, a cominciare dalla dedica nuziale all’amata Gisèle de Lestrange, intende il travalicamento come una vera e propria esperienza di apertura cosmologica. Le scelte cromatiche che tinteggiano le atmosfere del primo ciclo di Von Schwelle zu Schwelle suggeriscono l’ingresso dell’io all’interno di un percorso iniziatico chiamato a prospettargli la visione di due soglie e il legame che le sottende al fine di rivelare una realtà inafferrabile e comunque in continua metamorfosi. Al lucore del bianco e ai rossori serali si contrappone sempre lo spazio della notte, che è luogo dell’ombra e dei sommersi e come tale dimensione percepita temporalmente eterna.

È l’incrocio fra due mondi in costante comunicazione a fare della parola poetica l’unico canale percorribile tra la vita e la morte: Celan se ne serve per assistere alla propria immersione nel «mondo pietrificato dei sommersi» e a un tempo consacrare l’esperienza del passaggio, la vita nuova:

Sentii dire che nell’acqua
vi era una pietra ed un cerchio
e sopra l’acqua una parola
che dispone il cerchio attorno alla pietra.

Vidi il mio pioppo calare nell’acqua,
ne vidi il braccio tastar giù nel profondo,
e, protese al cielo, le radici ad implorar notte.

Io non gli tenni dietro,
soltanto colsi da terra quella briciola,
che ha del tuo occhio la nobile forma,
dal collo ti tolsi la collana dei motti
e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola.

Ed il pioppo sparì alla mia vista

Ogni immagine in questo componimento assurge a simbolizzazione del possibile: l’acqua, in quanto colma di significato liminare e situata a metà tra la vita e la morte; la pietra, come ombra di un passato non ancora dissolto, e il cerchio che la parola dispone intorno a essa; il pioppo, le cui radici capovolte in direzione del cielo implorano notte. Sono tutte figure attinenti a un’idea di origine, cui l’io accede sprofondando entro di sé e riconoscendone la sacralità che le abita.

L’inabissamento acquista i connotati di una vera e propria tentazione cui il poeta alla fine decide di non cedere abbracciando il preludio a una soglia nuova, che si invera nella vita: «io non gli tenni dietro, / soltanto colsi da terra quella briciola, / che ha del tuo occhio la nobile forma, / dal collo ti tolsi la collana dei motti /e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola». Peraltro, l’immagine del pioppo come figura simbolo di un sé scisso ancorato al passato ricorre anche in componimenti presenti nelle sezioni successive, come in Campi: Continua a leggere

Gabriele Gabbia, “L’arresto”

Gabriele Gabbia

LA PAROLA DIFFRATTA DI GABRIELE GABBIA
di Alessandro Bellasio

Libro scarno e ripido, L’arresto di Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) possiede il magnetismo proprio dei libri a lungo meditati e nei quali la parola ha stretto un patto di sangue con il pensiero, con una visione del mondo innegoziabile, univoca. Poche poesie, anch’esse scarne e ripide, a tratti quasi sbreccate o amputate, dove l’autore – alla seconda raccolta dopo La terra franata dei nomi – fa i conti con una condizione perfettamente espressa fin dalla copertina: uno spioncino attraverso il quale si scorgono delle sbarre. È da lì che si incontra il mondo – o meglio che non lo si incontra, ma lo si guarda nel tentativo di rievocarne il ricordo. L’arresto è, in prima istanza, il posto di blocco o lo sbarramento che media l’esperienza dell’essere, dell’esistere. Ed è quindi anche cella di detenzione, la prigionia di chi osserva le cose da una condizione di allontanamento originario, di esclusione dal dominio della presenza: l’arresto è questo essere sottratti da vivi ai vivi, fino alla vertigine di non essere più nessuno, o tutti.

Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.

L’assenza è la cifra di chi è sottratto, la cifra dell’arrestato: egli viene meno, non c’è più. Ed è allora che le cose cominciano a giungergli da molto lontano, screpolate, diffratte. L’esperienza in Gabbia è vissuta e restituita già sempre come ricordo, prima ancora che accada, ferma «da sempre verso questi occhi in cui | tutto è stato». Nel dominio dell’assenza è la sostanza stessa a farsi vacua, volatile – e la vita è «il divenire incarnato di un calco». La tensione si raccoglie e si rivolge così verso l’interno, dove tuttavia non trova più l’appoggio di alcuna interiorità, ma solo la stessa voragine ontologica che aveva precedentemente rinvenuto nell’esterno. L’occhio allora arretra, si blocca, non ha che sé stesso sospeso a mezz’aria, nel vuoto, e la parola è questo grafema oculare arrestatosi un attimo sul nulla, prima di svanire. Continua a leggere

Brian Patten e la “poetry scene”

Brian Patten

di Bernardino Nera

Non ho mai conosciuto mio padre. Mia madre l’aveva sposato ma si erano separatati prima che io potessi ricordare. Sono cresciuto in una piccolissima casa con una nonna mutilata: lei e mio nonno non si parlavano mai. Era uno spazio molto angusto, deprimente, da claustrofobia. E c’era una zia sempre seduta su una sedia: ci viveva su quella sedia in cucina e mia madre che si chiamava Stella. Ero del tutto convinto che se avessi aperto bocca o detto qualcosa, avrei smosso le acque. E non volevo proprio farlo.” (Cit. Phil Bowen, A Gallery to Play to; Stride, 1999; pag. 42).

 

Subito dopo la nascita di Brian Patten il 7 febbraio 1946, a Liverpool, sua madre Stella, di 18 anni, si separò dall’uomo con cui lo aveva concepito, e il piccolo, trascorso un breve periodo in un istituto, andò a vivere con lei dai nonni, in un’angusta casa a schiera al numero 100 di Wavertree Vale, una zona popolare della città abitata in prevalenza dalla classe operaia.

 

Da giovane la nonna era stata ballerina di varietà, durante la Seconda guerra mondiale era rimasta gravemente ferita alle gambe in un bombardamento aereo tedesco, e in seguito i suoi arti mutilati furono incassati dentro tutori ortopedici per consentirle di muoversi sostenuta da stampelle. La paralisi fisica della nonna diventerà il simbolo della dimensione interiore del poeta, sia esistenziale sia spirituale, di allora, fortemente condizionata da fattori ambientali e socio-culturali di povertà e privazione.
Nel 1975 Patten commentava in un articolo del “Liverpool Daily Post”: “Da bambino i miei campi da gioco erano i terrapieni e gli argini lungo la ferrovia; i vicoletti nascosti, le zone della città devastate dai bombardamenti e le case diroccate”.
Brian aveva un temperamento irruento e una personalità problematica: “C’era una componente violenta nella mia natura con cui ho dovuto combattere a lungo, ma ora è scomparsa”, confessa. Il poeta ricorda le zuffe con altre bande rivali di ragazzi per le strade del suo quartiere: “Prendevamo le catene delle cisterne dai bagni all’aperto e andavamo a cercare altre bande. Era una zona violenta. Ecco come bisognava essere per sopravvivere”.

Il suo profilo scolastico non poteva che essere quello di un bambino chiuso, schivo, asociale, disadattato, relegato all’ultimo banco della classe, sempre bisognoso di interventi didattici di sostegno e di recupero.

Il suo accidentato percorso di studi nella scuola superiore non cambiò affatto quando passò alla Sefton Park Secondary Modern School, la stessa frequentata da John Lennon, da dove un giorno scappò via. La sua insofferenza e l’avversione per la scuola e il sapere di stampo conformista, insulso, banale, non autentico, che a suo dire riceveva, pervadono in particolare le poesie giovanili “Little Johnny’s Change of Personality” e “Schoolboy”, incluse nella raccolta Little Johnny’s Confession, oppure “The Minister for Exams”, parte del volume Armada, del 1996.

Durante l’ultimo anno di scuola, nel 1960, si verificò un’inaspettata inversione di tendenza: il preside lesse per caso un tema scritto dallo studente quattordicenne, dal quale trasparivano un talento e un’immaginazione che andavano incoraggiati.

Lo stimolo ricevuto a scrivere poesia, si rivelò decisivo per il ragazzo quattordicenne: “Scrivere poesie diventò un’ossessione durante il mio ultimo anno di scuola…quando mi sentivo infelice scrivevo sui miei sentimenti, mi aiutava a capirli meglio…ovvio che non ero sempre insoddisfatto ma vedendo molta infelicità attorno a me, cominciai a scriverci su.” (Cit. Linda Cookson, Brian Patten; Northcote, 1997; pag. 4)

Scrivere poesie ebbe sul poeta una funzione liberatoria, di sblocco psicologico, e rappresentò un momento di svolta e di riscatto personale sia nella sua crescita intellettuale sia sul piano comportamentale: “Prima ero un ragazzo molto isolato e veramente ho cominciato a scrivere poesia per dar voce chiara al caos che sentivo dentro a quindici anni. La gente con cui ero cresciuto aveva difficoltà a spiegarsi e l’unico modo che sentivo per poter provare ad esprimere qualsiasi cosa dentro di me, era scrivere poesia.” (Cit. Phil Bowen, op. cit.; pag. 43) Continua a leggere

Louise Glück, la voce della poesia

Louise Glück

    

  TIMOR MORTIS


 Why are you afraid?

 A man in a top hat passed under the bedroom window.
 I couldn’t have been
 more than four at the time.

 It was a dream: I saw him
 when I was high up, where I should have been
 safe from him.

 Do you remember your childhood?

 When the dream ended
 terror remained. I lay in my bed—
 my crib maybe.

 I dreamed I was kidnapped. That means
 I knew what love was,
 how it places the soul in jeopardy.
 I knew. I substituted my body.

 But you were hostage?

 I was afraid of love, of being taken away.
 Everyone afraid of love is afraid of death.

 I pretended indifference
 even in the presence of love, in the presence of hunger.
 And the more deeply I felt
 the less able I was to respond.

 Do you remember your childhood?

 I understood that the magnitude of these gifts
 was balanced by the scope of my rejection.

 Do you remember your childhood?

 I lay in the forest.
 Still, more still than any living creature.
 Watching the sun rise.

 And I remember once my mother turning away from me
 in great anger. Or perhaps it was grief.
 Because for all she had given me,
 for all her love, I failed to show gratitude.
 And I made no sign of understanding.

 For which I was never forgiven.

 Louise Glück


 TIMOR MORTIS


 Perché sei spaventata?

 Un uomo dall'alto cappello passò sotto la finestra della camera da 
                                                                                                            letto.

 Non dovevo avere
 più di quattro anni allora.

 Era un sogno: lo vidi
 quando ero in alto, dove avrei dovuto essere
 al sicuro da lui.
 
 Ti ricordi la tua infanzia?

 Quando il sogno finì
 il terrore rimase. Giacevo nel mio letto -
 nella mia culla forse.

 Sognai che ero stata rapita. Questo significa
 che sapevo cosa fosse l'amore,
 come metta a rischio l'anima.
 Lo sapevo. Sostituii il mio corpo.

 Ma eri un ostaggio?

 Avevo paura dell'amore, di essere portata via.
 Chiunque ha paura dell'amore ha paura della morte.

 Facevo finta di essere indifferente
 anche in presenza dell'amore, in presenza della fame.
 E più profondamente sentivo
 meno ero in grado di reagire.

 Ti ricordi la tua infanzia?

 Capii che ha la grandezza di questi doni
 era bilanciata dal mio rifiuto.

 Ti ricordi della tua infanzia?

 Giacevo nella foresta.
 Immobile, più immobile di ogni creatura vivente.
 Guardando il sole spuntare.

 E ricordo una volta in cui mia madre distolse il viso da me
 con grande rabbia. O forse era pena.
 Perché per tutto quello che mi aveva dato,
 per tutto il suo malore, non ero riuscita a mostrare gratitudine.
 E non detti alcun segno di comprensione.

 Per questo non fui mai perdonata.

Da Nuovi poeti americani, a cura di Elisa Biagini, Einaudi, 2020

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Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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La luce incerta di Sandro Penna

Sandro Penna, fotografato a Roma nella sua casa in Via della Mola de’ fiorentini, sul lungotevere

 La vita… è ricordarsi di un risveglio
 triste in un treno all’alba: aver veduto
 fuori la luce incerta: aver sentito
 nel corpo rotto la malinconia
 vergine e aspra dell’aria pungente.

 Ma ricordarsi la liberazione
 improvvisa è più dolce: a me vicino
 un marinaio giovane: l’azzurro
 e il bianco della sua divisa e fuori
 un mare tutto fresco di colore.

 ***

 Mi nasconda la notte e il dolce vento.
 Da casa mia cacciato e a te venuto
 mio romantico amico fiume lento.

 Guardo il cielo e le nuvole e le luci
 degli uomini laggiù così lontani
 sempre da me. Ed io non so chi voglio
 amare ormai se non il mio dolore.

 La luna si nasconde e poi riappare
 — lenta vicenda inutilmente mossa
 sovra il mio capo stanco di guardare.

 ***

 Felice chi è diverso
 essendo egli diverso.
 Ma guai a chi è diverso
 essendo egli comune.

 ***

 Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
 Ma più belli di te ragazzi ancora
 dormiranno nel sole in riva al mare.
 Ma non saremo che noi stessi ancora.

 ***

 Talvolta, camminando per la via
 non t’è venuto accanto a una finestra
 illuminata dire un nome, o notte?
 Rispondeva soltanto il tuo giudizio.
 Ma le stelle brillavano ugualmente.
 E il mio cuore batteva per me solo.

 ***

 Io vivere vorrei addormentato
 entro il dolce rumore della vita.

 da: Sandro Penna, Poesie, Milano Garzanti, 2000

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Gli occhi di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

 Ho spesso immaginato che gli sguardi
 sopravvivano all’atto del vedere
 come fossero aste,
 tragitti misurati, lance
 in una battaglia.
 Allora penso che dentro una stanza
 appena abbandonata
 simili tratti debbano restare
 qualche tempo sospesi ed incrociati
 nell’equilibrio del loro disegno
 intatti e sovrapposti come i legni
 dello shangai.

 

 

E la crepa nella tazza apre
 un sentiero alla terra dei morti”
 (W.H.Auden)

...come quando una crepa
  attraversa una tazza
 (R.M.Rilke)

 

 Ricevo da te una tazza
 rossa per bere ai miei giorni
 uno ad uno
 nelle mattine pallide, le perle
 della lunga collana della sete.
 E se cadrà rompendosi, distrutto,
 io, dalla compasione,
 penserò a ripararla,
 per proseguire i baci ininterrotti.
 E ogni volta che il manico
 o l’orlo s’incrineranno
 tornerò a incollarli
 finché il mio amore
 non avrà compiuto
 l’oper dura e lenta del mosaico.

 ***

 Scende lungo il declivio
 candido della tazza
 lungo l’interno concavo
 e luccicante, simile alla folgore,
 la crepa,
 nera, fissa,
 segno di un temporale
 che continua a tuonare
 sopra il passaggio sonoro,
 di smalto.

 Da: Valerio Magrelli, Nature e venature, Mondadori, 1987

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Derek Walcott (1930 – 2017)

Derek Walcott

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.
*
Vivo sull’acqua,
solo. Senza moglie né figli.
Ho circumnavigato ogni possibilità
per arrivare a questo:

una piccola casa su acqua grigia,
con le finestre sempre spalancate
al mare stantio. Certe cose non le scegliamo noi,

ma siamo quello che abbiamo fatto.
Soffriamo, gli anni passano, lasciamo
tante cose per via, fuorché il bisogno

di fardelli. L’amore è una pietra
che si è posata sul fondo del mare
sotto acqua grigia. Ora, non chiedo nulla

alla poesia, se non vero sentire:
non pietà, non fama, non sollievo. Tacita sposa,
noi possiamo sederci a guardare acqua grigia,

e in una vita che trabocca
di mediocrità e rifiuti
vivere come rocce.

Scorderò di sentire,
scorderò il mio dono. E’ più grande e duro,
questo, di ciò che là passa per vita.

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L’Odissea di Kazantzakis tradotta da Crocetti

Nikos Kazantzakis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Nel 1956 il Premio Nobel per la Letteratura è assegnato ad Albert Camus, che diviene il più giovane detentore dell’ambita onorificenza. Lo scrittore francese di origine algerina, con eleganza d’antan, invia un telegramma al più anziano collega : «Voi l’avreste meritato cento volte di più». Di fatti — si saprà in seguito — in quella tornata l’autore neogreco arrivò secondo, fortemente penalizzato per altro dal suo stesso paese che «si mobilita, non già per sostenerlo, bensì perché non gli venga assolutamente assegnato il prestigioso riconoscimento». È quanto scrive Nicola Crocetti nell’informatissima introduzione all’Odissea di Kazantzakis, opus magnum del poeta cretese, diviso in 24 canti — come le lettere dell’alfabeto greco — e composto dal «numero sacro» di 33.333 versi (5.527 in più dei poemi omerici messi insieme!) in decaeptasillabi, una sorta di metro barbaro che tenta di ricreare il ritmo degli esametri classici.

L’Odissea costa al suo versatile artefice 13 anni e mezzo di lavoro (dal 1925 al 1938), 7 stesure autografe, 240.000 versi redatti a mano, con un esercizio di scrittura che arriva anche a 200 decaeptasillabi quotidiani e con la presenza di 7.500 athisàvrista, ossia parole introvabili sui vocabolari, trascritte personalmente sul taccuino e recepite nelle isole Cicladi, espressione della cosiddetta dimotikì, la lingua popolare.


Ma il multiforme ingegno di Kazantzakis non era nuovo a imprese di questo genere: fu traduttore infaticabile dell’Iliade, della Divina Commedia, di Shakespeare, del Faust di Goethe e anche di Bergson, Darwin e Nietzsche, autore di drammi, opere di poesie, romanzi (si pensi a Zorba il greco, Il poverello di Dio e L’ultima tentazione, portata al cinema da Scorsese nel 1988). La sua «sconfinata fantasia» e la «prodigiosa capacità lavorativa» divengono presto leggendarie. Siamo, infatti, dinanzi alla vastità di un’intelligenza come poche nell’intero Novecento, uno scrittore profondamente incompreso a causa dei suoi rimpasti filosofici e ideologici (un eclettismo à la Posidonio), di quell’ibridismo sincretico che è alla base della sua stessa concezione religiosa.

La parola d’ordine dei libri di Kazantzakis è forse contaminatio, ossia quella tecnica di fusione di registri stilistici e visioni spirituali che ha come risultante un condensato caleidoscopico: non stupisce allora che il sequel dell’Odissea omerica, fluvialmente composta dal poeta di Iraklio classe 1883, funzioni come una «sintesi di tremila anni di storia del pensiero» e appaiano nel corso del poema Gesù (il Pescatore Gentile), Don Chisciotte (Capitan Uno), Buddha e addirittura Trotsky, Lenin e Stalin sotto mentite spoglie.

Ma qual è il significato profondo del testo? «Tutta l’opera di Kazantzakis — scrive Crocetti che ha lavorato indefessamente alla traduzione per quasi un decennio, producendo per altro una versione armoniosa e naturale, premiata recentemente dai lettori del Corriere della Sera —, e l’Odissea in particolare, è animata dalla lotta del bene contro il male. Secondo l’autore cretese, il compito di un poeta e di uno scrittore non dev’essere la ricerca del bello, ma la verità; non la creazione di un’utopia, ma la trasformazione dell’utopia in realtà». Dietro alle ottime aspirazioni si cela però un «pessimismo eroico» e il tentativo ulissiaco di fondare una Città ideale fallisce con l’esaurimento delle forze tensive.

L’Odissea, monstrum letterario che richiama a sé in un unico calderone lo scibile, racconta l’evoluzione stessa dell’umanità, il desiderio di grandezza, la sete inesausta di avventure e lo scontro con il trascendente (come Giacobbe e l’angelo di Dio), lo smisurato anelito dell’uomo non soltanto verso la conoscenza — aspetto che Kazantzakis ha mutuato dall’Ulisse dantesco —, ma soprattutto verso un principio di pienezza e di pace, già ravvisabile nelle prime battute dell’epos (Proemio, vv. 1-3): «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,/ che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,/ perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi». Le trappole logiche e i paradossi insiti nella poesia di Kazantzakis, persino nell’impurità linguistica, sintattica e ortografica, coincidono con le misticheggianti antinomie del suo pensiero, con il suo immaginare Dio ostaggio d’amore dell’uomo.

Magnifico è l’episodio in cui la Morte si addormenta e sogna la vita (canto VI, vv. 1265-1292): «Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,/ che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,/ che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra/ passeggino donne nobili e cantino le schiave».

 

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Alessandro Ceni, “Ho visto delle cose”

Alessandro Ceni

 Io ho visto soltanto cose
 che impietriscono e commuovono
 come un perenne addio ai compagni.
 La sofferenza obiettiva dell’animale;
 le file dei bambini di altra nazionalità
 su un traghetto straniero andare via;
 i verdi pianori dove appaiono le città incendiate
 delle popolazioni ignote,
 le fedeli agli dèi e fiduciose dell’uomo,
 estinte come la piuma e il pelo;
 le innumerevoli forze occulte, gelose dei loro possessi,
 le terre gli alberi i fiumi
 che si debbono continuamente propiziare con sacrifici
 disperdere gli illusi dalla speranza di restar sempre uniti,
 perché la patria è soltanto
 un campo di tende in un deserto di sassi;
 le parole immorali della società civile
 baluginare anche negli occhi dell’amata
 un attimo prima dell’amore e
 la massa occulta e ostile dei suoi pensieri
 scivolarci nel mezzo, gravarmi addosso
 come uno sconosciuto che si chinasse all’orecchio
 e mi narrasse alcunché d’incomprensibile,
 per poi dormire e amare me;
 la sempre presente stanza accanto
 dove sotto lampadine purpuree qualcuno
 si pratica l’iniezione che guarisce e
 all’aprirsi della porta
 comparire l’airone.
 Ho visto delle cose, come tutti.

 da Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, Milano 2002 Continua a leggere

Alice Oswald, “Memorial”

Alice Oswald

MEMORIAL

Primo a morire fu PROTESILAO
 Uomo risoluto che presto s'avventò nel buio
 Con lui su quaranta navi nere salparono in molti
 Lasciandosi alle spalle quelle scogliere infiorate
 Dove un letto d'erba ricopre ogni cosa
 Piraso Itone Pteleo Antrone
 Morì nel balzo di chi cerca per prima l'approdo
 Lasciò la casa costruita a metà
 La moglie corse fuori artigliandosi il viso
 Podarce l'assai meno valente fratello
 Prese il comando ma era tanto tempo fa
 Giace nella terra negra già da migliaia di anni

Come per stormire di vento
 Iniziano a rumoreggiare le onde
 Una lunga nota via via più forte
 L'acqua esala un sospiro profondo
 Come sobbalzo di terra
 Quando zefiro un campo traversa
 Voluttuoso e curioso
 senza nulla trovare
 Verdi scuoton le teste gli stocchi di mais

Come per stormire di vento
 Iniziano a rumoreggiare le onde
 Una lunga nota via via più forte
 L'acqua esala un sospiro profondo
 Come sobbalzo di terra
 Quando zefiro un campo traversa
 Voluttuoso e curioso
 Senza nulla trovare
 Verdi scuoton le teste gli stocchi di mais




MEMORIAL

The first to die was PROTESILAUS
 A focused man who hurried to darkness
 With forty black ships leaving the land behind
 Men sailed with him from those flower-lit cliffs
 Where the grass gives growth to everything
 Pyrasus  Iton  Pteleus  Antron
 He died in mid-air jumping to be first ashore
 There was his house half-built
 His wife rushed out clawing her face
 Podarcus his altogether less impressive brother
 Took over command but that was long ago
 He’s been in the black earth now for thousands of years

Like a wind-murmur
 Begins a rumour of waves
 One long note getting louder
 The water breathes a deep sigh
 Like a land-ripple
 When the west wind runs through a field
 Wishing and searching
 Nothing to be found
 The corn-stalks shake their green heads

Like a wind-murmur
 Begins a rumour of waves
 One long note getting louder
 The water breathes a deep sigh
 Like a land-ripple
 When the west wind runs through a field
 Wishing and searching
 Nothing to be found
 The corn-stalks shake their green heads

From Memorial by Alice Oswald, London, Faber & Faber, 2011

Memorial è parola antica che, come molte, è penetrata nella cultura anglosassone arricchendola. E’ il gesto del ricordare, ma anche del far propria una persona, una storia, una tradizione. Con Memorial, suo conclamato capolavoro di poesia, Alice Oswald si piega su Omero, si appropria di Odisseo e dei guerrieri omerici, la cui “verità” è tale da proiettarsi come voce nella nostra realtà. Attraverso Omero, nei versi della poetessa affiorano anche le vite dei non-eroi e degli dèi cantati nel Libro della grecità. Continua a leggere

Victor Hugo, “I Cavalieri erranti”

 

Victor Hugo

I CAVALIERI ERRANTI. I POEMI CAVALLERESCHI DI VICTOR HUGO

Quello che si propone è un Victor Hugo inedito: è l’Hugo dei miti, delle leggende, l’Hugo medievale, soprattutto è l’Hugo che si concede al poema cavalleresco. Ne La légende des siecles (silloge scritta a intermittenza tra il 1855 e il 1876), quello che si può considerare probabilmente il più grande scrittore francese dà luogo a un particolare ciclo. Les Chevaliers errants, composto da due poemi cavallereschi: Le petit roi de Galice ed Eviradnus. Ecco che i suoi eroi, Roland ed Eviradnus, si caricano di forza mistica, scontrandosi coi rappresentanti del male, facendo fede nelle loro innumerevoli esperienze, copiose battaglie, soprattutto in un’ispirazione divina, che li rende invincibili, donando loro l’astuzia d’Ulisse, il vigore necessario per combattere interi eserciti in completa solitudine. La forza dell’eroe è per Hugo quella di Dio, l’eroe è intermediario di Dio e non ha bisogno di vivere con gli uomini, perché egli è e rimane, anche nella vecchiaia, come nel caso di Eviradnus, un semidio, destinato sempre a vincere per ottenere Giustizia – d’altra parte l’Autore l’afferma anche nel suo Booz endormi: Le jeune homme est beau, mais le vieillard est grand. L’eroe impersona così il Poeta e così quello che lui definisce l’homme des utopies, capace di reinterpretare la realtà, scavando all’interno dei suoi meandri, riuscendo, da solo, a trovare la soluzione giusta, quella soluzione che, anche vista da un punto di vista cristologico, s’eleva a simbolo di Salvezza eterna per l’Umanità, continuamente circondata dal Male e da questo contaminata.

dall’introduzione di Stefano Duranti Poccetti

Victor Hugo, Les Chevaliers errants/ I Cavalieri erranti, traduzione di Stefano Duranti Poccetti, Nulla Die, 2021. Continua a leggere

Milo De Angelis, “Questo mio sempre”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Avevamo pubblicato in Anteprima Editoriale, il 10 giugno 2020 all’interno del progetto Catena Umana/ Human Chain la poesia inedita di Milo De Angelis, Nemini, che apre la sua nuova raccolta di versi, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021) uscita oggi, 26 gennaio in tutte le librerie italiane.

Ci sembra giusto proporre adesso la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, un canto a una sola voce, una monodia, sul senso della vita e sulla decisione di abbandonarla.
(Luigia Sorrentino)

 

IL PENULTIMO DISCORSO DI DANIELE ZANIN







Le antenne si muovono nel vento
 il corpo ondeggia ma è deciso a pronunciare
 ad alta voce le sue accuse. E tutto il quartiere,
 con il fiato sospeso, scruta quel ragazzo alto e magro
 in piedi sul tetto, con il golf bianco e le dita
 coperte di farina. Ognuno attende la sentenza.
 Ognuno affonda nel mistero
 di se stesso e guarda in alto, non sa
 dove si trova esattamente
 ma sa che quelle parole sono per lui
 e lui, mentre ascolta, le sta pronunciando.

“Mi chiamo Daniele e ho pensato seriamente alla vita.
 La vita ed io siamo state due creature
 che si accusavano a vicenda, finché un’energia furiosa
 ci ha spinti l’una contro l’altro e ho cominciato
 a vedere l’altra faccia di ogni foglio, ho cominciato
 a nuotare nei laghi del tramonto e ora sono qui
 con gli occhi forati e le lacrime di piombo
 e vi ho chiamati ogni mattina, vi ho chiamati
 uno per uno per nome e per cognome
 finché non vi ho più visti e cominciò
 questo mio sempre
 di ore deserte e istanti morti.”

“State attenti, tutti voi, perché non parlerò due volte.
 Sono nato alla fine di una festa, al Gallaratese,
 quando la bocciofila restò senza luce e tutti
 se ne andarono.
 Gridai che era tardi, ed era tardi.
 La musica delle sfere precipitò in una zattera,
 il mio pianto ammutolì e allagò tutta la vita,
 mi divisi per sempre da me stesso, persi la mano
 della fata e a tutti voi scagliai in faccia
 il mio sacchetto di canditi.”

“Nella vasca dove entrai un pomeriggio
 vidi la fine separata dal suo inizio, vidi
 le prime crepe del sorriso e divenni un istante ossidato,
 una mezza notizia che nessuno raccoglie, vidi
 la follia disegnata sulle mie unghie, vidi
 per la prima volta i miei amati cavalli
 fermi in una giostra di pietra,

mi aggiravo tra spigoli di buio, avevo un piede
 immerso nella calce, studiavo i libri
 degli antichi e dei moderni, riempivo la cucina
 di appunti e foglietti. Poi l’artiglio di un gattino grigio
 lacerò tutto il pensiero di Hegel.”

“Cominciai a vedere nelle lampadine spente
 il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia
 a succhiare veleno, mi immersi
 nell’acqua passata
 e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione
 nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla
 dei pazzi in una culla di catrame
 finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi
 che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino
 dormiva la morte.”


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La Valduga non è mai stata Penelope

Patrizia Valduga

I mille volti e filtri velenosi di Patrizia Valduga

di Monica Acito

 

Può la poesia essere fonte di piacere fisico?

Possono i versi far sussultare la carne, come farebbe il tocco di una mano?

Patrizia Valduga, nel suo corpus poetico, ci ha dimostrato che la poesia può essere madre, matrigna e amante. E, allo stesso tempo, unguento curativo e filtro velenoso.

Valduga si è servita dei suoi versi per attutire il tonfo della vita: le sue parole hanno assorbito qualsiasi forma di dolore, e hanno convertito tutto in delizia e guarigione.

Nata nel 1953 a Castelfranco Veneto, Patrizia Valduga è una personalità carismatica e poliedrica: si serve della poesia con la stessa voce incantatrice che usarono le sirene che tentarono di sedurre Odisseo, e la sua poesia le è fedele come un’ancella.

Spavalda, dolce, mansueta, animalesca e docile: Valduga riesce a indossare tutti i volti possibili, incarnati e cuciti in mille maschere d’inchiostro; con le parole, riesce a fare e disfare la tela, come una novella Penelope.

Ma, a differenza di Penelope, lei non aspetta niente e nessuno: Valduga si prende tutto, e lo fa con la potenza creatrice della sua parola.

Compagna del poeta e critico letterario milanese Giovanni Raboni (a cui rimase accanto dal 1981 al 2004, anno della morte di lui), Valduga ha studiato per tre anni Medicina per poi approdare alla facoltà di Lettere di Venezia; ha fondato e diretto la rivista “Poesia” e attualmente collabora alle pagine culturali di “Repubblica”.

La sua parola è rapsodica e affabulatrice, e riesce a restituire alle papille gustative tutti i sapori della poesia, dai primordi alla contemporaneità.

Il suo libro d’esordio, “Medicamenta” (1982), è un caleidoscopio di forme poetiche disparate; madrigali, ottave, terzine, sonetti, quartine, in un tentativo di succhiare tutto il midollo della tradizione poetica e farlo proprio, in maniera del tutto originale e con un linguaggio ibrido e nuovo.

Il linguaggio di Valduga in “Medicamenta” è pregiato come un arazzo finemente ricamato, ma sa anche essere colloquiale, volgare e quotidiano, in una ricerca spasmodica di “filtri e veleni d’amore”, come il titolo della raccolta suggerisce.

Io per la voglia scoppio e mi sconsolo.
Oh se potessi scagliarmi al suo collo,
e non destarlo… o strascinarmi al suolo
e con lascivo assalto, anche il midollo
succhiargli… o con audaci mani a volo
provarne gli inguini… Avida controllo
che fa di lui la sua notte testarda,
la mia che come astuta, tarda e tarda.
(
Patrizia Valduga, “Medicamenta” (1982, Guanda)

Ingorda, vorace e spudorata; la voce di Valduga, in quanto auctor, vuole tutto: i “medicamenta” di cui parla sono intrugli, pozioni in cui la poesia si mescola con la vita, l’oscenità e la bellezza. Un po’ come i versi di Ovidio, che nei suoi “Medicamina faciei femineae”, delineava un “magister amoris” per le donne romane, fatto di consigli di bellezza. Ciprie, unguenti e filtri di bellezza: così come il poeta di Sulmona insegnava alle fanciulle l’arte del piacere, in contrapposizione ai rigidi dettami del Mos Maiorum, allo stesso modo Valduga ammaestra le sue parole in maniera spericolata e libera.

I suoi “Medicamenta” sono esercizi e gemme di bellezza, un modo per prendersi cura di se stessi attraverso la poesia, che può nascondere fiori dalla bellezza soave, ma anche petali carnosi, che possono sprigionare profumi mortali. E in questo modo, la cura e la medicazione possono trasformarsi nell’esatto opposto.

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“Nei passi di Franco Loi”

Franco Loi


Nota di Luigia Sorrentino

Si conclude oggi, 24 gennaio 2021 la lunga sequenza di contributi inviati da amici e poeti per ricordare Franco Loi, scomparso il 4 gennaio scorso.

Mi piace qui ricordare che Giovanna Sicari nel maggio 2002, poco prima di lasciarci, pubblicò con Unicopli nella collana Le città letterarie,  un piccolo libro dedicato al poeta  dal titolo “Nei passi di Franco Loi”. Una testimonianza d’affetto e di amicizia che sarebbe interessante rileggere.

Nel testo la Sicari racconta la storia di Franco a partire dal 1937. E racconta di un bambino che arriva alla Stazione Centrale di Milano in una nebbiosa giornata d’autunno. Così inizia la storia di una passione per la poesia che accompagnerà tutta la sua vita.  L’amore per una città accogliente e generosa, intransigente e severa, narrata in un dialetto che diventa per Franco lingua della poesia per per essere più vicino agli indigenti, agli ultimi della terra e per sentirsi come loro, fratelli di una lingua.   Continua a leggere

Franco Loi e l’angel

Franco Loi

di Lorenzo Chiuchiù

… el me dumanda
se l’angiul che mi s’eri l’è turnâ…

… mi domanda
se l’angelo che mi credevo è tornato…

Nulla è più lontano da Franco Loi della sentenza evangelica «il cielo è dei violenti» (Mt 11,12) – e nulla più vicino di: se «non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3).

Atterrito dai «mezzi di persuasione e di ipnosi strapotenti» (Da bambino il cielo, a cura di M. Raimondi, p. 256), sgomento per l’uomo a una sola dimensione, il mite Loi, l’eterno bambino, è stato in ascolto delle mille lingue del dialetto. Lingue terragne, piene di meraviglia e di sconcerto, idioletti che Loi ha ampiamente reinventato perché i tratti realistici della sua poetica confinassero con una parabola che esige parole nuove: «A mì che storia e fantasia s’inversa».

L’angel è figura di questa inversione, e la sua vicenda è il continuo sconfinamento tra domini che per Loi erano comunicanti. Come per tutti la fantasia è un contravveleno alla storia ma – e questo fa di Loi un poeta – può essere anche il criterio per giudicarla. L’angelo, l’uomo bambino, è anche un giudice. Vive tra bagliori e accenni di melodie che un altro mondo fa filtrare in questo: l’angelo li percepisce, li vede circonfondere gli oggetti più umili o i volti più noti. Sa che solo ciò che non risponde a ragione indubitabilmente si manifesta: l’archetipo, il mistero, l’inconscio, il Dio di cui parla Loi non sono oscurati da cause o anticipazioni. Senza merito e dunque senza ambizione, il poeta precipita nel canto. «La poesia non è un modo di scrivere, ma un evento a cui devi abbandonarti con tutto te stesso» (ibidem, p. 317). Umberto Fiori rievoca il suo primo incontro con Loi: l’«estasi che lo guidava mi affascinava e mi imbarazzava al tempo stesso». Il suo «entusiasmo non conosceva limiti» (https://www.doppiozero.com/materiali/franco-loi-incontrare-langelo). L’angelo è l’entusiasmo di Loi. E ci narra anche di un contrappasso: la pura esistenza dell’angelo è delittuosa per il mondo della storia che si sente smascherato. La sua nudità ingenera vergogna in chi non la possiede– questo l’effetto della condanna angelica. D’altronde la semplice esistenza dell’angelo è un messaggio irricevibile. Viene internato in manicomio; viene curato per estirpare la visione. Rientra così nella «città dei morti e della follia» autentica. Sorge l’idea del suicidio riparatore che dice: imprigionata e persa l’anima in questo mondo la ritroverò nell’altro. L’angelo sopravvive all’idea suicidaria, la visione diventerà utopia:

Ma s’an sbaliâ el Crist e pö ‘l Lenin,
sè ‘l vör un àngiul che pö l’è ‘n grass de rost?
I bun resun în pan dumâ per chi
cun la resun ghe magna dì e nott,
ma l’òm cum l’òlter òm el se fa tost,
el g’à paüra a dì quèl che l’infescia,
el se fa sü, el cünta ball, el tolla,
e tì cuj tò resun te sé cundî.
Dunca a fà l’àngiul ghe poch de rampegà,
ché l’àngel l’è la sulfa del vèss sul,
de ‘végh paüra che l’òm el te martèla,
paüra enfin che ghe sia mai resun
e mai l’ümanitâ te sia surella,
ché nüm se sèttum denter ‘na presun
e se fèm àngiul per speransa al sû.

[Ma se hanno sbagliato il Cristo e poi Lenin, / cosa può farci un angelo, che poi è meno di niente? / Le buone ragioni sono valide soltanto per quelli / che la ragione la frequentano giorno e notte, / ma l’uomo con l’altro uomo si fa duro, / ha paura di confessare ciò che lo tormenta, / s’imbroglia da solo, racconta menzogne, scappa, /e tu con le tue ragioni sei fatto fesso. / Dunque a far l’angelo c’è poco da raccogliere, / ché l’angelo ha il destino della solitudine, / di aver paura che l’uomo lo aggredisca, /paura infine che non ci sia mai una ragione / e mai l’umanità ci sia sorella, / ché noi ci sediamo dentro una prigione / e se facciamo gli angeli è per avere una speranza].

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Ricordo di Franco Loi

Franco Loi

di Alberto Fraccacreta

Uno dei modi migliori per ricordare un poeta è forse quello di far parlare la sua poesia. E, come per l’intervento di Valerio Magrelli apparso qualche giorno fa su queste stesse pagine, mi piacerebbe commentare un testo di Franco Loi, delineando alcuni punti essenziali della sua esperienza in versi. Già nella poesia messa egregiamente in rilievo da Magrelli abbiamo visto come tra gli elementi peculiari ci fosse l’esodo dall’io, l’uscita da sé («Me piasaríss de mí desmentegâss», «Mi piacerebbe di me dimenticarmi»), che ha la conseguenza di permettere l’esistenza «due che la vita la se pensa vîv» («là dove la vita si pensa vivere»). Se il soggetto si fa da parte, sorge la vita nella sua pienezza e autenticità.

C’è un ulteriore conseguenza a quella che potremmo definire la “povertà dell’io” (comune oggi in molti autori, da Philippe Jaccottet ad Adam Zagajewski). Infatti, l’integrità del vivere, l’essere armonicamente immersi in uno spazio non spersonalizzato ma al contrario fortemente connotato dell’altrui presenza, può anche consentire di cogliere alcuni gesti in maniera “sacra” o addirittura “santa”, capaci di spiccare nel flusso continuo delle cose. Leggiamo una lirica da Lünn (Il Ponte, 1982):

Vòltess

Vòltess, sensa dagh pés, cume se fa
quand ch’i penser ne l’aria slisen via,
vòltess per abitüden lenta, sensa sâ,
cume quj donn che per la strada i gira
la testa per un òmm, in câ, o sü la porta,
vòltess per simpatia d’un rümur luntan,
o d’una runden sü nel ciel stravolta,
vòltess sensa savè, per vuluntâ
d’un quaj penser bislacch, o per busia,
vòltess per returnà, che smentegâ
sun mì che dré di spall te rubaria
quel nient del camenà, quel tò ’ndà via.

Ecco la traduzione:

Vòltati, senza dar peso, come si fa
quando i pensieri nell’aria scivolano via,
voltati per abitudine, lenta, senza senso
come quelle donne che per strada girano
la testa per un uomo, in casa, o sulla porta,
voltati per simpatia d’un rumore lontano,
o d’una rondine su nel cielo stravolta,
voltati senza sapere, per volontà
d’un qualche pensiero bizzarro, o per bugia,
voltati per ritornare, che dimenticato
ci son io dietro le spalle per rubarti
quel niente del camminare, quel tuo andare via.

Il milanese di Loi è ibridato da forestierismi, rimpasti vernacolari e Umgangssprache, tanto da mostrarsi particolarmente sonante. Il costrutto anaforico «vòltess» dà una cadenza precisa ai decasillabi, che assomigliano a endecasillabi sospesi. Continua a leggere

Il poeta della memoria

Nota di Corrado Benigni 

Franco Loi, grande vecchio della poesia italiana contemporanea, «rabdomatico mediatore tra il visibile e l’invisibile», come lo ha definito il critico Giovanni Tesio, è morto il 4 gennaio 2021 nella sua casa milanese. E con lui una generazione di maestri sta finendo di finire.

Nato a Genova, da padre sardo e madre emiliana, ma cresciuto fin dall’infanzia nel capoluogo lombardo, è stato l’ultimo testimone della “vecchia Milano”, raccontata da Testori e Raboni, messa in musica da Jannacci e Gaber: una metropoli di case popolari, punto di aggregazione di gente differente, tuttavia così lontana dal multiculturalismo sfrenato di oggi.

Poeta della vita e della memoria, poeta della realtà e del visivo, Loi è sempre sfuggito alle etichette e dunque al prevedibile. In rapporto quasi antagonistico con l’estinguersi dell’uso dei dialetti, è sempre stato fedele alla sua lingua: il milanese. Con questo idioma ha scritto quasi tutti i suoi libri in versi, da “Stròlegh” del 1975, a “Voci di Osteria” del 2010. L’uso del dialetto per Loi è stato un atto di necessità; il suo milanese è lontano da ogni purismo meneghino della tradizione, è piuttosto una lingua composita, magmatica, capace di fondere passione politica e tensione evangelica. «Il mio atteggiamento verso i dialetti – diceva – è di semplice rispetto di quel che accade quando vengo travolto dalle immagini. La mia attenzione consiste nell’appropriatezza della forma alla materia incandescente e incantatrice dell’inconscio».

L’ho incontrarlo spesso nella sua casa milanese di viale Misurata, sempre generoso con gli autori delle ultime generazioni, che sapeva ascoltare e consigliare, e ai quali chiedeva subito di dargli del tu.

In una di queste occasioni, qualche anno fa, in un gelido sabato di dicembre, poco prima di Natale, è nata l’intervista.

5 gennaio, 2021

INTERVISTA A FRANCO LOI
di Corrado Benigni

Milano, 5 dicembre 2016

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Sei stato definito un “poeta della memoria”. Che rapporto hai con questa dimensione?

«La poesia non è solo nella mente, non è la razionalità, ma nasce dall’inconscio, che sa molto di più della nostra coscienza. La poesia è una delle strade che abbiamo per conoscere noi stessi. È una voce della memoria, che rimanda a un tempo realmente vissuto, ma che ci spinge ancora più indietro, a un tempo dell’inizio, appunto, a un tempo “mitico” da cui tutto nasce».

Iosif Brodskij ha detto che alla storia, anche personale, è necessario aggiungere un “assaggio di vastità, altrimenti le nostre vite sono grette, chiuse, piccine”…

«Sono d’accordo. Questo lo ha insegnato prima di tutto Gesù Cristo anche attraverso i suoi apostoli. Abbiamo bisogno di trascendente perché il trascendente esiste, perché non bastiamo a noi stessi, perché la vita umana è un mistero e il mistero non si spiega solo con la scienza e la ragione. Dante, nel “Paradiso”, riprendendo le lettere di San Paolo, dice: “Fede è sustanza di cose sperate et argomento de le non parventi”. Da questa frase io ne ho tratto un pensiero: “fede è certezza di esperienze vissute nella loro essenza, che però la mente non riesce a comprendere”. Einstein ha detto che non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione, attraverso il rapporto simpatetico, amoroso, con l’esperienza. La stessa cosa avviene in poesia». Continua a leggere