Appuntamento venerdì 14 aprile prossimo, a Roma all’Auditorium Conciliazione, con la XVI edizione di Ritratti di Poesia
Opere Inedite. Gioconda Fappiano
Vi propongo una scelta di testi inediti di Gioconda Fappiano che vive a Cusano Mutri in provincia di Benevento.
1.
Sono le sere silenziose
passate sui gradini dei ricordi.
Mi attardo nei vicoli stanchi
che stanno come labbra sigillate
e cerco ancora giorni familiari.
Si aprono le piazze, la musica, le danze.
Scende un santo
e un’anima in preghiera.
Qualcuno guarda lontano
chiedendosi se esiste il paradiso
una macchia di colore
in una vita in bianco e nero.
Si affacciano voci
ed echi dall’oblio.
Tra le pietre e i morti
spargo l’incenso dei passi
e dei miei versi.
2.
Mandami le rose da Kiev
e dimmi che c’è ancora bellezza
che non china il capo.
Qui è il caldo che incendia l’estate
e i pomi nell’orto fiammeggiano
nel sole che picchia le crepe
tra zolle ferite di vita.
Un giorno ti verrò a trovare
nel giardino scampato alla guerra
tra le macerie di un mondo impazzito.
A piccoli sorsi berremo del tè
e quello che resta, di te e di me.
3.
Le mie mani
sono quelle di mio padre e di mia madre
hanno un callo per il dolore
e l’anello della promessa.
Le mie mani
sono dolci e severe
hanno rughe di sogni e dita sanguinanti
nelle spine della mancanza.
Le mie mani
vibrano melodie di lontananza
e rintocchi di silenzio
mentre spargono olio sulla pelle bruciata.
Le mie mani
hanno il palmo aperto dell’accoglienza
e il pugno chiuso della resistenza.
4.
Adàgiati sul mio respiro.
È una dispensa di piccole felicità
questa luce che schiara la notte
su un campo di erba tagliata,
la rosa dal profumo agrumato,
la tazza che accosto alle labbra
per una semplice gioia liquefatta.
Sarà forse l’abitudine che muore
e rinasce ogni giorno
quella che chiamano Vita.
5.
Dalla tavola sparecchiata della festa
raccolgo briciole di pane
e qualche chicco di melagrana.
Pulisco il piatto del mio passato
svuoto il fondo della bottiglia nel bicchiere
e attendo nel poco che rimane
accostandomi al presente
e al torcersi dei giorni
la voce dell’anima a me destinata
nel tempo vergine di un foglio bianco.
6.
Accettare
l’illusione di un bacio
la primavera che non sboccia
il volo d’addio
la pioggia che sporca
il canto stonato
il silenzio che urla
la benda sugli occhi
le briciole della sorte
lo strappo nel cuore
e tremare
e vivere ogni giorno
come il primo giorno
della creazione. Continua a leggere
I classici non sono mai stati così contemporanei
Dopo l’appassionata ricostruzione della vita di Ovidio, Nicola Gardini sceglie gli episodi più rappresentativi delle Metamorfosi offrendoci un’introduzione che fa luce sui principali temi del poema: la mutevolezza e l’eterno divenire, la fusione di umano e divino, e (in maniera più inattesa) il potere.
Sei episodi delle metamorfosi di Ovidio tradotti e introdotti da Nicola Gardini, Ponte alle Grazie, 2023
Nicola Gardini è poeta, romanziere, saggista, traduttore e pittore. Tra i suoi molti libri: i saggi Viva il latino (Garzanti, 2016), Con Ovidio (Garzanti, 2017), Le dieci parole latine che raccontano il nostro mondo (Garzanti, 2018), Rinascere (Garzanti, 2019), Il libro è quella cosa (Garzanti, 2020), Viva il greco (Garzanti, 2021), i romanzi Le parole perdute di Amelia Lynd (Feltrinelli, 2012, Premio Viareggio 2012), La vita non vissuta (Feltrinelli, 2015), Nicolas (Garzanti, 2022), Silvia e l’enigma della Sibilla (Salani, 2022) e le traduzioni di 1984 di George Orwell (Mondadori, 2020) e Non crescere mai di Roald Dahl (Salani, 2022). Collabora regolarmente con il Domenicale del Sole 24 Ore. Continua a leggere
Gino Scartaghiande, “Sonetti d’amore per King-Kong”
di Luigia Sorrentino
Nel 1977 l’uscita dell’opera di Gino Scartaghiande, Sonetti d’amore per King-Kong, nato a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1951, rappresentò uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento. Un poema stilisticamente audace per quei tempi che molti accolsero come un evento. A distanza di oltre quarant’anni Graph Editore ripropone i Sonetti, con l’aggiunta di alcune poesie inedite.
Fonti del Kong
di
Gino Scartaghiande
Sonetti d’amore per King Kong sono un fenomeno non circoscrivibile in una data realtà storica, tantomeno in una decade. A rigore, rifacendomi ad Husserl, il fenomeno non ha niente a che fare con la realtà; esso è, rispetto all’arte, quella “inconcepibile mezza sfera mancante” a cui, come dice Beppe Salvia in Idea cinese, l’arte stessa “deve assoggettare la propria rappresentazione”, altrimenti “diventa genere. oggetto di culto”. Ed infatti è proprio da questa lontananza dalla realtà del fenomeno che la poesia riesce a darci oggetti precisi con cui comprendere e preservare l’intero Lebenswelt umano. E anche io, per quanto mi riguarda, credo che proprio la poesia in quanto fenomeno, dacché mi ha da sempre estraniato dal mondo, mi abbia poi aperto la vera via per poter questo stesso mondo incontrare ed amare fin dal di dentro della sua Storia, o proprio mettendomici sotto, come una talpa.
Il decennio post-sessantottesco è stato senz’altro tragico, per me studente universitario nel quartiere di San Lorenzo a Roma, durante i cosiddetti anni di piombo. Eppure eravamo aggrappati a questo fenomeno-poesia come oggetto reale, non solo io, ma tutta una schiera di poeti prima e dopo Pasolini, da Amelia Rosselli a Beppe Salvia, che hanno saputo superare, con enorme sacrificio di sé stessi, quell’assentificazione del fenomeno operato dalla poesia ermetico-idealista in cui si era venuto a dilatare l’occulto nichilismo liberal-romantico di Manzoni – si veda sull’argomento il libro-pamphflet di Aldo Spranzi L’altro Manzoni, Ares, 2008 – ovvero la mistificazione di una letteratura che, perdendo di vista il proprio oggetto fenomenico, diventa mero esercizio di stile, o di estetica, denotante una sostanziale mancanza proprio di quello stesso fenomeno cui avrebbe dovuto annunciare.
Il caso del romanticismo e dello storicismo di Manzoni è emblematico, e la questione è fondamentale per comprendere la catastrofe che si apre dopo l’altissima cifra classica di Foscolo e di Leopardi, e il conseguente precipitare di tutta l’epoca nell’ideologia positivista. Se ne avvidero Pascoli e Carducci, e corsero ai ripari, ritrovando il fenomeno oggettivo della poesia, e con esso soltanto, una lingua ed uno stile veritieri. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” ci apre all’ “altrove” del fenomeno, e il “Né io sono per anche un manzoniano” sono parole pur troppo vere, dette quasi per celia da uno che aveva in epoca positivista vissuta la tragedia della messa a tacere di una origine fenomenica della lingua, che era invece ancora così naturalmente presente, in quanto tale, nei suoi avi meno remoti, e che il poeta fa d’un tratto balzare ai nostri occhi, nell’incontro di nonna Lucia con lo scaturire celeste dei giovani-cipressi “alti e schietti”. Non anche forse da quel “T’amo, o pio bove” carducciano sarà derivato il “Ma io / t’amo King Kong” dei Sonetti (pag. 28, Graphe.it Edizioni, 2023) e “Da la larga narice umida e nera” quel “Vieni con la narice dilatata” (ibidem). Come se un poeta prima di me mi avesse dato una plausibile zattera di salvataggio su cui salire. Mancando di questo oggetto fenomenico reale, l’arte non conforma nessun atollo di libertà per l’umanità, e anzi la conculca, per sostentare il mito-idolo di sé stessa. La catastrofe manzoniana si allargherà poi in quella del nostrano idealismo ermetico, con tutti i loro inani tuffi pitagorici in non si sa quale eternità se non in quella di una vanagloria mondana. Se ne ritrarranno in tanti, come dall’orlo di un abisso, consapevoli del maltolto… di “quanto ha roso il ferro della notte” Beppe Salvia (Canzone d’estate). Rebora che si ritirerà a Domodossola, Campana che scolpirà un suo sentiero di solitudine fino a La Verna, Antonia Pozzi che nell’antivedere di una nebbia, realizzerà il suo concreto oggetto fenomenico di poesia.
Il fenomeno della poesia è unico ed eterno in tutti i tempi e luoghi, e costituisce esso da solo tutta la tradizione. In questo fenomeno, o zona, se vogliamo dirlo con Apollinaire, si entra e ci si incontra all’istante con tutti i poeti di sempre in quanto persone vive, pur non avendoli mai prima conosciuti, e neppure mai letti. Sono essi stessi che ci vengono incontro e che ci prendono per mano. Essi ci donano le parole con il più alto grado di perfezione, ed è già un’altissima degnità per noi farne memoria. Così, in un percorso di conoscenza, mi è venuto incontro con il suo “Como smarrito sì vo per la via” Jacopone da Todi (Laude 89, v 127) mentre scrivevo “Come smarrito su di una strada” (ivi, pag. 36), e, dalla stessa laude, v 143, “scendemmo, saglio, tegno e so’ tenuto”, ed io “salgo, scendo gradini. Dappertutto” (ivi, pag. 45); o anche da Le aureole di Corazzini “Sei triste, mi dai pena / questa sera […] Che hai?” (Spleen, v 14-16) per il mio “sei triste stasera, sai cosa significa?” (ivi, pag. 27). Ma a volte basta anche un solo accento, una sola parola, come in questo “Te Campo” (Catullo, 55, 3) che mi si fa presente in un “Tu campo di / viaggi, campo di stasi” (ivi, 57).
Nessuna critica dunque di fronte al fenomeno, nessuna ermeneutica, se non il nostro confessarcene debitori. Il cosiddetto Anonimo del Sublime di fronte al fainetai trinitario di Saffo, “A me sembra pari agli dei colui che accanto a te siede”, viene rapito in estasi anch’egli, e tace, e ci rimanda solo il testo-fenomeno. Come tra i più splendidi oggetti reali di poesia. Se ne fa diacono, e anche doulos, ovvero servitore.
UN ESTRATTO DAL LIBRO
Il nome
I
Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.
Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.
L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.
Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza. Continua a leggere
Luigia Sorrentino. La pietà dello sguardo
Recensione di
Giancarlo Pontiggia
Inizia con una citazione plutarchea il nuovo libro di Luigia Sorrentino: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio». E «naufragio» è forse la parole-chiave per interpretare questo libro doloroso e tragico, che parla di giovani vite perdute in spirali di violenza e di degrado. Lo sfondo è una Campania infera, riconoscibile da qualche minimo tratto, ma che sembra precipitare ad ogni verso in un tempo arcaico, scuro, sacrificale. E «antico» è epiteto che si ripete spesso, nel libro, quasi a indicare un fatale avvicendarsi di storie e di destini: antico è il silenzio (p. 22), antico l’adolescente (p. 27) che si avvia alla sua fine; e antichi sono anche «amore» (p. 38) e «cuore» (p. 93).
Si sarebbe tentati, leggendo, di assegnare alle zone in prosa, che si alternano ai versi, gli aspetti più realistici e crudi della rappresentazione: ma si capisce subito fin dalla prima di queste prose, come la morte dei due ragazzi venga descritta sullo sfondo di un rituale cosmico (presenze costanti della raccolta sono i nomi della «notte», del «cielo» e dell’«oceano») dai motivi dionisiaci (lo sgozzamento della capra, il ritmo frastornante della musica, lo smembramento, l’ebbrezza), motivi destinati a propagarsi per l’intera raccolta: «– È nel dolore totale –. Non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo. L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata. Porta automaticamente le mani sui genitali per difendersi da gesti che offendono. Nelle sorsate d’alba il midazolam somministrato con l’ago esala nella vena. Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza alcun ricordo. La morte dei giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (p. 13).
La tensione realistica dei quadri e il ritmo franto della descrizione sono soggetti a una forma di drammatizzazione scenica, segnata dalle pennellate espressionistiche delle scelte lessicali. La notte, qui come in numerosi altri passi del libro, sembra allearsi con le presenze scure e ctonie della vita, con il sangue che nutre la terra e l’asfalto. Realistico è il dato iniziale, che viene però subito investito di un simbolismo acceso e traumatico, spesso esaltato dai contrasti cromatici («neve»-«sangue»), come già nella poesia d’esordio: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero // l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé // nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (p. 11). Il tema della solitudine, su cui si chiudono tutte queste vite, si scontra nondimeno con una dimensione di coralità diffusa, spesso sottintesa.
La ripetizione a distanza di tratti e termini, spesso legati al corpo e in particolare al volto (pupille, narici, occhi, cranio, bocca, capelli, nuca, denti, orecchio, gola, labbra, voce, orbite, iride), risponde a un’esigenza di ritualità, più che di formularità: siamo nel territorio del tragico, non dell’epos, cioè nel territorio in cui tutto si è ormai consumato. Un tempo assoluto che può richiamare per analogia quello del mito, entro il quale la dimensione del quotidiano e del reale acquista un suo significato nuovo. Il dramma si ripete, perché solo in questo ripetersi – in questo poter essere rappresentato – trova una sua verità e una sua cadenza espressiva. Anche per questo la raccolta si distende in un unico movimento, privo di divisioni e di sezioni interne: non c’è, in queste storie, un prima e un dopo, ma un unico, circolare fluire in cui la cronaca sprofonda subito in evento, in qualcosa che era già accaduto.
Lo stile costeggia – anche per l’espansione orizzontale del verso – la nudità del referto, ma un referto che si dà in una lingua di alta densità metaforica, e che sembra ogni volta precipitare, nella concitazione delle immagini, verso una chiusa necessariamente sentenziosa: «poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole» (p. 53); «morivano gli occhi / nel soffio della vita» (p. 58); «nella decomposizione / tutto il nostro destino» (p. 60); «deborda, cola sul pavimento / la tenebra» (p. 67); «sei entrata dal fondo, sei tornata / in un paese morto» (p. 69).
Libro ossessivo, martellante nel ritmo delle immagini e dei pensieri, dominato dalla presenza della morte e del male, Piazzale senza nome è un libro senza ristoro e senza conforto («una storia cruda senza atti di grazia», p. 47), ma anche un libro fondato sulla pietà dello sguardo e dei gesti, come nella poesia intitolata Quando hai smesso di respirare: «l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde / dita sorreggono la testa / da dietro, la tengono dritta // ti chiudono gli occhi / la bocca estrema / ha bevuto l’oceano» (p. 88). Continua a leggere
Fabio Pusterla Alla Viila Reale di Monza
Marco Bini. “New Jersey”
New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera
«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.
Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).
Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere
8 marzo: la libertà delle donne
In un mondo disegnato dalle parole degli uomini, irrompe il racconto delle donne a modificarne gli orizzonti.
Alla luce di tredici candele si ritrova un cenacolo di scrittrici, dalle loro voci nasce un nuovo continente: è la terra inesplorata delle donne.
Parte del ricavato delle vendite sarà devoluto all’Associazione Difesa Donne: noi ci siamo (via Val di Sole, 10 – 20141 Milano).
Il libro sarà presentato a Roma l’8 marzo 2023 a Lettere e Caffè (Trastevere) alle 18:00.
Con la curatrice del volume, saranno presenti le autrici:
Cettina Caliò, Ilaria Palomba, Gisella Blanco, Patrizia D’Antonio, Manuela Mazzi, Antonietta Gnerre, Emma Saponaro, Raffaella Gambardella, Elisa Ruotolo, Antonella Rizzo, Sabrina Caregnato, Luigia Sorrentino, Elisa Longo.
Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, consegue la laurea magistrale in lettere moderne presso l’Università di Parma; vincitrice dell’edizione 2005-2006 del Premio Tondelli per la sezione inediti con il lungo racconto L’odore del fieno, nel 2007 pubblica il primo romanzo, Nel nome del padre, con la casa editrice Fernandel. Nel 2008 pubblica un racconto inserito nell’antologia Quello che c’è tra di noi, a cura di Sergio Rotino (Manni Editore), nel 2009 partecipa al Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta (Fandango Libri), nel 2011 pubblica un racconto inserito nell’antologia Orbite vuote (Intermezzi Editore). Nel 2019 partecipa all’edizione aggiornata del Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango Libri) e nello stesso anno partecipa al volume L’unica via è il pensiero (Intermedia Edizioni) a cura del professore Hervé A. Cavallera. Continua a leggere
Nunzio Bellassai, da “Due tempi”
Vi proponiamo alcune poesie inedite tratte dall’opera prima del giovane autore Due tempi (Ensemble editore, 2021) Prefazione Maurizio Cucchi.
Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.
***
Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.
Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.
Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.
Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.
***
A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.
***
Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.
***
Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.
***
Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.
***
Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.
***
I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.
***
Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.
***
Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla. Continua a leggere
Milo De Angelis presenta in Francia la sua opera di poeta
RENCONTRE AVEC DE MILO DE ANGELIS
Jeudi 23 février à 18h30
Institut Culturel Italien (Loft) – 18 rue François Dauphin – 69002 LYON
Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice, et par Sylvie Fabre, traductrice.
Vendredi 24 février à 14h00
Lycée Saint Marc – 1000 rue de Vernay, 38300 Nivolas-Vermelle
Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice.
La poesia di Mauro Imbimbo
IL CORPO E LA MADRE
Corpo a corpo con il corpo,
sino a quando, a corpo morto,
rovinò sopra la madre,
di quel corpo la cagione,
per poterla annichilire
e rinascere in un corpo
incorporeo e scorporato
dal materno originale,
rispecchiandosi nel quale
tempo fa aveva dato
corpo a un corpo rigettato,
combattuto corpo a corpo,
sino a farne, a corpo morto,
la cagione d’ogni torto.
OCCASIONI PERDUTE
Imbarcarsi per Citera!
danno gli ultimi biglietti!
se si spera di sfangare
non ci resta che partire,
e tu resti a cincischiare,
ti rimiri nella spera,
col desio di ritrovare
quel bel tomo da balera,
ma la spera è affumicata,
non si vede un accidente,
ed intanto quel traghetto
sta lasciando ratto il molo,
e tu resti tutto solo,
col rimpianto e con la spera.
CONCLUSIONE
Sullo stato dello Stato
ogni lemma è stato usato,
e di crude e di cotte
v’è un elenco dettagliato.
Giunti siamo a quel momento,
il momento del commiato:
rinunciare a plausi e botte
e augurarsi buona notte.
DESTINI
I cani e i fanciulli
assieme al giardino.
La vita del gioco,
diletto con poco.
Restiamo a guardare,
ancora per poco.
Felice chi il gioco
amò pure poscia
che vita fanciulla
morì dando vita
dando vita
all’ansia per tutto,
piacere per nulla.
DECLINO
La Bellezza a primavera
marca visita di nuovo,
ha rimesso la panciera
e alla sera solo un uovo.
Teme i mostri culturali,
le richieste sindacali,
è insicura sui valori,
la carriera con il Bene
non l’attira come ieri.
Si ritira, pare chiaro,
darà presto dimissioni,
per le comunicazioni
indirizzo fermo posta.
PAROLA AL VENTO
Nella vita mortale
della morte parlare,
senza nulla imparare
circa il bene morire,
ritenendo che basti,
nella vita mortale,
nominare la cosa,
ed in dosi copiose,
per passare di là,
senza dazio pagare,
senza colpo ferire.
Mauro Imbimbo, da “Valori Bollati” (La Bussola, 2021)
Cinzia Demi, da “La causa dei giorni”
bisognerà capire cosa ci porta
a credere nei grani a farne
sabbia di clessidra tra le mani
a non rompere i cristalli dorati
a tornare là dove siamo nati
nella casa con le pareti bianche
dove ogni cosa ha un nome
che chiamiamo ogni confine
è un richiamo che rapido svalica
si espande nel mondo
in un sussulto di folate tra
bacche d’acacia e lino chiaro
nella luce obliqua delle persiane
nel sacramento giurato sul
simulacro trasparente del mare
bisognerà capire cosa ci resta
della pazzia della festa del
calore di fiamma che ancora
difende la giovinezza
dei nostri corpi abbracciati
nell’alba tra i vapori, mentre
sprofonda l’ombra delle sagome
che ci furono accanto e d’un
tratto la memoria è un male
stordente l’umanità affonda
nella ragione oscura
i papaveri stentano a fiorire
e un tempo immobile non
spiega non glorifica ma non
rinnega la causa dei giorni
*
Dalla sezione: Nel nome del mare
aspetti sempre che qualcosa succeda
mentre alzi gli occhi
agli alberi che temono l’autunno
la strada si è fatta più lunga e
quel cartellone ieri non c’era
è una milizia certa quella del tempo
da assoldare nell’esercito mercenario
per le guerre sull’altare di pietra
nella chiesetta – frontiera del Golfo[1]
contro il pallore del mare d’ottobre
pagarlo e lasciarlo libero di fermarsi
un poco a riposare senza fretta
provare a bagnarsi le mani
dove scorre la sabbia di ematite
raccogliere una scheggia di bucchero
e costruirci un bicchiere
bere un sorso di maestrale
da quella breccia che ingrossa
l’aria di sale antico e tamerici
magari è così che si cresce
dopo il pane con zucchero e vino
dopo le vendemmie e le rose
quando tutte le cose sfumano
in un sentire lontano e dici
è così che si cresce per le croci
da cui siamo fuggiti
per quell’aria soffocante di casa
dove l’orizzonte era solo una linea
magari è così che s’incontrano teatri
con le quinte a colori vivaci
rammendate che non importa quanto
è così che si consumano chilometri
si stringono corpi si gettano paramenti
argenti s’indossano senza più valore
senza l’ardore che ci fece scuola
e aspettando ancora si torna all’inizio
si alzano gli occhi
agli alberi che sono già primavera
la strada è più corta ora
e di quel cartellone lo scritto è sbiadito
*
Dalla sezione: Materiale non riciclabile
noi per la vita
noi per la morte
noi per l’eterno sentire
noi per non capire
noi che fummo e che siamo
l’umanità dolente
di quel dolore forte
che acceca la mente
l’umanità perduta
fottuta dall’ottusa gente
noi che credevamo
noi che non crediamo
noi che speravamo
noi che non speriamo
noi che amavamo
noi che non amiamo
noi che non ci siamo più
senza famiglia senza virtù
con un sogno che muore
ogni momento
ogni singolo momento
un sogno fermato
in un pugno in un lamento
nell’acqua che avanza
nel vento che squarcia
nel sole che brucia ancora di più
*
Dalla sezione: Quel segno che manca (febbraio 2020 – gennaio 2021)
guardo l’orchidea sul tavolo della cucina
ogni tanto lascia andare un fiore
si secca e scende dal ramo
che perde la sua freschezza
si spoglia del suo colore
è ancora bella però penso
trafitta da quell’ultimo raggio
di luce tradito dalle pieghe arancio
della tenda se avesse una sua voce
mi direbbe di questo tempo
mi direbbe che perdo i contorni
dei volti di chi amo i colori degli
occhi la linea disegnata dei profili
i gesti delle mani che le parole sono
fioche e vuote anche ai cellulari
mi direbbe che è sfumata la veste
del mare e l’orizzonte non è più
una linea dove poggiare lo sguardo
che la neve non è scesa quest’anno
e l’erba aspetta paziente il ritorno
mi direbbe che i sogni sono incubi
che il pianto che sento è lontano
ma vero che la notte ha sepolto
i migliori di noi nella via crucis
dei camion delle loro luci in cordata
mi direbbe che la vita non l’ho mai capita
che non può accadere soltanto che il
bicchiere si riempie quando l’acqua scorre
che la tunica non si gioca ai dadi
ma si taglia e si cuce con le mani
e mi direbbe l’orchidea di questa Pasqua
puntuale affacciata alle nostre finestre
come quella macchia di ginestre di cui
rivedo nel bosco fitto l’ambizione del bagliore
il chiarore infestante della Resurrezione Continua a leggere
Addio a Charles Simić
Lutto nel mondo della poesia
Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023.
La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.
Charles Simić è stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.
Something Evil Is Out There
That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.
Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe
Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,
With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.
C’è qualcosa di malefico là fuori
Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.
Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere
ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,
con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.
da: Charles Simic Avvicinati e ascolta Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan
Else Lasker-Schüler, “A mio figlio”
Else Lasker-Schüler nell’ultima foto che la ritrae d’inverno nel 1944, tutta intabarrata mentre esce da un negozio, è sfocata. Cammina per le vie di Gerusalemme un’anziana signora, un po’ trasandata, non sempre lucida. Eppure Else era una donna forte: si batteva come una fiera, per difendere la sua arte, promuovere il dialogo interculturale, esigere aiuti per sé e per le persone a lei care o per chi era in difficoltà, perseguitato e sradicato, negli anni bui della seconda guerra mondiale.
“Il mio pianoforte blu” è l’ultimo libro pubblicato in vita nel 1943.
Nel 2022 il libro è stato pubblicato in Italia dalle Edizioni FinisTerrae, con la traduzione di Michele Gialdroni nella collana Le Meteore, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat.
An mein Kind
Immer wieder wirst du mir
Im scheidenden Jahre sterben, mein Kind,
Wenn das Laub zerfließt
Und die Zweige schmal werden.
Mit den roten Rosen
Hast du den Tod bitter gekostet,
Nicht ein einziges welkendes Pochen
Blieb dir erspart.
Darum weine ich sehr, ewiglich…
In der Nacht meines Herzens.
Noch seufzen aus mir die Schlummerlieder,
Die dich in den Todesschlaf schluchzten,
Und meine Augen wenden sich nicht mehr
Der Welt zu;
Das Grün des Laubes tut ihnen weh.
– Aber der Ewige wohnt in mir.
Die Liebe zu dir ist das Bildnis,
Das man sich von Gott machen darf.
Ich sah auch die Engel im Weinen,
Im Wind und im Schneeregen.
Sie schwebten…
In einer himmlischen Luft.
Wenn der Mond in Blüte steht
Gleicht er deinem Leben, mein Kind.
Und ich mag nicht hinsehen
Wie der lichtspendende Falter sorglos dahinschwebt.
Nie ahnte ich den Tod
– Spüren um dich, mein Kind –
Und ich liebe des Zimmers Wände,
Die ich bemale mit deinem Knabenantlitz.
Die Sterne, die in diesem Monat
So viele sprühend ins Leben fallen,
Tropfen schwer auf mein Herz.
(1943) Continua a leggere
Giuseppe Martella, da “Porto franco”
Dalla postfazione di Rosa Pierno
Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che prevedano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra! […]
E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti
– quasi arrivati, e neppure mai partiti.
*
Tranche de vie. In versi
e scorre per un verso e per l’altro ritorna
tirata via a forza ma con arte
una fetta di carne viva
al ricordo – il sangue che ancora
cola – come in un macello
appeso al gancio dondola il vitello
appena macellato e ancora caldo –
lo sento se soltanto mi avvicino
a un metro e chiudo gli occhi,
e trattengo il respiro, mi tappo il naso
ma mi manca il fiato
sfioro la carne viva, prima che la ferita si
rimargini
prima che la spuma della vita
biancastra
ritorni secca e muta nei suoi argini.
*
Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.
*
Canone inverso
E breve breve mi ritorna in mente
il ritornello
però tutto a rovescio che non so
neppure se sia quello di prima
oppure un altro – o della foglia
il dolore nel ramo che si incrina
– sulla soglia dove il rumore
si trasforma in suono e poi parola
e poi vola fra me e te –
rimane fra di noi – come se
fosse un arcobaleno, sole
un effetto di luce nella pioggia
una lama nel cuore
un boomerang di ritorno
un osso di rapace
scagliato d’improvviso a ciel sereno.
Da Porto franco, Arcipelago Itaca, 2022
______
Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).
Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi let- terari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.
Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contempo- ranea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online.
Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sono già apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Raipoesia” di Luigia Sorrentino. Porto franco è la sua opera prima in versi.
Fra le sue altre pubblicazioni a stampa:
– Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB 1997;
– Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB 2006;
– G. Martella, E. Ilardi, History. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori 2009 (in duplice versione, inglese e italiana);
– Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori 2013;
– Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne 2014.
Marilena Renda, da “Fuoco negli occhi”
A Siracusa Freud vede piccole statue
di madri e fanciulle, alcune con neonati,
colte nell’atto di sorridere o camminare.
Qui ho visto il femminile, scrive a Jung,
ma non entra nei dettagli e non condivide
la scoperta nemmeno con Ferenczi,
che in viaggio si rivela esigente e molesto.
Tiene per sé la visione, scovata o no per caso,
vale un intero viaggio, ma non trova le parole,
forse l’ha desiderata troppo a lungo,
ed è inutile addobbare la verità di dettagli.
Scrive alla moglie, impossibile l’anno prossimo,
troppo costoso venirci in tre, in cinque, in undici,
dovrei mettermi a fabbricare fibbie e fiammiferi,
tengo la Sicilia per me, nessuno me ne voglia.
*
Arrivato a Siracusa, Jünger torna dov’era stato,
alla fonte dei papiri, che lui ricorda in libertà,
mentre facevano compagnia alle ninfe. Una o due ninfe?
Forse due, ma ugualmente soggette a metamorfosi,
morte per amore e subito trasformate in fiumi.
Non si rassegna al cambio di geografia interiore:
qui ogni cosa e il suo contrario, annota,
sono possibili allo stesso modo, e la storia fa presto
a degradarsi, a restituire gli oggetti alla natura.
Se uno ha visto una ninfa sciogliersi nell’acqua,
fa presto a credersi una divinità, ma dimentica
le visioni successive, la rovina del corpo,
la storia che continua dopo la cristallizzazione.
Il sole splende ancora, noi ostinati nell’infanzia.
*
Non può nemmeno dirsi mare, il tratto di Stagnone
che collega Mozia alla terra. Più di ogni altra isola
questa appartiene ai morti, e i morti raccomandano prudenza.
La barca che lo attraversa deve procedere con cautela
su cinquanta centimetri di fondale, a ogni istante
può incagliarsi, ricordi che non riuscivamo a proteggere
Bianca dal sole, e tuttavia non avevamo paura,
sotto la pelle del mare potevamo vedere la strada
costruita per i carri, con la bassa marea si può attraversare,
e anche se il mare tenta di confondere le tracce
puoi sapere com’è, portare da mangiare ai morti.
*
Per iniziare a scrivere il suo poema,
Eliot aveva deciso di aspettare la primavera,
o almeno una stagione di quiete,
qualcosa di simile a una tregua.
Non sapeva che avrebbe avuto bisogno
di una guerra, o almeno di una siccità,
una condizione che dall’esterno avremmo potuto
associare a una moglie pazza, ma mai, mai
a un impiegato della Lloyds Bank.
Avrebbe avuto bisogno di tempo, anche,
e del dottor Vittoz che, premendogli
la mano sulla fronte, gli indicava dove
distogliere gli occhi, la calma che serve
quando niente è da perdere ormai.
Fuori dalla finestra, sul lago Lemano,
insisteva il battito d’ali del disastro. Continua a leggere
Nunzio Bellassai, da “Due tempi”
Vi proponiamo alcune poesie tratte da “Due tempi”, di Nunzio Bellassai, Ensamble Editore, 2021
Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.
***
Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.
Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.
Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.
Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.
***
A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.
***
Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.
***
Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.
***
Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.
***
Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.
***
I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.
***
Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.
***
Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla.
***
L’ombra galleggia nel fluido ammasso
del rimpianto, calpesta gli ultimi aghi
di pino del giorno che è stato,
i tronchi inerti, fissati al terreno tenace,
l’equilibrio immobile di quello che resta.
Il silenzioso reticolo delle alghe
nasconde lo scheletro roccioso
dell’Isola che ora vive solo per sé.
L’ebbrezza dei corpi che si cercano
ansiosi sul viso torbido della marea.
Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.
RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea
La reciprocità degli sguardi
Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.
Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.
Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.
Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.
Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.
Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.
(Luigia Sorrentino)
Postilla
Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.
Raipoesia2022
ideazione e progetto di Luigia Sorrentino
si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione
La poesia di Giovanna Marmo
Intorno al nostro sonno,
per giorni e giorni.
Camminando da svegli.
La metà che parla
Insetti, piccoli pesci.
Larve sul tavolo. Mobile,
sotto la stessa luce.
Sotto la stessa luce
io dormo, tu vegli.
Le gambe poco aperte.
Una frase si forma,
senza quello che
avviene.
Sonno,
imbuti di sabbia.
Vieni con me, sedia
metà quasi muta:
non sembri nemmeno
riconoscermi.
Fuori dall’acqua
siamo linee
inclinate.
Solo la pioggia
Il cappotto viaggia nell’ombra,
una mano abbandona un braccio
sinistro. Lentamente
in uno spazio disabitato.
Oltre i cristalli
i tronchi fumano
odorano di carne.
La pioggia racconta
una storia. La testa cade
sulla spalla-ali di sonno.
Automobili galleggiano,
non si sa dove.
Una scarpa affonda.
L’acqua scorre
nella pianura vuota.
La testa capovolta
Vetro-piombo,
la luce cade
fuori di me.
Nella retina una testa,
capovolta parla: perché io?
Le braccia strette
lo zaino, lo sguardo
su, verso le finestre
cieche.
Chissà che tu nel sonno
non veda il mio volto.
Lunghe code dividono
le quattro pareti del cervello.
Giorgia Esposito, da “Smarginature”
Quanti cedimenti alla banda,
l’uno che vuole essere parte
ma non gregario, l’infelice
nel suo diaframma di senso,
il gesto che tradisce l’esilio.
Cosa caverai dal nucleo primo?
Qualcuno sta cercando i suoi,
il non ritorno, il bacio sulla fronte
del padre, il mondo-schermo,
questo tempo tutto da schiarire.
*
In quale pozzo fu benedetto, gli chiedo
sfiorando con paura l’assenza del mito,
il non approdo in cui si inarcò il vagito.
Per le lunghe scale è l’eco la dimora
dell’orco, e più su la campana cinerina
dell’infanzia, l’odore acre del limone –
incredibile credersi salvi.
Tu respingi le due braccia tese
nello sforzo di separare i lembi.
Tu vuoi l’intero nella crepa. Continua a leggere
Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”
Nota di Milo De Angelis
Giovanni Ibello è il più antico dei nostri giovani poeti. Il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei grandi poemi greci o indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni, tutto un universo di simboli arcaici che però viene esplorato da una parola conficcata nei nostri giorni. La metafora regna sovrana nelle pagine di Ibello e connette creature infinitamente lontane tra di loro – “il cimitero della sete”, “una giostra di tagliole e vento”, “la chiromante delle ustioni”, “il santuario delle nebbie”, “flagelli di margherite” “la nomenclatura delle vene”, “il battesimo incendio”, “l’alba dei rasoi” – creando legami sotterranei e inattesi, gettando il mondo visibile nei baratri del mondo infero.
Platone è il filosofo di quest’opera, soprattutto il Platone dello Ione, quello che sente nel poeta un essere posseduto dalla sua arte, un essere demoniaco che non sa di sapere. Ma sono molti gli autori presenti nell’opera di Ibello – uomo dalle vaste letture – e tuttavia più che maestri di stile sembrano invisibili fratelli di sangue, alleati in una comune avventura e in un comune viaggio nel fiume della natura, nelle sue correnti segrete e animistiche: è una natura vivissima, percorsa da forze impetuose e assassine; una natura popolata di animali e di fiori, antilopi, gru, gatti, cigni, cormorani, pinete, anemoni e aranceti, una natura straripante, assetata, minacciosa, sempre prossima a sprofondare nelle tenebre, sorella del Barocco spagnolo, quello più impregnato di morte.
Dialoghi con Amin è un grande e originale poema notturno ed è un poema dell’imminenza. Qualcosa di terribile sta per accadere, ci viene detto e ripetuto. “Amin, è quasi giorno” e noi sentiamo che questo “quasi” è una soglia magica e questo “giorno” muterà la nostra vita, come nelle aubades della poesia provenzale, quando il giungere dell’alba separava gli amanti e li consegnava alla loro solitudine. Qualcosa di immenso sta dunque per compiersi. Ma non sappiamo ancora di cosa si tratta, non riconosciamo il volto del Mutamento. Sappiamo che non è un semplice amore, una semplice morte o una semplice rinascita. Questo ci viene detto più volte. “Credimi, noi non stiamo per rinascere”. E non si tratta nemmeno di un paradiso o di un inferno. No. L’imminenza continua a nascondere i suoi piani e ci lascia all’oscuro, come in una moderna Apocalisse, per citare un’opera cara a Giovanni Ibello. Rimane quest’estrema vigilia nel cuore della notte, rimane “la lesione tellurica del buio”, come scrive il poeta. “Di quello che sognavi veramente / non resta che un silenzio siderale / una lenta recessione delle stelle”. Rimane qualcosa che non ha tratti umani. “Ogni cosa si annuncia mentre si sfigura”.
“Ogni cosa rivela /quel nulla che siamo già stati”. Qui non si parla solo di noi, non si parla solo della nostra brama di amore e di felicità. C’è in gioco in questi versi un mutamento sterminato, un dialogo amoroso tra le potenze della natura, qualcosa di remoto che non ci ha mai sfiorati e insieme qualcosa di vicinissimo che abita nel nostro seme. Forse è l’universo che si fonde con noi, come dice l’epigrafe di Adonis, o forse è un altrove che ci coinvolge nel suo alfabeto incomprensibile, un “altrove di spine e diademi” che ci conduce a spezzare i vetri dell’esistenza, una bufera che rade al suolo tutte le nostre parole, uno sprofondamento “nel grembo della cancellazione”, qualcosa che ci getta in balia dell’attesa, di una pura attesa senza oggetto. O forse è qualcos’altro ancora, qualcosa di impensabile e violento che supera la nostra intelligenza. Non sappiamo cosa, ma sappiamo che accadrà, scrive Giovanni Ibello, accadrà per intero e tragicamente, dopo aver seminato le sue tracce misteriose in queste pagine.
Tracce misteriose, indubbiamente, perché la parola di Ibello non è mai dispiegata, non si estende mai in orizzontale per chiarire se stessa e aggiungere dettagli. Si guarda bene dal dilungarsi in spiegazioni non richieste, si tiene stretta alla propria unicità e obbedisce al comandamento di Cristina Campo posto in epigrafe: non dobbiamo sprecare le nostre frasi, non dobbiamo offendere il nostro silenzio, perché “di ogni parola inutile ci sarà chiesto conto”.
Ecco, il silenzio. Il silenzio è uno dei protagonisti di questo libro splendido e irripetibile. Ci impone le sue regole di ascesi e di clausura: le nostre preghiere avvengono nel buio degli hangar e noi le ripetiamo come giaculatorie dinanzi a un dio demente, con la paura di essere inghiottiti dall’afasia o da un mutismo sbigottito, un addio che ci attende e suggella ogni nostro gesto, rendendolo così glorioso e vano, sempre sul punto di precipitare in un tacito burrone di ombre. Come ci ricorda il poeta: se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una.
Vorrei concludere soffermandomi su un’altra epigrafe che Giovanni Ibello colloca in una posizione importante, in apertura di libro: alla poesia, che mi farà solo. E davvero la solitudine regna sovrana in queste pagine. È una solitudine carceraria, uno stato di isolamento rigoroso, una reclusione che non ammette sconti di pena se non qualche istante di libertà vigilata in cui il poeta getta uno sguardo sul mondo prima di tornare in cella. Ed è uno sguardo prodigioso e lancinante, quello di Ibello, uno sguardo che arriva a farci dubitare dell’esistenza stessa – “mai nessuno ci ha chiesto di essere vivi” – e ci proietta in un interregno di fantasmi al di là di ogni presenza terrena, assediati da scene perdute che affiorano all’improvviso o da intuizioni divinatorie sul destino che ci attende. Vita sempre sognata, mai vita. È una vita dove appare impossibile spartire stabilmente qualcosa con un altro e dove entriamo in una metamorfosi perenne, senza pausa e senza appoggio, sospesa tra la Napoli attuale di Diego Armando Maradona e lontane regioni della terra inondate di sole, un’eterna Mesopotamia di dune, deserti e ziqqurat, dove la luna illumina sempre la sabbia e Adonis innalza il suo canto solitario, solitario come il protagonista di questo poema, che può sancire la sua avventura umana solamente con queste parole incolonnate:
Amin
noi
siamo
soli.
_____________
da Dialoghi con Amin, Crocetti Editore 2022
io non torno più
Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra che fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”. Continua a leggere
Salvatore Ritrovato. “Resisterà la poesia alla civiltà in declino?”
Il rituale della poesia
Dalla volta dello studio è un bisbiglio d’ali e piume:
sono volatili che salutano l’aurora.
Anche nell’era della burocratizzazione del sapere
un’antica luce si dimena dei recessi e ci innamora.
Meglio fare i conti con la vita o la carriera?
Non saprò mai quanto buia la strada diventerà e stretta
ma ho bisogno di tirare dalla tasca un libro
di versi e metterlo in mano alla collega come un pegno
per il prossimo incontro, e farne un ponte
nello spazio di questo esilio che ci attraversa
trovare nei suoi occhi per un attimo la stessa esitazione.
“Non lasciamoci senza un segno…”: ogni parola
lontana veleggia in mare aperto, c’è tanto vento.
Invece mi interessa che questa poesia resti
come un dono, un ricordo, o un progetto
nella mano di un’amica che l’accarezza.
“Sai quanto ti voglio bene… “
L’errore e credersi capaci di donare e donarsi
ritenersi degni di amare ed essere amati.
Cazzate. Da anni inseguo ideali stampati
sui libri come ombre sui muri: alla sera svaniscono.
Quando ti svegli hai paura dell’amore
che non esiste, pensi di aver sognato.
Di aver creduto vero ogni abbraccio, ogni bacio.
Fu un non-esistere lieve, forse un azzardo.
Invece di viverla, ci inventammo la vita.
Esiste invece, la mattina, quel senso dell’onore.
Il coso duro anche dopo gli anta, ancora parla: ”
basta una, sulla strada…”
Mezz’ora ed è finita, e alla fine non ti dice:
“Sai quanto ti voglio bene ma preferirei non vederti”.
No: “Per te non sento niente, mi piacerebbe rivederti”.
I piatti sporchi
I piatti sono ancora l’uno sull’altro sporchi nel lavello
e così li lascerò stasera, perché è come sto dentro.
Domani ci metterò le mani per pulire tutto con un gesto
di gratitudine immenso per il tempo che ho perso
e penserò: basta, devo finire, presto…
Lavare ogni sera i piatti in cui ho debellato la fame
e lasciarli asciugare per poi ricominciare il giorno dopo –
ma che senso ha, perché non me ne vado?
o aspetto che venga la Signora e metta a posto?
Farà pulizia in mia assenza, luciderà l’acciaio
come uno specchio in cui posso guardare quanto sono bello.
Senza unto, senza calcare, bello come un ladro.
Da La circonferenza della vita, Marcos Y Marcos, 2022, Collana: Le Ali, curatore Fabio Pusterla
Salvatore Ritrovato è poeta e critico. Dopo l’ultima raccolta (L’angolo ospitale, La Vita Felice 2013), ha pubblicato diverse plaquette (l’ultima L’anima o niente, Il Vicolo 2020), e saggi sulla poesia (La differenza della poesia, Puntoacapo 2017; La poesia e la Via. Saggi sulla letteratura e la salvezza, Fara Editore 2020). Continua a leggere
La poesia di Dario Nicolella
FERITE
Devo dirti grazie
per le bende che hai avvolto
della tua pietas crocerossina
sulle ferite in-tagliate
piagate ustionate
Lasciami però aperti gli occhi
perchè vedano albe e tramonti
questo buio mi ferisce ancora
mi tormenta come un coltello
(da TRENTA POESIE PER RABARAMA,2014)
OMBRE
Ti vedo non ti vedo
forse ti intra-vedo
no
era soltanto ombra lunare
un grigio riflesso argento siderale
niente nessuno
nulla di fatto
il nulla fatto persona
(da POESIE DELLE CENTO LUNE,2017)
PAPAVERI
Ebbene sì sono fiero
di essere cresciuto come un fiore
che immediatamente muore
nella temeraria mano di chi
lo strappa al campo
pur di sottrarsi a una vita senza scampo
e non marcire lentamente in un bel vaso
effimero ornamento
in un appartamento
(da POESIE PSICHEDELICHE,2019)
FLOP
Sono come l’acqua
corro scorro
dilago
di lago in lago
non mi volto mai indietro
non mi tiro mai indietro
Sono goccia d’acqua
dentro doccia d’acqua
plop plop
plop plop
plop flop
fino al prossimo flop
(da I CERCHI/ Poesie col flash,2019)
NON CONOSCO L’ATTIMO
Non conosco l’attimo
in cui un sasso
mi frantumerà il vetro perciò
lascio sempre aperte le finestre
così da spalancare
il mio libero spirito
alle correnti dell’amore
(da UN ALTRO GIORNO SU NEL CIELO/
Poesie in viaggio con l’anima, 2021)
Dopo l’ esordio poetico con L’ARPA DEL CONNEMARA che risale al 1993,e un lungo periodo come autore di saggi su tematiche storico-artistiche (I cento chiostri di Napoli, Le cupole di Napoli.Le strade di Salerno) e mitologiche (Partenope la sirena, La leggenda di Palinuro, La luna dal mito alla conquista) Dario Nicolella (Napoli,1956) ha da qualche anno riscoperto una nuova e inattesa vocazione poetica che ormai si affianca stabilmente alla sua professione medica.
Gian Mario Villalta al Teatro Bellini
Gian Mario Villalta presenta a Napoli il 2 dicembre 2022 alle 17:00 la sua ultima raccolta di poesie Dove sono gli anni (Garzanti, 2022)
Dialogano con l’autore Antonella Cristiani e Alberto D’Angelo
Da “Dove sono gli anni“, di Gian Mario Villalta, Garzanti 2022
Sempre ti manca quello che hai: vivere.
Qualcosa di più necessario, seguiti a chiedere,
qualcosa che ti convinca, ti vincoli a.
«Perché continuo a scrivere?»
Forse perché puoi finire
lo fai, come uno cammina di sera
prima di cena, o un altro vanga l’aiuola,
o mette a posto il garage, perché tu potresti
– come lui – non varcare più l’ombra
dei lampioni, l’altro smettere di sperare
che germini il seme o più non sapere se le sue cose
sono ancora lì – potresti così tu non essere
più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu
che diventi tu che lo scrivi.
*
Anni fa, adesso, lo stesso pensiero di non tornare più
quel momento che la mente ristampa e pare uguale
mentre accampa la strada, è novembre, e sono le foglie
la quiete che manca, i rami neri nel cielo che c’è.
Adesso, allora. Soltanto più tenue è il respiro del tempo
che sfiora gli anni e le ore dove provi i risvegli e gli insonni
globuli rossi, i globuli bianchi, le cellule si avvicendano,
qualcuno che diventa qualcuno, a tua insaputa, tu.
Alfonso Guida, da “Il Tassidermista”
Scrivere non è ricevere lettere.
È ciò verso cui lancio un destino.
I VOLTI LA SCRITTURA
Quello che chiamo Dio
è la non ignoranza di me.
L’orfano va per cardi.
Le capsule di cianuro in bocca ai bambini nel sonno.
Quello che chiamo Dio
è uomo che scende
dove rimane
tra l’inciampo e l’indulto, dove
nullo è il soffio e l’involarsi
dei primi fischioni.
Scrivi: fuoco e fune sul tetto.
Scrivi: inevaso.
LUCO
Alle bandiere fredde
di febbraio il tempo si ferma e trincano
tutti. le brocche e i bicchieri si svuotano.
I doni sono tracce di occhi.
Altri doni sgombrano il tavolo e noi abbiamo una
visione calcinata, un biancore scheggiato di fossili.
Torna, imperante, l’ombra,
la parola incavata a sera. Forse
verranno tardi i bevitori gagliardi, una posa
tra falconieri e giullari. Eppure resta una statuaria
sotto il vuoto di una fuga noiosa. E, nel gelo,
dietro le porte inchiavardate, si masturbano, folli
di una notte vorticosa e stellata
che si aggira per Via Muro Barbieri,
le mani in tasca, il vino nella grotta.
TEMA BRODSKIJ
Povera morte sola
rispondi quando vuoi, ti prendi tempo.
Aria di pioggia, nostalgia del primo
passo vuoto. Non le aste
d’acciaio o il mostro in cattività.
Buio di occhi, buio che vedi
l’estate con la zappa sui formicai.
Nell’acqua la corona di papavero.
Nella controra tu vieni intorno al vento e lasci
la pietra di ubbidienza e la preghiera
che fa mansueto chi sale e scalfisce.
Povera morte sola
squassando la tenebra tu riluci
con le voci addosso e la madre asciutta
nei moniti e filiale nell’incanto.
Fin dentro i crepacci io ricordo te che
segui un riflesso e un passato di allievi.
La stanza illuminata entra di notte
nei bouquet e nei fuscelli tremando
contro una lingua offesa
contro un linguaggio che fende attraverso
la fragranza di frutta e le labbra gonfe
che tornano qui,
Torniamo anche noi, più alti
di ogni immagine, tra la sabbia che si ostina a tenere
le tracce ed è una spiaggia che latra da vent’anni
come il padrone di Itaca
come il padrone festoso e selvaggio
che dorme accanto al suo cane in un lenzuolo madido.
Povera morte sola
chi ti ama aspetta una lunga carestia.
Più cupa stasera l’aria della terra.
Piccola fiamma di un’attesa amorosa, avanza. Continua a leggere
Mimmo Paladino alla Galleria Mazzoli
Mimmo Paladino a partire dal 3 dicembre 2022 torna a esporre alla Galleria Mazzoli di Modena dopo la mostra EN DE RE del 1980, la personale del 1992, Dieci arazzi con Alighiero Boetti del 1993, Vasi Ermetici del 1994 e le mostre personali del 2012 e del 2014, proponendo Il tema dei fiori, un ciclo di opere inedite in cui sono protagonisti i fiori, soggetto ricorrente in tutta la storia dell’arte, dall’antichità fino ai nostri giorni.
Paladino realizza per questa mostra sia opere di grandi dimensioni che piccoli dipinti in cui convivono pittura, scultura, incisione e disegno e in cui campeggiano le sue teste, la figura umana e le sue classiche figure geometriche delineate con segni primordiali, opere in cui si percepisce il dialogo tra l’uomo e la natura attraverso le stratificazioni materiche e gli elementi floreali immersi nell’immaginario poetico dell’artista.
Nel testo del catalogo della mostra Lorenzo Madaro ci parla di “Fiori che germogliano, fiori che si amalgamano a corpi antropomorfi arcani, fiori che persistono e fiori che si dissolvono; fiori che lievitano verticalmente e altri che compiono viaggi imperscrutabili e che svelano in maniera ancor più precisa che per Paladino questo del fiore non è un tema fine a sé stesso, perché d’altronde nella sua ricerca non esistono tematiche, quanto piuttosto un presupposto che gli consente una maggiore disinvoltura e una libertà di segno, anche al di là del segno stesso.[…] La forma di questi fiori è totemica, arcaica, appartiene a un lessico visuale che nella ricerca del maestro è parte integrante di un alfabeto ermetico ma al contempo ormai famigliare. A guardarle queste tele sono singole sezioni di un discorso più ampio e aperto, sono elementi di un grande giardino, che è un tema che appartiene da tempo a Paladino.” Continua a leggere
In ricordo delle vittime di femminicidio
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Nel lago della sera
Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia, scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada che costeggiava la fabbrica di ghiaccio. Brandelli di morte erano caduti nel pietroso mondo invernale. in un ritmo feroce, il ghigno dell’animale stringe, sempre più. Uno sciamare esaltato imbriglia la preda. Respira nella morte la danza armata, ingoia il grido nel grembo.
Sale la musica, sempre più in alto. – Cara compagna dei miei anni sopravvissuti –. Una corona cade sulla sua testa.
Nunzia
essere portata in un’urna
diranno – reca le ceneri –
con il corpo privo di resistenza
la ragazza dal volto antico
si sottomette
rende cadavere la cosa
una forza la preda
non uccide ancora, è sospesa
su di lei
l’imperativo potente
l’ha resa schiava
di notte quando è sola
lava via dal corpo
segni vaghi e confusi
*
qualcosa incrina la sua forza
il posto si svuota
– tu sei inutile, non vali niente –
la violenza ha la lingua del fuoco
lo scudo sul quale rimbalza
le protegge il volto, chiaro
la testa fra l’incudine e il martello
montava rabbia incandescente
poi scendeva la tenebra
il silenzio di tutte le parole
*
si rivestiva in un angolo
senza più dire niente
restava lì, nella penombra
separata da sé
era accaduto di nuovo
era già accaduto prima
sulla strada
la testa ciondolava nel niente
precipitata l’innocenza della rosa
coagulato l’umido degli occhi
dal profondo l’assicuravi
del nulla, del tuo trionfo
– nessuno ti vorrà più –
*
l’arteria della gola tesa
porgeva il collo alla lama
il promontorio dagli occhi languidi
tornava a deporla
sulla città distesa davanti ai loro occhi
quell’odore di labbra poteva già essere
c’era sempre stato
non sospettava di essere
coraggiosa e giovane
dà l’imbeccata al falco
l’isola ferita
il palmo della mano avvicina
il basso graticcio delle rose
*
la nuvola sembrava una montagna
non era niente
la carnagione bianchissima
aveva il carattere provvisorio
dei morti
la tenebra le parlava
ossessivamente
occupando il suo destino
il canto degli uccelli notturni
annunciava in un grido
la fine di ogni cosa
*
il dio dei morti autorizza l’amore
soltanto presso i morti
lo dissotterra,
amore disperato e sterile
dal naufragio lo difende, in seno
cara luce
tiene il lembo
lascia cadere
una speranza debolissima
si propaga all’umanità intera
deperita vittima espiatoria
adorazione terrorizzata
verità della violenza Continua a leggere
Silvia Rosa, “Tutta la terra che ci resta”
All’estremità della notte le occhiaie
ci confortano, piccole chiazze di lune
piene sul volto. La redenzione del tunnel,
con i suoi boati corvini e le falene-bussole,
è una strada d’alluminio che accoglie
i nostri fantasmi, a 150 km orari.
Il roseto di abbagli ed errori resta fuori
da questa griglia di Hermann: le fucilate
degli antinebbia e i rimpianti sono espunti
da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.
Manca profondità a questo andare,
uno sguardo d’insieme, il talento
di sopravvivere alle lesioni del buio
*
È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.
Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?
*
È un lampione questa luce che piomba sul tavolo,
allaga il conto delle notti a venire, un rebus scritto
con avanzi di briciole. La strada posa la sua coda
sonora per terra – dentro o fuori non fa più differenza –
Una volta c’era una casa fra ottantatré geroglifici urbani
e tre colate di cemento in tiro, puntati negli occhi:
una sagoma abita la sera, dietro una lamina di dubbi,
nell’odore cinereo, come sfugge – ma dove –
domani le voci si stendono ad asciugare tutti gli incubi Continua a leggere
Opere Inedite, Luca Chendi
Tramuta nel corpo del padre di mio padre
la filosofia che il tempo lascia come
lo screpolare sui muri sgravi delle labbra.
Riconosco nelle parole le cose dove
sono ancora i tratti che parlano per noi.
Qui lei, la sorte, ritarda a partire
anzi si ferma del tutto.
Amare sarà adagiare le difese
carpire insieme lo spazio
lacrimare ogni bacio in un addio.
Non c’è divario che colmi il tempo
allora gli stendo un abbraccio nel letto.
Aspetto che consumi più lieve il suo dolore.
*
Raramente mi riduco a esitare la carezza tra generazioni
mio padre in dolore a quarant’anni
che perde l’amore di suo padre mantiene
infernale la ferita.
Noi vivi e lui nel taglio dove
tutto è interno a tutto
a cominciare dal sorriso
che portava sempre inciso anche
nelle ultime foto di famiglia.
Di notte mi fermo a prendere la carezza tra generazioni
rivedo un uomo stanco consumare
i lineamenti dell’amore
scambiare per me il dolore
in felicità.
*
Adesso è soltanto pianto che rimane sui vetri
e nella lacrima che appoggia quasi una pioggia da ascoltare.
Avrà una lunga battitura il grano.
Da dentro dove gli armadi si innalzano
ai nugoli bianchi del cielo
tutto l’intonaco crepa alla vita:
un pretesto nel resto che rimane per la sera
un riflesso nel piatto dove scarto le croste
un ricordo dove sono immerse
le nostre ultime fotografie.
Non accenna nemmeno una fiamma la candela.
Non vedrò così le ombre degli assenti
gli odori degli aromi del frutteto
nessun dolore se non dolore cieco
è notte tra gli occhi il mio sollievo.
*
Traccia tra i morti che ritornano in inverno
tra la neve e le navate, un ponte
verso il corpo. Incurvalo
nel momento in cui i ricordi si fermano
dove le strade sono piene di fila.
Rincorrili sui vetri fino ai vetri di casa
seguili ora dentro il suono dei clacson
ora nel caos delle campane.
È così cara la celebrazione che speriamo duri
e che invece stabilisce una fine
tra l’amore e il vento a venire
su dalla pianura.
*
Quanto pesa il grano del giorno
quando vedo il tuo corpo a riposo
riflesso nelle ultime luci della sera.
La notte è solo un luogo in cui fare a modo
io so per certo il tuo abitarlo
è comprensione del buio. L’oscuro
si irradia nelle vene fino
a creare un confine sul volto.
Nelle conche c’è ancora ammiccato
il residuo di un sorriso mentre
intorno è l’attacco infinito della notte.
Questo stare proibito nei corpi
questo intimare alla vita che porti
è come un presagio.
Qua l’ombra muta
si fa febbre sulla fronte e mi appartiene.
Il dolore è freddo in transizione, a distanza
si accosta sul respiro dell’alba.
La sua nella mia voce è un ricordo
che sale ogni giorno col sole. Continua a leggere
Giulia Scuro, da “Sedute in piedi”
Ventottesima ora di lavoro
Dottoressa, come le ho già più volte
detto, pur con le molte
divagazioni del caso
io sono preoccupata per il mio naso.
Ho paura che la sua sporgenza
sia uno sfoggio di esistenza
e che al vederlo chi è di fronte
pensi a lui come ad un ponte
nella mia direzione,
fatto di binari olfattivi,
alla portata dei suoi incisivi.
Dottoressa, è un delirio
o solo fervida immaginazione?
Mi rassicuri, mi comprenda,
alle prese con l’ammenda
mi sprofondo nelle suole.
Allora, andiamo con ordine:
tu mi vuoi dire che il tuo naso
è una proiezione del fallo reciso
che tua madre conserva in un vaso?
Esatto dottoressa, quanto ha ragione!
Conosce Lisabetta da Messina,
sventurata figlia del Decamerone,
i cui fratelli assassinarono l’amante in sordina?
Del suo amato la testa riposa
in un vaso sul quale ella piange
la condizione di mancata sposa.
La castrazione decapitata del suo amato
l’ha indotta ad una partenogenesi di basilico
per cui le lacrime hanno irrorato
una verdura che sul suo capo
ha attecchito da più di un lato.
Dottoressa, io sono convinta
che al suo naso la radice s’è avvinta
e questo pensiero mi ossessiona talmente
che immagino il naso come una gobba
vulnerabile ed esposta alla gente.
Il naso, ci pensi, è una bandiera
svetta sul muso con la punta altera
e con le narici ci apre la strada,
perlustrando, come una spada.
C’è chi dice “non vedervi oltre”
a significare che l’escrescenza facciale
sia dell’uomo il limite oppure una coltre.
Ma la mia espressione preferita
è sempre stata “naso di velluto”,
mi fa pensare a una stoffa brunita
sulla ferita che ingombra il ritratto
altrimenti piatto della nostra partita.
*
Il verso
Andare verso dove,
senza direzione, nel cammino
del flâneur che non si oppone
a nessuna deviazione,
anzi la propone.
Il mio passeggiare per vie storte,
in cui la salita è sempre l’unica nemica,
è molto differente
dal percorso che conduce ai nostri incontri.
È un verso in cui ha senso anche il rovescio,
ritrovo le ferite che hanno reso
tanto arduo il mio scompenso
in questa folle sfida
che è la vita,
in cui evitare la salita
compromette anche una riuscita.
Andare verso dove,
verso ogni prima volta mai risolta,
verso ogni scelta
che guardandola a ritroso
sembrava solo offerta e non recava
la ferita ancora aperta.
Andare verso dove,
verso un amore
che a ogni sorso
la sete mi pospone.
Da “Sedute in piedi” Oèdipus (2017)
Giuseppe Carracchia, da “Stanze della luce”
Il muro
«[…]
sarà questo il mistero del chiodo:
tingilo d’azzurro e piantalo nel vuoto»
Sorridere è mordere azzannare
una violenza inaudita,
è fare del male al male
dissipare quell’aria pesante
quell’aria tagliare
con un colpo di mano netto
separare il niente dal niente,
ricongiungere detto e non detto.
*
Come un cieco avanzare
come per afferrare qualcosa che era
pesante, che era presente lo giuro
qualcosa che appena colpita sfregata disfatta
non è più che aria,
ricongiunta chiarezza,
nient’altro che aria svanita:
aria di zolfo e sacrosanta presenza.
*
Non importa del buio, non importa.
Una scatola di fiammiferi in tasca
è più di un’idea che conforta,
con un colpo di mano netto
separando il niente dal niente
dando fuoco di colpo al non detto.
«Azzurro, azzurro ed oscuro
azzurro accecante
ben oltre i detriti del muro».
Venendo meno gli occhi
Un’aiuola
col recinto di legno bianco
su più livelli, e molti moltissimi fiori
dei più svariati colori,
tutti frutti del riciclo
meravigliosi, margherite
rose gigli e garofani
e ciuffi d’erba
violette ed erba vento
e altri stupendi
non ancora tassonomizzati
alieni fiori di plastica.
Ed io nuovamente commosso,
e col terrore di me stesso.
Pneumatica
«La virtù del chiodo che regge frattura
e vuoto svela la falsità del niente:
compiutezza del ragno che ha mura
e casa in aria d’un prisma lucente»
che sappiano tenere sospeso
nella mano trenta quaranta cento chili
il peso della grazia, senza tremare.
Ridi pure, è per te che mi alleno.
Per te che verrai
e vedendo queste braccia capirai.
Ma se ridi, ridi più forte
di gusto, sapendo che nel cuore della notte
capita, non sempre
ma il più delle volte,
di deporre questa parte così maschia
e di volersi nonostante
l’ostinazione di questa massa muscolare
di volersi nient’altro che rannicchiare
come si dice – a cucchiaio –
proprio così, e premere
ad esempio un dito sulla sua pelle
fingendo lo sbaglio;
sapere che in quel punto
per una ragione ben precisa,
nonostante il buio, il sangue si disperde
facendo più bianca la pelle
e poi ritorna.
Sentire che nel sonno si avvicina,
indietreggia, ti cerca.
Giuseppe Carracchia. “Stanze della luce”, Prefazione di Fabio Pusterla, Moretti&Vitali, 2022 Continua a leggere
Maria Pia Quintavalla, da “Estranea (canzone)”
1)
La sensazione del tempo che passava
nello spazio e la lisciava, la pettinava
e arava a lungo,
permase rimase, diveniva cosa,
tangibile in nuove cose, in nuova
vita – se non paura millenaria,
deflagrata e colta fino
alle piu intime essenze e parvori
– cioè vera vita.
Semplicemente senza quel foco, quella
incantevole tenera e scintilla
lei non avrebbe.
***
Oggi più soste,
per tenere e disciplinate cose
predisponevano
il padre madre, lo stuolo tutto
di possenti anime in campagna
( già laghi e campi della sua regione)
e facevano più sola,
ripauperata
la sua diseguagliata prole.
2)
Allora grida e sortilegi, spinte della
vita con le spalle chine e le finestre
chiuse laggiù nell’ombra del fiorito fiume,
che a tratti buono tutto blu
e profondo
le facevano un vuoto (monito).
Allora lei sentiva che poteva
e domenica rifarsi intatta
ricongiungere i due lembi del passato,
e due nel terzo occhio
dimoravano felici.
***
3)
Mietute cose,
di pose e viole una generazione
né dissipata, ma mietuta, osip,
era di altri ami e lontani, ma
al fine secoli qualunque accreditati
di altri linguaggi, specimen, canzoni
( gli avi: nel ’50 i figli del quaranta,
e poi i sessanta).
Ma Io tenevo a dirvi quanto udii
di altre legioni eserciti bambini,
schiere di animule fraterne e fere,
miei vicini, che assai bene
nati, bene protetti e ripagati
dalle stelle in più doni si sentirono
perdutamente stanchi e intrisi
di una storia (babelico
sofferta), stesa al sole
da un corale distratto, decorata
ormai casuale.
e splendidi sentieri, ricchi
e Introvati al novecento ottanta.
Mariapia Quintavalla, da “Estranea (canzone)” Edizioni Puntoacapo, 2022
Else Lasker-Schüler, “Il mio pianoforte blu”
An meine Freunde
Nicht die tote Ruhe –
Bin nach einer stillen Nacht schon ausgeruht.
O ich atme Geschlafenes aus,
Den Mond noch wiegend
Zwischen meinen Lippen.
Nicht den Todesschlaf,
Schon im Gespräch mit euch
– himmlisch Konzert –
Ruhe ich aus ….
Und neu’ Leben anstimmt
In meinem Herzen.
Nicht der Ueberlebenden schwarzer Schritt!
Zertritt den Schlummer, zersplittert den Morgen.
Hinter Wolken verschleierte Sterne
Ueber Mittag versteckt ….
So immer neu uns finden.
In meinem Elternhause nun
Wohnt der Engel Gabriel.
O ich möchte mit euch dort
Selige Ruhe in einem Fest feiern:
Sich die Liebe mischt mit unserm Wort.
Aus mannigfaltigem Abschied
Steigen aneinander geschmiegt die goldenen Staubfäden,
Und nicht ein Tag ungesüsst bleibt
Zwischen wehmütigem Kuss
Und Wiedersehn!
Nicht die tote Ruhe,
So ich liebe im Odem sein;
Auf Erden mit euch im Himmel schon
Allfarbig malen auf blauem Grund –
Das ewige Leben.
Ai miei amici
«Non la morta quiete –
Son già riposata dopo una placida notte.
Oh, espiro il soffio del sonno,
Mentre ancora cullo la luna
Tra le mie labbra.
Non il sonno della morte –
Già discuto con voi
Celestiale concerto…
E prorompe di nuovo la vita
Nel mio cuore.
Non il nero passo dei sopravvissuti!
Sonni calpestati frantumano il mattino.
Stelle coperte da un velo di nubi
Nascoste al mezzogiorno –
Ritrovarci così ancora e ancora.
Nella casa dei miei genitori
Abita ora l’angelo Gabriele…
Vorrei proprio celebrare lì con voi
In una festa la beata quiete –
Si mischia l’amore con la nostra parola.
Dal molteplice addio
salgono stretti l’un l’altro i filamenti dorati,
E non c’è giorno che non sia dolce
Tra il bacio melanconico
E il rivedersi!
Non la morta quiete –
Così amo essere nell’alito divino…!
Sulla terra con voi già in cielo.
Dipingere di mille colori su sfondo blu
La vita eterna!».
Else Lasker-Schüler, da “Il mio pianoforte blu”, Traduzione a cura di Michele Giardoni, Edizioni FT FinisTerrae, 2022
Centenario della nascita di Giorgio Manganelli
Giorgio Manganelli narratore, critico, giornalista, saggista. Demistificatore, visionario. Mai solo ed esclusivamente scrittore. Scrittore della scrittura. Scrittore della menzogna della letteratura. «Buffone», come ogni scrittore che sceglie «in primo luogo di essere inutile».
Nato a Milano nel 1922, quello di Manganelli, scomparso a Roma nel 1990, fu come un «ricatto dalle parole», come egli stesso lo definì in Laboriose inezie (1986), un’immersione completa nella letteratura, un mondo di segni costruito come un gioco geometrico di ripetizioni. Un entretien erudito, un io autobiografico mentre si costruisce e distrugge nelle combinazioni. Quasi a scrivere sempre lo stesso libro, fin dal 1964, anno in cui uscì nella collana I narratori di Feltrinelli la sua prima opera, Hilarotragoedia. Dalla gestazione complessa, come la storia delle sue numerose edizioni: in origine un piccolo quaderno di appunti su volere dello psicoanalista Ernst Bernhard, poi due edizioni per Feltrinelli e in ultimo la ristampa per Adelphi nel 1987.
Libro e non romanzo, “trattatello” e non storia, come era nello spirito delle tesi del Gruppo 63 a cui Manganelli partecipò, dove il romanzo provocava “ripugnanza” e “fastidio”.
Cos’è dunque questa prima opera che segnò l’esordio letterario di un uomo di 40 anni? In qualche modo un’autobiografia, un viaggio negli inferi per la «natura discenditiva» dell’uomo, per l’eredità «sciamanica» della letteratura che ha a che fare con gli spiriti, con l’Ade — «Dall’infima cima sporgiti, abbandónati al tuo precipizio. Sii fedele alla tua discesa, homo. Amico». Da un’origine sicuramente psicologica, il materiale di quest’opera risale agli anni milanesi dal 1947 al 1949, anni in cui Manganelli, come Alda Merini, conobbe la “tragedia” della malattia mentale e della follia.
Song for Wole
Giovedì 10 novembre, ore 19:30 – Laboratorio Formentini – Milano
Song for Wole
a cura di Roberto Mussapi
Per Wole Soyinka, il grande scrittore nigeriano, drammaturgo, poeta, romanziere, saggista, primo africano a vincere il Premio Nobel per la letteratura.
Mussapi, che conosce Soyinka dal 1882, due anni prima del Premio Nobel, e che con lui ha scoperto affinità elettive e amicizia, reciterà il Song for Wole, omaggio al suo amico e Maestro. Omaggio a una delle voci che il poeta italiano considera tra le più importanti del nostro tempo.
“Ora dimenticate i morti.
Dimenticate anche i vivi.
Rivolgete la vostra mente solo al nascituro.”
Wole Soyinka
Mariagiorgia Ulbar, da “Hotel Aster”
1
Sulle strade, alla mia destra, vedevo sempre macchie di sporcizia.
Tornando a casa di notte le vedevo nella direzione laterale del mio sguardo: questo mi ricordavo più tardi, muovendomi per le poche stanze per molto tempo, nel lungo tempo impossibile da narrare che intercorreva tra il mio essere coperta da vestiti e la svestizione. Guardavo il mio corpo e le espressioni in ogni superficie specchian- te che li ritraesse a un mio passaggio casuale e in segui- to ragionavo. Sono sola, registrata pedissequamente da un occhio esterno, estraneo, non so se di telecamera, di uomo o di padre. Ho accumulato storie, le ho sgranate: una contentezza repentina e convulsa mi coglie al pensie- ro del numero: non le racconterò, ma sono in grado di enumerarle.
Da qualche tempo vado raccogliendo una selezione di meraviglie: gocce di vetro soffiato turco, una fibula proveniente da una necropoli del VI secolo a.C., una gabbia per uccelli di legno, due piume, fotografie in bianco e nero di gente morta, portasigarette con iniziali incise, la zampa tagliata di un collo di volpe, caratteri tipografici in piombo, carbon fossile. Ho raccolto tutto nella mia stanza: saltuariamente la attraverso fingendo di essere un’estranea e una buona osservatrice e passo in rassegna gli oggetti per procurarmi stupore.
Tuttora ogni pomeriggio mi stendo sul letto o sul divano per traverso e con le mani mi aggrappo alla stoffa dei pantaloni o delle calze vicina all’inguine, il tessuto si tende e preme nel punto che conosco da vent’anni, quello che inizialmente faceva nascere e crescere un verme che fuggendo fuori mi dava una scossa elettrica e che adesso fa nascere un’onda calda e breve che mi conserva calma e senza testa per alcuni minuti.
Lo ripeto più di una volta.
La ripetizione è un concetto che genera sentimenti di superiorità in chi ascolta, che riterrà di aver colto l’ora- tore in fallo o distrazione: debolezza oppure incertezza, poca conoscenza della retorica, troppa indulgenza verso se stessi, povertà.
Io avevo sposato la ripetizione, certa che, presa in considerazione scientemente, conteggiata, avrebbe fatto affiorare le intenzioni inconsce.
2
Non amavo sentire pronunciare frasi come
torno a casa e mi infilo nel letto, è ora di andare a dormire,
vado in branda,
ho ore di sonno arretrate.
Avevano attinenza con la morte,
rifiuto l’idea del bisogno, ma soprattutto rifiuto l’idea del
dovere o volere cedere a quel bisogno.
Il sonno non mi appartiene o
mi appartiene quanto la morte,
come termine che allude alla rovina o a una liberazione
dal sapore orgonico.
*
Il senso di non appartenenza non ha a che fare con la disaffezione. Sono divisa, spaccata, e la spaccatura mi conduce sul filo rosso di una lunga serie di giorni che chiamerò la mia esistenza.
*
Sul confine tra il fastidio e il piacere ho fatto proliferare le mie più fervide convinzioni.
*
Un uomo possedeva un bel fucile con cui uccideva begli animali.
Io amavo il fucile e gli animali.
Disdegnavo l’atto che mette in relazione il primo con i secondi, ma era la natura sporca di quell’atto che mi componeva.
*
Non posso fare a meno di concentrarmi su tutti gli elementi che formano una giornata, non posso distrarmi, devo descrivere tutto ciò che accade. Non apro la bocca per darle voce, ma la descrizione di ciò che vedo deve essere portata avanti sistematicamente. C’è una finestra io guardo la finestra sento dei rumori dovrebbero essere macchine che lavorano in un cantiere più tardi dovrei uscire ho corso corro le scarpe si muovono c’è una pozzanghera bagnata l’acqua mi bagna le scarpe un uomo sulla panchina ha un oggetto in mano non capisco che oggetto sia è la seconda volta che passo di qui starà pensando che è la seconda volta che passo di qui il ginocchio mi fa male sono trascorsi ventisette minuti vado verso casa c’è il sole sono arrivata devo stirare i muscoli salgo le scale il pavimento delle scale è macchiato di scuro entro in casa ora devo pranzare e scrivo due righe e adesso mi alzo e vado in bagno e ora faccio un caffè nel frattempo lavo sarà il tempo giusto del caffè che sale poi sono pronta quando è salito le scarpe devono asciugarsi devo comprare biglietti
il tempo non basta
*
Didascalie, e figurarsi sentimenti alti, avvenimenti eccelsi, cercare. Cerco come un cercatore d’oro, setaccio, ma l’esaltazione mi abbandona presto. Visualizzo una topografia costituita da paesi intermedi di colline e terrapieni e una popolazione che si dirada.
*
Ci fu un’epoca, a un certo punto, in cui ogni picco o abisso iniziò a sembrarmi raggiungibile, possibile, normato, e presi ad amare il sonno.
da “Hotel Aster”, Mariagiorgia Ulbar, Amos Edizioni, 2022
Andrea Milano, da “Paesaggio con figura verticale”
L’arrivo della salma
Nel Trattato Universale di Diritto al Dolore
non c’è posto, faccio un passo indietro,
lascio spazio a chi ne ha più diritto.
In questa gara d’appalto
ci sono costruttori migliori
che hanno alzato al cielo
ricordi più solidi,
sguardi più forti,
travi portanti.
Io sfoglio bulimico il codice
del Diritto Privato. Qua dentro
cerco cose che non ti ho dato,
tutti i me che non sono stato.
Perché bisogna cedere alla vita, bisogna
arrischiare le scelte, bisogna – mi dico.
Mi travolge il fiume del tuo corteo.
Ogni Diritto mi è stato negato.
Visioni
Sogno spesso di diventare l’intonaco
di un palazzo mezzo addormentato
che spio dal vetro del treno.
A volte sono il riflesso che investe
i complessi industriali in rovina
e i finestroni dei concessionari.
Io temo queste piccole visioni
e mi stringo forte alla veglia;
poi il treno giunge al capolinea.
Allora esco dalle stazioni
pieno di vita
e mi squaderna il passeggio feroce
delle ragazze incinte sulla Tiburtina.
Esoscheletro
In rare stagioni di quiete
la città si rigenera all’interno
e abbandona il suo esoscheletro.
Gli antichi edifici
tramutano in enormi cattedrali
d’aria e tutto somiglia a un ricordo.
Persino gli abitanti
vanno in cerca di un angolo oscuro
in cui fare la muta. Intanto
trascinano sul lungotevere
la loro carcassa, come larve
sbranate dalla resurrezione. Continua a leggere
A Roma la conferenza stampa del Premio Strega Poesia
Il 26 ottobre 2022, alle ore 11.30, nasce il Premio Strega Poesia
Dopo lo Strega Europeo, lo Strega Giovani e lo Strega Ragazze e ragazzi arriva un premio dedicato alla valorizzazione dei poeti troppo spesso trascurati dai media, dai lettori e talvolta anche dalla critica, ma che stanno guadagnando sempre più spazio sui social grazie agli instapoet e ad altri fenomeni.
Il Premio Strega continua così quell’operazione di allargamento dei suoi orizzonti voluta dal linguista Tullio De Mauro, a lungo presidente della Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e del Comitato direttivo del Premio Strega, che ha cercato di portare il Premio sempre più vicino ai lettori e ai ragazzi delle scuole di tutti gli ordini proprio attraverso il ‘Premio Strega Giovani’ e il ‘Premio Strega Ragazze e Ragazzi’.
Un’eredità portata avanti e rilanciata ora dall’attuale presidente Giovanni Solimine e dal direttore Stefano Petrocchi con il Premio Strega Poesia, il cui regolamento e caratteristiche verranno svelate nella conferenza stampa di domani a Roma.
Lorenzo Pataro, da “Amuleti”
La testa sul cuscino, un sasso
nello stagno a sprofondare, nella stanza
si propagano i pensieri come cerchi
e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta
la ferita che mi buca la corteccia.
*
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.
*
Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo
del riccio di castagna ad accogliere
il respiro dei dispersi nella luce,
le mani-radici nella terra, i palmi-catini
colmi d’acqua, la fronte che è un viale
in attesa delle foglie. Quanti corpi
attraversiamo, in quante forme migriamo
braccati come lupi nella notte.
*
I morti accatastati come legna
nelle tombe, polvere di semina,
le ossa a brillare accese dai lumini,
i falchi-guardiani a sorvegliare
il loro sonno primordiale.
I morti sono i tarli della neve.
*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro. Continua a leggere
Lo yiddish, una lingua mai scomparsa
Lingua, cultura e poesia yiddish, testimoni dell’ebraismo in Europa
di Roberto Malini
«Lo yiddish non ha ancora detto la sua ultima parola. Contiene tesori che non sono stati ancora rivelati agli occhi del mondo. Era la lingua dei martiri e dei santi, dei sognatori e dei cabalisti, ricca di umorismo e ricordi che l’umanità non dimenticherà mai. In senso figurato, lo yiddish è il linguaggio saggio e umile di tutti noi, l’idioma dell’umanità sospesa fra paura e speranza».
Isaac Bashevis Singer, dal Discorso per il Premio Nobel, 8 dicembre 1978
(traduzione di Roberto Malini)
Vi è chi afferma, anche fra gli studiosi, che lo yiddish (in ebraico: ייִדִישׁ), sia una lingua morta. È un’opinione maturata in base alla constatazione delle distruzioni e dagli stermini avvenuti durante la Shoah – in cui almeno sei milioni di ebrei e la loro cultura furono quasi annientati – e le purghe staliniane. In quelle immani catastrofi lo yiddish, lingua degli ebrei orientali, patrimonio vernacolare dei poveri fino alla fine del XIX secolo, quando fiorì la sua grande letteratura, si avvicinò al baratro dell’estinzione. Ma sopravvisse. Lo yiddish, scritto nei caratteri dell’alfabeto ebraico, ha radici nella cultura degli ebrei aschenaziti provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrionale, che nel X secolo si stabilirono nella valle del Reno.
La loro tradizione si diffuse ampiamente nell’Europa centrale e orientale, tanto che all’alba della Prima guerra mondiale lo yiddish era parlato da circa undici milioni di ebrei.
Le persecuzioni del XIV secolo costrinsero numerose comunità ebraiche a spostarsi ancora più a est, nelle aree che oggi fanno parte della Polonia e della Lituania, originando quello che oggi definiamo come yiddish orientale, in cui si avvertono influenze delle lingue slave.
All’inizio del XIX secolo la migrazione degli ebrei verso gli Stati Uniti condusse la lingua yiddish a stretto contatto con la cultura anglofona.
Nella seconda metà del secolo fu pubblicata la prima grammatica yiddish.
Prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, molte comunità ebraiche che parlavano yiddish raggiunsero la Palestina, terra in cui sarebbe sorto lo Stato di Israele.
Lì la “lingua madre” fu a lungo in ballottaggio con l’ebraico come possibile lingua nazionale.
Prima dell’avvento del nazionalsocialismo, delle leggi razziali e dell’Olocausto, almeno due terzi della popolazione ebraica mondiale parlavano yiddish.
Dall’XII al XVIII secolo la letteratura in quella lingua comprendeva soprattutto commentari religiosi e pochi testi di narrativa.
Dalla fine del XVIII secolo, per altri cento anni i racconti chassidici e le storie di Nachman di Breslov dominarono la letteratura yiddish.
Tuttavia, dal 1864, apparve l’opera di Mendele Moicher Sforim (Kopyl,1836 – Odessa, 1917), considerato il padre della letteratura yiddish moderna insieme a Sholem Aleichem (Perejaslavl, 1859 – New York, 1916) e Isacco Leyb Peretz (Zamość, 1852 – Varsavia, 1915).
L’opera di Sholem Aleichem in particolare ebbe una straordinaria diffusione, non solo nel mondo ebraico, divulgando attraverso romanzi e racconti la vita delle comunità yiddish nei piccoli centri dell’Europa dell’est, promuovendo una visione a volte idealizzata dello shtetl, il villaggio ebraico.
Gli shtetl dell’Europa orientale, in realtà, erano insediamenti in cui l’autorità costituita relegava le comunità ebraiche, ai margini delle città. Essi divennero tuttavia il simbolo stesso della vita degli ebrei aschenaziti, discendenti dalle prime comunità ebraiche stanziatesi nella valle del Reno in epoca medievale. «Si può portare un ebreo fuori dallo shtetl – scrisse Sholem Aleichem – ma non si può portare lo shtetl fuori da un ebreo».
Fra i numerosi rappresentanti della letteratura yiddish moderna è importante ricordare Itzhak Katznelson (Karėličy, 1886 – Auschwitz, 1944), Kadye Molodowsky (Bjaroza, 1894 – Filadelfia, 1975), Isaac Bashevis Singer (Leoncin, 1903 – Miami, 1991), che nel 1978 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura, Yehiel De-Nur (Sosnowiec, 1909 – Tel Aviv, 2001) e Abraham Sutzkever (Smarhon’, 1913 – Tel Aviv, 2010).
Katzenelson e Sutzkever sono considerati fra i più grandi poeti dell’Olocausto.
Anche il pittore Marc Chagall (Lëzna, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985) scrisse poesie in yiddish, mentre l’artista Jacob Vassover (Łódź, 1926 – Tel Aviv, 2008) ebbe il merito di rappresentare in una notevole serie di dipinti a olio (di cui un nucleo consistente e significativo è conservato presso il Thesaurus Memoriae della Cittadella della musica concentrazionaria di Barletta) la vita negli shtetl, sia per osservazione diretta, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sia a rappresentazione dell’immaginario tratto dai romanzi e dai racconti di Sholem Aleichem.
Quando ci si avvicina alla storia dello yiddish, è inevitabile chiedersi quante persone lo parlino ancora oggi, dopo lo sterminio degli ebrei in Europa e la scelta dell’ebraico quale lingua nazionale di Israele.
È innegabile che lingua e letteratura yiddish abbiano vissuto, dopo la Seconda guerra mondiale, una vera e propria rinascita, promossa dai suoi grandi autori.
Attualmente vi è un numero di persone che parlano yiddish compreso fra seicentomila e un milione, di cui almeno il settantacinque per cento è suddiviso equamente fra Israele e Stati Uniti.
Abraham (Avrom) Sutzkever
Sotto le tue bianche stelle
(trad. Roberto Malini)
Sotto le tue bianche stelle
tendimi la tua mano bianca.
Ogni mia parola è una lacrima
che chiede pace fra le tue dita.
Guarda, si sta facendo buio
nel mio sguardo che l’ombra chiude.
E non ho alcun luogo
dove restituirtelo.
Tuttavia, Dio indulgente,
ti affido ogni mio bene,
perché un fuoco arde in me
e nel fuoco i miei giorni.
Solo al chiuso, nell’ombra
si lamenta la pace che uccide.
Volo in alto, più in alto,
cercandoti: dove trovarti?
Mi braccano incredibili
scale e mucchi di stracci.
Li unisco in una corda logora
e ti canto così:
Sotto le tue bianche stelle
tendimi la tua mano bianca.
Ogni mia parola è una lacrima
che chiede pace fra le tue dita.
אונטער דײַנע ווײַסע שטערן
אונטער דײַנע ווײַסע שטערן
שטרעק צו מיר בײַן װײַסע האַנט.
מײַנע װערטער זײַנען טרערן
װילן רוען אין דײַן האַנט.
זע, אעס טונקלט וײער פֿינקל
אין מײַן קעלערדיקן בליק
און איך האָב גאָרניט קײן װינקל
זײ צו שענקען דיר צוריק.
און איך װיל דאָך, ג-ט, געטרײַער,
דיר פֿאַרטרױען מײַן פֿאַרמעג.
װײַל אעס מאָנט אין מיר אַ פֿײַר
און אין פֿײַער מײַנע טעג.
נאָר אין קעלער און אין לעחער
װײנט די מערדערישע רו.
לױפֿ איך העחער – איבער דעחער
און איך זוך: װוּ ביסטו, װוּ?
נעמען יאָגן מי משונה
טרעפ און הױפֿן – מיט געװױ.
הענג איך אַ געפלאַצטע סטרונע
אין איך זינג צו דיר אַזױ:
אונטער דײַנע ווײַסע שטערן
שטרעק צו מיר בײַן װײַסע האַנט.
מײַנע װערטער זײַנען טרערן
װילן רוען אין דײַן האַנט.