A Roma la conferenza stampa del Premio Strega Poesia

Il 26 ottobre 2022, alle ore 11.30, nasce il Premio Strega Poesia

 Dopo lo Strega Europeo, lo Strega Giovani e lo Strega Ragazze e ragazzi arriva un premio dedicato alla valorizzazione dei poeti troppo spesso trascurati dai media, dai lettori e talvolta anche dalla critica, ma che stanno guadagnando sempre più spazio sui social grazie agli instapoet e ad altri fenomeni.

Il Premio Strega continua così quell’operazione di allargamento dei suoi orizzonti voluta dal linguista Tullio De Mauro, a lungo presidente della Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e del Comitato direttivo del Premio Strega, che ha cercato di portare il Premio sempre più vicino ai lettori e ai ragazzi delle scuole di tutti gli ordini proprio attraverso il ‘Premio Strega Giovani’ e il ‘Premio Strega Ragazze e Ragazzi’.

Un’eredità portata avanti e rilanciata ora dall’attuale presidente Giovanni Solimine e dal direttore Stefano Petrocchi con il Premio Strega Poesia, il cui regolamento e caratteristiche verranno svelate nella conferenza stampa di domani a Roma.

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Lorenzo Pataro, da “Amuleti”

Lorenzo Pataro

La testa sul cuscino, un sasso
nello stagno a sprofondare, nella stanza
si propagano i pensieri come cerchi
e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta
la ferita che mi buca la corteccia.

*
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.

*

Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo
del riccio di castagna ad accogliere
il respiro dei dispersi nella luce,
le mani-radici nella terra, i palmi-catini
colmi d’acqua, la fronte che è un viale
in attesa delle foglie. Quanti corpi
attraversiamo, in quante forme migriamo
braccati come lupi nella notte.

*
I morti accatastati come legna
nelle tombe, polvere di semina,
le ossa a brillare accese dai lumini,
i falchi-guardiani a sorvegliare
il loro sonno primordiale.
I morti sono i tarli della neve.

*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro. Continua a leggere

Lo yiddish, una lingua mai scomparsa

Lingua, cultura e poesia yiddish, testimoni dell’ebraismo in Europa

di Roberto Malini

«Lo yiddish non ha ancora detto la sua ultima parola. Contiene tesori che non sono stati ancora rivelati agli occhi del mondo. Era la lingua dei martiri e dei santi, dei sognatori e dei cabalisti, ricca di umorismo e ricordi che l’umanità non dimenticherà mai. In senso figurato, lo yiddish è il linguaggio saggio e umile di tutti noi, l’idioma dell’umanità sospesa fra paura e speranza».

Isaac Bashevis Singer, dal Discorso per il Premio Nobel, 8 dicembre 1978

(traduzione di Roberto Malini)

Vi è chi afferma, anche fra gli studiosi, che lo yiddish (in ebraico: ייִדִישׁ), sia una lingua morta. È un’opinione maturata in base alla constatazione delle distruzioni e dagli stermini avvenuti durante la Shoah – in cui almeno sei milioni di ebrei e la loro cultura furono quasi annientati – e le purghe staliniane. In quelle immani catastrofi lo yiddish, lingua degli ebrei orientali, patrimonio vernacolare dei poveri fino alla fine del XIX secolo, quando fiorì la sua grande letteratura, si avvicinò al baratro dell’estinzione. Ma sopravvisse. Lo yiddish, scritto nei caratteri dell’alfabeto ebraico, ha radici nella cultura degli ebrei aschenaziti provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrionale, che nel X secolo si stabilirono nella valle del Reno.

La loro tradizione si diffuse ampiamente nell’Europa centrale e orientale, tanto che all’alba della Prima guerra mondiale lo yiddish era parlato da circa undici milioni di ebrei.

Le persecuzioni del XIV secolo costrinsero numerose comunità ebraiche a spostarsi ancora più a est, nelle aree che oggi fanno parte della Polonia e della Lituania, originando quello che oggi definiamo come yiddish orientale, in cui si avvertono influenze delle lingue slave.

All’inizio del XIX secolo la migrazione degli ebrei verso gli Stati Uniti condusse la lingua yiddish a stretto contatto con la cultura anglofona.
Nella seconda metà del secolo fu pubblicata la prima grammatica yiddish.

Prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, molte comunità ebraiche che parlavano yiddish raggiunsero la Palestina, terra in cui sarebbe sorto lo Stato di Israele.

Lì la “lingua madre” fu a lungo in ballottaggio con l’ebraico come possibile lingua nazionale.

Prima dell’avvento del nazionalsocialismo, delle leggi razziali e dell’Olocausto, almeno due terzi della popolazione ebraica mondiale parlavano yiddish.

Dall’XII al XVIII secolo la letteratura in quella lingua comprendeva soprattutto commentari religiosi e pochi testi di narrativa.

Dalla fine del XVIII secolo, per altri cento anni i racconti chassidici e le storie di Nachman di Breslov dominarono la letteratura yiddish.

Tuttavia, dal 1864, apparve l’opera di Mendele Moicher Sforim (Kopyl,1836 – Odessa, 1917), considerato il padre della letteratura yiddish moderna insieme a Sholem Aleichem (Perejaslavl, 1859 – New York, 1916) e Isacco Leyb Peretz (Zamość, 1852 – Varsavia, 1915).

L’opera di Sholem Aleichem in particolare ebbe una straordinaria diffusione, non solo nel mondo ebraico, divulgando attraverso romanzi e racconti la vita delle comunità yiddish nei piccoli centri dell’Europa dell’est, promuovendo una visione a volte idealizzata dello shtetl, il villaggio ebraico.

Gli shtetl dell’Europa orientale, in realtà, erano insediamenti in cui l’autorità costituita relegava le comunità ebraiche, ai margini delle città. Essi divennero tuttavia il simbolo stesso della vita degli ebrei aschenaziti, discendenti dalle prime comunità ebraiche stanziatesi nella valle del Reno in epoca medievale. «Si può portare un ebreo fuori dallo shtetl – scrisse Sholem Aleichem – ma non si può portare lo shtetl fuori da un ebreo».

Fra i numerosi rappresentanti della letteratura yiddish moderna è importante ricordare Itzhak Katznelson (Karėličy, 1886 – Auschwitz, 1944), Kadye Molodowsky (Bjaroza, 1894 – Filadelfia, 1975), Isaac Bashevis Singer (Leoncin, 1903 – Miami, 1991), che nel 1978 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura, Yehiel De-Nur (Sosnowiec, 1909 – Tel Aviv, 2001) e Abraham Sutzkever (Smarhon’, 1913 – Tel Aviv, 2010).

Katzenelson e Sutzkever sono considerati fra i più grandi poeti dell’Olocausto.

Anche il pittore Marc Chagall (Lëzna, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985) scrisse poesie in yiddish, mentre l’artista Jacob Vassover (Łódź, 1926 – Tel Aviv, 2008) ebbe il merito di rappresentare in una notevole serie di dipinti a olio (di cui un nucleo consistente e significativo è conservato presso il Thesaurus Memoriae della Cittadella della musica concentrazionaria di Barletta) la vita negli shtetl, sia per osservazione diretta, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sia a rappresentazione dell’immaginario tratto dai romanzi e dai racconti di Sholem Aleichem.

Quando ci si avvicina alla storia dello yiddish, è inevitabile chiedersi quante persone lo parlino ancora oggi, dopo lo sterminio degli ebrei in Europa e la scelta dell’ebraico quale lingua nazionale di Israele.

È innegabile che lingua e letteratura yiddish abbiano vissuto, dopo la Seconda guerra mondiale, una vera e propria rinascita, promossa dai suoi grandi autori.

Attualmente vi è un numero di persone che parlano yiddish compreso fra seicentomila e un milione, di cui almeno il settantacinque per cento è suddiviso equamente fra Israele e Stati Uniti.

Abraham (Avrom) Sutzkever

Sotto le tue bianche stelle
(trad. Roberto Malini)

 

Sotto le tue bianche stelle

tendimi la tua mano bianca.
Ogni mia parola è una lacrima
che chiede pace fra le tue dita.
Guarda, si sta facendo buio
nel mio sguardo che l’ombra chiude.
E non ho alcun luogo
dove restituirtelo.

Tuttavia, Dio indulgente,
ti affido ogni mio bene,
perché un fuoco arde in me
e nel fuoco i miei giorni.
Solo al chiuso, nell’ombra
si lamenta la pace che uccide.
Volo in alto, più in alto,
cercandoti: dove trovarti?

Mi braccano incredibili
scale e mucchi di stracci.
Li unisco in una corda logora
e ti canto così:
Sotto le tue bianche stelle
tendimi la tua mano bianca.
Ogni mia parola è una lacrima
che chiede pace fra le tue dita.

 

 


אונטער דײַנע ווײַסע שטערן

 

אונטער דײַנע ווײַסע שטערן
שטרעק צו מיר בײַן װײַסע האַנט.
מײַנע װערטער זײַנען טרערן
װילן רוען אין דײַן האַנט.
זע, אעס טונקלט וײער פֿינקל
אין מײַן קעלערדיקן בליק
און איך האָב גאָרניט קײן װינקל
זײ צו שענקען דיר צוריק.

און איך װיל דאָך, ג-ט, געטרײַער,
דיר פֿאַרטרױען מײַן פֿאַרמעג.
װײַל אעס מאָנט אין מיר אַ פֿײַר
און אין פֿײַער מײַנע טעג.
נאָר אין קעלער און אין לעחער
װײנט די מערדערישע רו.
לױפֿ איך העחער – איבער דעחער
און איך זוך: װוּ ביסטו, װוּ?

נעמען יאָגן מי משונה
טרעפ און הױפֿן – מיט געװױ.
הענג איך אַ געפלאַצטע סטרונע
אין איך זינג צו דיר אַזױ:
אונטער דײַנע ווײַסע שטערן
שטרעק צו מיר בײַן װײַסע האַנט.
מײַנע װערטער זײַנען טרערן
װילן רוען אין דײַן האַנט.

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Thierry Metz, la solitudine della poesia

Thierry Metz

Vecchia orsa minore
vieni a vedere:
sorge un giardino
nel respiro dell’albero
è questo il luogo
dove uomo e uccello
si meravigliano

*

Chiedi lassù al vegliante
sul ramo
fra le lucciole
nella brace delle parole
nel quasi nulla di scrivere
lui sa, lui che indugia
che l’oggi
dorsale di un altrove
non ha altro orizzonte che la lingua
dove il lampo si denuda

*

Dov’è il fratello alchemico
uomo della prima
dell’ultima cena
dalla voce scarlatta, lieto
nell’avvampare delle mani
sulla tavola inventata
il volto in fiamme
come un’alba
come acqua
che si ritira meravigliata
come una notte
che si consuma
in oscura creta
il volto
come un uccello semplificato

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Premio Internazionale di Poesia civile di Taranto. A Angelo Lippo, il Premio alla memoria

Angelo Lippo

Le icone non escono più a passeggio

I bambini vestiti a repertorio
all’assalto dei carretti di noccioline
e dei palloni che finiscono sempre nell’aria.
La gente che modula il passo
nella calca dei saluti e degli abbracci
mentre la musica spazza alta le case.
Un tempo al mio paese
le icone uscivano più spesso a passeggio.
Questi nostri occhi tumefatti
non sono buoni a lanciare preghiere.


Il Sud ribaltato

Dipingere di nero
le facciate delle case
del mio Sud è una voglia
che mi scoppia dentro

per scacciare l’orgia
consumistica dei mattini
lattiginosi e delle foglie

di fresca lattuga nell’orto.

per mettere la parola fine
alle luci che riverberano
sulle marine battute dallo scirocco.

Dipingere di bianco
le gramaglie delle bigotte
che recitano il futuro
tra una preghiera e una gravidanza.

Dipingere di libertà
le spalle abbronzate dei contadini
è un male che m’inchioda
alla terra e mi fa sanguinare.

Per dipingerlo così, il mio Sud,
Storia:
la mia vita ti cedo.

*

Se il sudore lasciato sulle zolle
non sarà stato inutile.

Se la fame urlata nel tempo
una spiga di grano avrà placato

Se l’acqua degli asettici rubinetti
avrà scacciato il pericolo del morbo.

Se i bambini a scuola non avranno
soltanto imparato a leggere e a scrivere

Se i treni non saranno
partiti per non più ritornare

Se questo un giorno accadrà
anche la morte avrà il sapore della fragola
colta di primo mattino
e gli occhi di una fanciulla innamorata.

*

A un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
mi sono giocato
il folclore che tutti amano
per inchiodare le colpe
le responsabilità consumate
nel tumultuare dei secoli
passati infruttuosi
come le aride zolle
sulle quali fu vegetato
creando a priori il deserto.

Ad un tavolo verde
di una qualsiasi bisca
ti ho barattato folclore
in nome di miei figli
in nome dei miei nipoti.

*

Ho morti d’avanzo da lasciare
a testamento della mia sofferenza,
ma il difficile è ripetere qui
i nomi altisonanti o plebei
che la Cronaca ci onorò di darmi.

Ho morti d’avanzo che non sanno
acquietarsi nelle tombe troppo
strette per reprimere l’angoscia
che Qualcuno mi assegnò.

Ho morti d’avanzo da regalare
in confezioni dono – nastro rosso fuoco-
ai Politici che in vita di solitudine
e di abbandono mi coprirono.

Ho morti d’avanzo per tutti.

Classe 1939

La mia è una generazione di traditi.
La storia ci ha delusi come uomini
nutrendoci l’infanzia di paure e sgomenti
che non sapevamo e potevamo spiegarci,
né dopo, abbiamo compreso l’Urlo
disperato / gioioso della Liberazione.
Poi, paghi di corse al sole,
c’invase il raptus del benessere,
e ancora una volta ci trovò impreparati
e già vecchi il rumore del Sessantotto.
Non lasciarsi morire
da utili idioti
ora è l’ultima trincea possibile.

L’ostinato orgoglio della verità

Dopo quarant’anni d’inerzia
finalmente c’è chi scuote la mia gente
che non respira più
per paura di morire.
Il cielo plumbeo si è affrettato
a decimare le residue forze.
Eppure Dio non umilia mai
il suo popolo nelle fauci dell’oblio.
Tutti tacquero nell’ingordigia
del tintinnio del vitello d’oro,
senza accorgersi che greggi
morivano nei prati
o venivano abbattuti
dalla mano dell’inciviltà.
Forse erano uomini da piegare
al vento della discriminazione,
anche se nei loro cuori battevano
orgogliosi i segni di un tempo.
Così, dall’alto ci fu chi
pensò che bastava ignorarli.
Nessuno s’accorse
o peggio finse –
che un bambino
troppi bambini –
potessero essere uccisi
dal fumo delle ciminiere.

A turno mentivano e tarpavano le ali
lanciando il coltello del ricatto.
Ma un giorno
venne fuori il coraggio
l’ostinato orgoglio della verità
e si troncò il turpe mercato.
E fu la svolta della Storia.

Angelo Lippo, “LE RADICI NEL CIELO – ANTOLOGIA POETICA (1963-2011)”, Bertoni Editore, 2021. Continua a leggere

Pietro Romano, “Feriti dall’acqua”

Pietro Romano

Luce di dentro, soglia inesausta del passo.
mi vedo oltre il sentore che a ogni varco o stanza,
come guardi, io per voi ancora non sia:
come addentro uno sguardo coagulato
su un corpo che muore.

*

Era il riverbero degli anni
fingere una luce ferma, sequenze
di istanti nel riflesso
di un forse che anneriva le palpebre:
la polvere è sacra.

*

Ha la forma dell’altrove, la voce:
adombra le parole, rendi al fuoco
la vita che ti separa dal canto.

*

Consonanze, figure mute, notti:
tutto si oscura per riavere voce.

Nelle stanze si raccolgono le acque
di uno sguardo vegliante senza casa.

Pietro Romano, “Feriti dall’acqua, peQuod 2022. Continua a leggere

Silvio Raffo e la poesia femminile del Novecento

Dalla prefazione
di Silvio Raffo

 

“In corrispondenza con la crisi del Positivismo, movimento “maschile” per eccellenza, si assiste – dal Decadentismo in avanti – al potenziamento, più o meno conscio, in tutte le espressioni artistiche, dell’elemento “femminile”.

L’intimismo, la sensitività, il misticismo, e quel peculiare gusto estetico che induce l’anima (più che l’animo) a soffermarsi sulle sfumature più sfuggenti e su tutte le (im)percettibili manifestazioni del mistero – ciò che, insomma, certuni amano chiamare “il lato oscuro della luna” – sono queste qualità, eminentemente femminili, ha caratterizzare marcatamente la poesia del nostro secolo: una poesia tutta lampi, illuminazioni timori e tremori, spesso ripiegata su se stessa e rivolta agli strati più nascosti dell’io, a quel mondo dell’inconscio che Freud denomina appunto ambiguamente “il Regno delle streghe”.

(…)

I 25 ritratti che si susseguono in queste pagine e il caleidoscopio che le suggella sono altrettanti specchi in cui si riflette finalmente senza veli, pur mantenendo un suo fascinoso alone, il plenilunio della poesia femminile che è stato offuscato per secoli dalle ombre del pregiudizio, del conformismo, dell’incomprensione (o della paura?).

 

Sibilla Aleramo

 

Son tanto brava

 

Son tanto brava lungo il giorno.

Comprendo, accetto, non piango.

Quasi imparo ad aver orgoglio quasi fossi un uomo.

Ma al primo brivido di viola in cielo

ogni diurno sostegno disparare.

Tu mi sospiri lontano: “Sera, sera dolce e mia!”.

Sembrami d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra.

Non son più che sguardo, sguardo perduto, e vene.

 

*

Katherine Mansfield

 

Il Golfo

 

Un golfo di silenzio ormai ci separa:

io su una sponda e tu all’opposta vivi,

non ti vedo né ti odo a stento so che ci sei.

Col tuo nome antico ti chiamo ognora

e l’eco di me pretendo sia la tua voce.

a varcarlo forse c’è modo? Mai con la parola

o il senso. Così di pianto lo potremmo colmare.

Ma ora voglio frantumarlo con un’alta risata.

 

*

Daria Menicanti

 

Tutti i gatti lo credono

 

Nerofumo e smeraldi, sulla vetta

di una colonna un gatto mi contempla

risibilmente piccolo, ma già

convinto di essere un dio. Continua a leggere

Al Mig “Cangiante” di Giuseppe Capitano

Gino Severini “Composizione futurista”, 1938 Xilografia

Sabato 8 ottobre 2022, dalle ore 17.00 alle ore 20.00, il Polo Musale di Castronuovo Sant’Andrea apre i propri spazi (MIG. Museo Internazionale della Grafica, Biblioteca Comunale “Alessandro Appella”, Atelier “Guido Strazza” per la calcografia, Museo Internazionale del Presepio “Vanni Scheiwiller”, Museo della Vita e delle Opere di Sant’Andrea Avellino) per la XVIII Giornata del Contemporaneo AMACI.

Il MIG accoglie due mostre: La storia dell’“École de Paris” – la “Scuola di Parigi” raccontata attraverso una selezione della grafica del Novecento europeo (Picasso, Braque, Matisse, Bernard, Chagall, Severini, Magnelli, Legér, Zadkine, Archipenko, Bazaine, Zao Wou-Ki, Arp, Sonia Delaunay, Mirò, Poliakoff, Bazaine, Beaudin, Music, Le Moal, Manessier, Pignon, Singier, Tal-Coat, Villon, Hartung, Bram Van Velde, Man Ray, Dominquez, Matta, Bellmer, Lepatre, Masson, Vuillard, Marquet, Lurçat, Ernst, Dorotea Tanning, Dunoyer de Segonzac, Ubac, Soulages, Vieira da Silva, Gromaire, Goetz, Christine Boumeester, Bryen, Bissier, Bissière, Labisse, Lam, Charchoune, Fautrier, Dubuffet, De Chirico, Rebeyrolle, Mathieu, Messagier, Friedlaender, Campigli, Vasarely, Hayter, Herold) e “Cangiante” con un gruppo di opere su carta realizzate con le erbe da Giuseppe Capitano durante la residenza a Castronuovo dal 16 al 21 agosto 2022.

La prima mostra mette in evidenza come e perché Parigi, nella prima metà del secolo XX, fu lo spazio della pluralità, della creatività senza confini, dell’incubazione dell’arte moderna: un polo d’attrazione e di riferimento ineludibile che stimola oltre cinquecento artisti di trenta diversi paesi a risiedere nella città, a studiare nelle sue accademie, a formare sodalizi e reti di amicizie con letterati, critici, editori, galleristi, mercanti, stampatori, assegnando alla grafica un ruolo determinante per la diffusione, in tutto il mondo, dei sentimenti di un’epoca.

Giuseppe Capitano in una foto di Silvano Di Leo

La mostra di Capitano invece, fa parte di una ricerca perseguita da molti anni  dall’artista sull’utilizzo del colore.  La  volontà di Capitano è quella di combattere la finta cromia industriale che pigmenta di plastica il mondo.

Giuseppe Capitano – “Disegno con erbe”, 2022

I disegni di Capitano sono eseguiti strofinando foglie (a volte fiori, a volte frutti) su una carta non acida così da accogliere la materia organica della pianta che muta di colore nel corso del tempo virando da verde a giallo a marrone sino a volte a rimanere solo come un’impronta.

Questo divenire mette in contatto il tempo biologico dello spettatore con quello dell’opera su uno stesso piano di mutamento. Da ciò la decisione di Capitano di vivere in campagna che, per quanto antropizzata, può correggere questa finzione.

Roberto Linzalone in una foto di Antonello Di Gennaro

Come da tradizione (ogni anno, per la giornata del contemporaneo, un artista, un critico o un poeta sono ospiti del Polo Museale), l’incontro con il poeta Roberto Linzalone metterà in luce caratteri e prospettive delle due mostre e di quanto si fa a Castronuovo per l’arte contemporanea.

Per l’occasione, leggerà testi dei vari poeti (Apollinaire, Breton, Prevert, Valèry, Aragon, Butor, Char, Cocteau, Eluard, Larbaud, Queneau, Reverdy, Tzara) che hanno collaborato con gli artisti della “Scuola di Parigi”, costruendo, nel corso del ‘900, una serie di fondamentali libri d’artista. Continua a leggere

Bruno Galluccio, da “Camera sul vuoto”

Bruno Galluccio / Credits foto Dino Ignani

un punto che non ha una posizione
un inizio che non è un inizio
perché non esisteva un prima

interno di sovrapposizioni che non ha esterno
concentrazione infinita di densità e temperatura

caos estremo
e impossibilità di prima luce fuori

la fuga delle galassie inorridite
l’azzardo di creare spazio e tempo

 

*

 

l’universo potrebbe essere nato dal nulla
per una fluttuazione quantistica del vuoto cosmico

un evento casuale improbabile

e anche il prevalere di materia su antimateria
un disequilibrio fluttuante di un istante

e una lunga catena di combinazioni accidentali
per cui siamo qui ora a formulare congetture

 

all’inizio non fu la luce

quell’ammasso di particelle non ancora atomi
era disgregato rovinoso opaco
radiazione che rimbalzava a caso
polvere delle polveri

dovettero passare trecentomila anni
prima che venisse espulsa la luce

da quel momento in poi emersero le tracce
che noi possiamo cogliere dell’universo bambino Continua a leggere

Convegno in Francia sulla poesia italiana contemporanea

All’Università Paul Valéry di Montpellier in Francia il 5 e il 6 ottobre 2022 si terrà un convegno sulle nuove prospettive poetiche e estetiche della poesia italiana contemporanea.

Al centro del dibattito la poesia di Attilio Bertolucci, Gian Giacomo Menon, Fernanda Romagnoli, Vittorio Sereni, Mario Benedetti, Giuseppe Ungaretti, Giovanni Giudici, Giorgio Orelli, Paolo Volponi, Luciano Cecchinel, Pier Paolo Pasolini.

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Mario Santagostini. “Il libro della lettera arrivata, e mai partita”

Mario Santagostini / Credits foto Dino Ignani

Finestra. Su chi c’è e su chi manca

Non riesco a credere
che qualcuno è mancato,
non sono mai stato capace.
Non fino in fondo, almeno. E mi chiedo
come si è perduto.
Nei momenti migliori, come farà a tornare.
E chi, o cosa lo guida,
e fino a dove. E immagino risposte: l’istinto,
un aiuto insperato, la fortuna.
Sono arrivato a pensare: – chi manca è già tornato,
e non lo riconosco.
E non so più chi è passato,
chi non è passato.

Io stesso, nel settembre del ‘76

Un ricordo personale. Ero vivo,
ma non volevo.
E sentivo che nella stanza la radio abbassata al minimo,
l’ascensore bloccato
da ore al quarto piano, e molto altro
era più importante di me.
Anche il balcone che dava sul cantiere e le rimesse,
la persiana sghemba,
e quanto la persiana oscurava. E il corpo,
che cercava di inchiodarmi
all’ultimo pensiero.
E non è riuscito.
E tornerà a provarci.

O ci è già riuscito. E io non ricorderò come stato, l’ultimo pensiero. Nemmeno ne erano più di uno. Tante vite, tanti ultimi pensieri. E io che scrivo da una sola, di quelle vite.

Le ombre sul muro, a Milano

Era una specie di dopolavoro.
Con campi di bocce.
E lontano, un canile.
E le partite di ramino che andavano avanti
fino all’alba. Chi perdeva,
sapeva come si sarebbe rifatto.
A volte, al sabato, c’è ancora la gara delle ombre cinesi,
ultima forma del tragico.
E in un cortile i più bravi, con la mano, o fili di rame
stortati, o solo del fumo
mandano sul muro stilizzatissimi corpi.
In certi, la vita non sembra mai passata. In altri, sì.
In altri ancora, è lontana.

E certe ombre l’aspettano, certe non l’aspettano più. E nessuno sa ancora vedere quali sono, le ombre che aspettano, quelle che non aspettano. Forse, l’ombra quando si allunga a sera sta già più vicina alla vita. Effetto del crepuscolo, la vita.

 

Periferica, urbana. 1965

Dal quarto piano,
sentivo il vicino quando, alla domenica,
riverniciava la parete.
E indovinato il colore. Non basta:
avvertivo lo sforzo
tiratissimo della pennellata per gli azzurri già intravisti
dal Reni, dal Savoldo.
Gente di cui sono ancora poco
ma non tremava,
nel raffigurare un cielo.
Come non avessi mai fatto altro in vita…

(E qualche volta, grato, il cielo rispondeva.)

 

Valle del Chiese,
dettaglio del 1963

Dal ponte, tirano su l’anguilla.
È la prima volta
che succede, dopo anni.
Per quelli più giovani, abituati
a specie come le nutrie o i topi d’acqua,
è solo un mostro.
E si chiedono da dove arriva,
come la si ammazza.
Qualcuno, dubita
che possa mai morire davvero.
Forse no.

C’è una nuvola, e la sua forma di serpe, nel cielo della Valsabbia. Serpe che si contrae come chi, una volta, volava.

da Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Garzanti, 2022

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Stefano Vitale, “Si resta sempre altrove”

Stefano Vitale

Nota di lettura di Alberto Fraccacreta

La poesia di Stefano Vitale è un punto sospeso «tra il Tutto e il Niente», ossia un «più profondo osservare l’esistenza nella sua complessa dialettica fra esistere e scomparire», come scrive Alessandro Fo nella prefazione a Si resta sempre altrove (puntoacapo Editrice, pp. 122, € 15,00). È infatti un testo, quello di Vitale, concertato sulla stanzialità caproniana dell’attendere un qualcosa in arrivo, la «sospensione di senso» in grado di «passare oltre».

Lo dimostrano anche i titoli di sezione, così liricamente calcarei: Nella quieta servitù dell’attesa, Si resta sempre altrove (sequenza che si estende su tutta l’opera), La voce, soltanto la voce, Lo stato dell’arte, Effetto notte, Circostanze, Piccolo requiem. Alfredo Rienzi nota, nella postfazione, l’attitudine di Vitale a una «poesia pensante». Eccone un esempio notevole: «Cerchiamo la parola esatta, àncora / che viene dal bene /che ci afferri come un destino. // Cerchiamo la parola esatta, luce / nella piega delle labbra /nel gesto lieve delle dita. // Cerchiamo la parola esatta, argine / che ci renda lo splendore del silenzio / senza vergogna né rassegnazione. // Ma quel che abbiamo è / un alfabeto muto / passo senza cognizione / pieno d’errori / distrazioni, omissioni».

L’ideale stampo di questo brano, costruito su un forte nesso anaforico, è Non chiederci la parola di Montale. Anche in tal caso la “negatività” del dire genera per contrasto il desiderio di una parola poetica alta e altra.

 

*

 

Il tempo di una rosa
quello di una vita

improvviso fiorire
lento disfarsi

nel profumo dell’erba
ricamato di luce

nell’istante del disastro
di petali precipitati

cercare la salvezza
nel taglio estremo

c’è il calore del corpo
dimora in cammino

verso l’altro capo delle cose. Continua a leggere

Elegia per Elizabeth II

Carol Ann Duffy e la Regina Elisabhet II

In occasione della morte della regina Elizabeth II, Carol Ann Duffy, Poeta Laureato nominata il 1 maggio 2009 e in carica fino al 2019, ha dedicato alla regina la poesia Daughter.

La Traduzione è di Bernardino Nera e Floriana Marinzuli.

DAUGHTER

Your mother’s daughter, you set your face
to the road
that ran by the river; behind you, the castle,
its mute ballroom,
lowered flag. Stoic, your profile a head on a coin,
you followed the hearse
through sorrow’s landscape- a farmer, stood
on a tractor,
lifting his tweed cap; a group of anglers
shouldering their rods.
And now the villagers, silently raising
their mobile phones.
Then babies held aloft in the towns, to one day
be told they were there.

But you had your mother’s eyes, as a horse ran free
in a field;
a pheasant flared from a hedge
like a thrown bouquet;
journeying on through a harvest of strange love.
How they craned to glimpse their lives again
in her death; reminded
of Time’s relentless removals, their own bereavements,
as she passed.
The uplift of the high bridge over a dazzle of water;
a sense of ascending
into anointing light which dissolved into cloud.
Nine more slow grey miles to the Old Town; the last mile
a royal mile,

where they gathered ten-deep as your mother showed you
what she had meant.
Nightfall and downpour near London. Even the motorways paused;
thousands of headlights in rain
as you shadowed her still; smatterings of applause
from verges and bridges.
Soon enough they would come to know this had long been
the Age of Grief;
that History was ahead of them. The crown of ice melting
on the roof of the world.
Tonight, childhood’s palace; the iPhone torches linking back
to medieval flame.
So you slowed and arrived with her, her only daughter,
and only her daughter.

FIGLIA

Figlia di tua madre, volgesti lo sguardo
verso la strada
che correva accanto al fiume; alle tue spalle il castello,
muta, la sala dei balli
bandiera a mezz’asta. Stoica, il tuo profilo una testa su una moneta,
seguivi il carro funebre
attraverso il paesaggio di dolore – un contadino in piedi
su un trattore,
alzò il suo cappello in tweed; un gruppo di pescatori
si caricarono le canne da pesca sulle spalle.
Ed ora gli abitanti del villaggio, che silenziosi
alzavano i cellulari. Continua a leggere

Alessandro Ramberti, “Enchiridion celeste”

Commento di Alberto Fraccacreta

L’Enchiridion (letteralmente, ‘ciò che si può tenere nella mano’) è un manuale che raccoglie le lezioni del maître à penser, come se fossero «a portata di mano». Esiste, ad esempio, l’Enchiridion di Epitteto, un trattatello vergato dallo storico greco-romano Arriano di Nicomedia, non troppo difforme nel contenuto dalle Diatribe del filosofo stoico. Alessandro Ramberti, con questa sua lieve e intensa raccolta – divisa in due parti, Idilli e Piccolo manuale per abbracciare il cielo –, intende mostrare al lettore la saggezza di vita adunata nel corso degli anni, in virtù di uno sguardo rivolto al «celeste»: protagonisti sono Gesù e la sapienza cristiana (particolarmente in Noi siamo la risposta, Grazia, Spogliazione, Benedizione, Sale), ma non mancano incursioni nella tradizione orientale (Fúhào 符号), com’è consuetudine nei versi di Ramberti. La scrittura è metricamente cadenzata, rispettosa del verso naturale, piana, metastasiana.

*

Non sono venuto a metter pace…

La spada di Gesù
è un taglio all’illusione
ci mostra e ci ricorda

il gesto balbuziente
di quel Mosè esiliato
richiamato dal Fuoco

a sé stesso al suo popolo
a diventarne guida
sapendosi imperfetto.

Perla

In noi c’è un algoritmo
moltiplica le cose
che possono cucire

i baratri fra i corpi
può anche alzare muri
di pensieri. È un programma

senza massa – distende
legami di empatia
ma se non l’attiviamo

se ne sta lì inerte
nel nostro io – richiamo
latente a rifiorire.

Fuori di te

Se sei disceso a fondo
nel pozzo malinconico
unendo la distanza

dall’orlo-occhio di luce
all’infimo sostrato
inevitabilmente

come ogni navigante
avrai sperimentato
l’impulso di gridare

magari senza voce
certo completamente
rivolto oltre te stesso

come se ti vedessi
da un’altra angolatura
fuori di te soccorso

dai volti sorridenti
alcuni sconosciuti
ai quali avrai sorriso. Continua a leggere

Ilaria Palomba, la forza del corpo

Ilaria Palomba / Credits foto Dino Ignani

Nota di Luigia Sorrentino

Pubblichiamo in esclusiva alcune poesie inedite di Ilaria Palomba scritte dall’autrice nella stanza del CTO, Centro traumatologico ortopedico di Roma, nel quale è ricoverata dal 3 maggio 2022.

I versi, in stile “confessionale”,  non sono il racconto o la cronaca del salvataggio o del l ricovero in emergenza, ma sono la reale e autentica esperienza di chi ha attraversato la morte ed è ritornata alla vita.

Ogni verso qui, rivela forza, azione, pensiero, resistenza.

Poesie con le quali Ilaria investe le vicende del nostro tempo e consegna al lettore un’altra, inedita figura della vita, quella che ci osserva dal margine della vita, e lo fa con una poetica che ci tocca nell’intimo e ci coinvolge profondamente.

Ilaria Palomba ricoverata al CTO di Roma, 14 settembre 2022

sperimentare l’invisibile 

Il silenzio è una fuga
strofa che trama
non fidarti – farà
di te spariglio – lei
come tutti i mostri
legata a un desiderio
spezzato, ha lottato
e ha perso. Non ti perdona
la vittoria – su cosa poi?
nei luoghi del nulla
il tempio – di cosa?
delle abbandonate.
Ferita – tu – lepre
tra fauci di iene
giurasti fiducia
sacrificarsi i figli.
Non ti perdonano
la giovinezza, l’amore.
Di questo tuo corpo
faranno macello.

5 luglio 2022

In zone tormentate
ho patito l’assenza
ma né i suicidi né
i morti metteranno
mai piede qui.
L’aria del mattino è
calda di un tepore
umido e rovente eppure
io sento il freddo del
trapasso. Chi mi vuole
viva non sa quale regione
mi tocca attraversare
Il corridoio con i vassoi
pieni di pillole e siringhe
il rumore dei vassoi.
Il corridoio che mi guarda
spietato e io immobile.
Poi la sesta vita (se resisti
al presente e non urli).
Tu dove sei?

24 luglio 2022

Ieri ho scoperto di non essere
più in grado di scrivere a penna.
L’incidente si incide in me
ogni giorno con un volto diverso.
Una volta prendevo appunti
con la velocità di un missile,
anche questa dote è stata cancellata.
Ho ritrovato però l’abbraccio sperato
il mio tu si è moltiplicato e non è
più persecutorio, non solo. Il
persecutore interno è il più cattivo
di tutti. Ogni tanto dovrei affacciarmi
a guardare un tramonto e dirmi:
tu ce la farai. Uscirai di qui come
uscirai dal dolore, dall’incantamento
e dal delirio. Attanagliata da ricordi
e desideri infranti, anche tu dirai:
ho sofferto ma ora basta. Il corpo
obbedisce solo all’infinito. Oggi
è un’illusione della coscienza.

30 luglio 2022

Di tanto in tanto mi trucco
per illudermi di esser fuori.
Fuori dalle punture di eparina
alle sette di sera, fuori dal
confronto con la mia schiena
o con la mia gamba – quale delle
due? – mi trucco perché uscirò
non importa se stasera o tra sei
mesi – forse anche dieci – uscirò
e non avrò dolori che non siano
l’intimo dolore di aver perduto
persone di cui sembro essermi
dimenticata, e altre che ho
asfissiato con una fantasmatica
invadenza. Non sono capace
di mantenere alcun rapporto
a partire da quello con me stessa.
Ricordi quando ci mostrammo le
cicatrici sui polsi? Guardammo
poi la folla ascoltando Purcell.
Tu sei tutti loro e da nessuna parte.
Cosa sto aspettando?

3 agosto 2022

Quattro mesi fa ero intubata,
mi trasferirono qui per
la riabilitazione, ma le
gambe non sembravano
volersi riabilitare.
E neanche la schiena.
Chiedevo sempre
ai miei di cambiare
ospedale, come se
cambiare ospedale
significasse qualcosa.
In stanza con me
due ragazze che
consideravo più
allenate alla vita.
La stanza cambia
ogni volta che qualcuna
va via. Diventa più
grande o più piccola,
muta colore, ma sono
mutazioni infinitesimali.
Oggi la ragazza che
si è buttata dal quarto
piano ha camminato
con un deambulatore
sul pavimento della palestra.
Probabilmente si è
sentita una bambina,
era molto buffa da vedere
una delle sue gambe
non riusciva a muoversi
correttamente. La degenza
è ancora lunga, e ho
sempre voglia di fuggire,
ma ho la sensazione che
quando andrò via avrò
nostalgia del reparto
come di una cosa
intima da non dire
a nessuno.

18 agosto 2022

Mi sono truccata di lacrime
ho indossato lo sguardo
più feroce che potessi
per dire alla Vita: Questa
volta sarò più forte di te.
Lei mi ha risposto:
l’ho sentita sibilare
poi urlare forte più
forte che potesse
ma non parlava la mia lingua.

25 agosto 2022

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Poesiæuropa 2022

COMUNICATO STAMPA

POESIÆUROPA
Quarta Edizione (2022)
Isola Polvese, Lago Trasimeno (PG), 22-24 settembre 2022

POESIÆUROPA, festival internazionale promosso per le tre giornate del 22, 23 e 24 settembre, dall’Associazione di promozione sociale ARCI Spazio Humanities, in collaborazione con Umbrò, arriva alla sua quarta edizione, la terza in presenza sull’Isola Polvese del Lago Trasimeno (Perugia).

L’iniziativa, che nel programma originario prevedeva delle attività anche per la giornata del 25 settembre, si concluderà, invece, alle 19.00 del 24, in vista delle elezioni politiche che si terranno il giorno seguente, e è promossa in partnership con: Parlamento Europeo, Umbrò, Università degli Studi di Perugia, Provincia di Perugia, Regione Umbria, Arpa Umbria, Forum Austriaco di Cultura, Accademia d’Ungheria, Danish Art Foundation, Goethe Institut, Ambasciata d’Irlanda, Istituto Camões, Provincia di Perugia, Centro scritture.

L’evento, posto, di nuovo e per altri tre anni consecutivi, i prossimi, sotto l’alto patrocinio del Parlamento Europeo intende proporre, in continuità con le precedenti edizioni, una riflessione sulla cultura europea, quale ‘crogiolo che non cessa di ribollire, amalgamare, fondere, bruciare, consumare’, per dirla con il Claudio Magris di Danubio (Garzanti, 1986).

Vuole farlo, come sempre, partendo dalle voci della poesia, per riconsiderare il valore delle radici umanistiche e spirituali dell’Europa e costruire insieme visioni per il futuro. E, come lo scorso anno, intende farlo ponendosi in sinergia con la visione del piano Next Generation Eu, che ha posto in essere le basi per la ripresa, la trasformazione delle economie dei Paesi membri dell’Unione Europea e la costruzione di visioni per il futuro al fine di rendere l’Europa in senso lato più resiliente, digitale, verde, e di esprimere le prospettive di una generazione giovane, proiettata oltre il Novecento e coerente con la visione promossa, appunto, dal piano Next Generation Eu.

Eppure, in questa quarta edizione, la terza in presenza nella suggestiva cornice dell’Isola Polvese del Lago Trasimeno – il progetto è stato, infatti, lanciato con la prima edizione in presenza nel 2019 e, poi, con una seconda edizione speciale di ‘ASPETTANDO POESIÆUROPA’, nel 2020, quando le norme anti-Covid hanno imposto non un’edizione completa, ma un interim, beneficiando del canale di fruizione via StreamYard – molte sono, al di là degli aspetti di continuità con le edizioni precedenti, le novità.

A cominciare dai temi indagati: le interazioni tra linguaggio della letteratura e l’attualità, il ruolo formativo del patrimonio umanistico, il rapporto tra il paesaggio ereditato dalla cultura europea e il paesaggio come valore ecologico.

Ancora: il binomio geopolitica-letteratura, con particolare riferimento agli scenari europei collegati al confronto tra le tradizioni russa e ucraina, di una stringente attualità. E, infine, l’accento posto su una politica culturale che ponga le scelte formative, artistiche ed editoriali al centro di un orientamento sociale di orizzonte europeo.

«POESIÆUROPA, anche in questa sua quarta edizione, conferma le sue linee programmatiche, il suo orientamento internazionale, nella fattispecie europeo, e la sua vocazione formativa e di ricerca, in quanto dà la possibilità a giovani studiosi e ricercatori di partecipare con delle borse di studio, come già annunciato in precedenza e diffuso dai media e dai canali social dell’Associazione».

A dichiararlo è la presidente di ARCI Spazio Humanities APS, Maria Borio – poetessa, dottore di ricerca in Letteratura italiana e redattrice di ‘Nuovi Argomenti’ –, cui cediamo la parola prima di vedere, nel dettaglio, il programma del Festival internazionale classe 2022. Continua a leggere

Luciana Frezza, “Parabola sub”

Dal 26 settembre una nuova collana di poesia “Le mancuspie”  sarà in libreria. Inaugura la prima uscita la poetessa romana con prefazione di Walter Pedullà. 

Luciana Frezza

«Nel racconto breve Cefalea, presente nel Bestiario del 1951, Julio Cortázar immagina un allevamento di mancuspie, curiosi mammiferi il cui aspetto è lasciato in gran parte all’immaginazione dello spettatore.

Se non opportunamente accudite, le mancuspie sono in grado di trasmettere il proprio malessere agli uomini che se ne occupano, nella forma di un’insopportabile cefalea. Gli allevatori, tormentati dalla cefalea da mal-accudimento, trovano apparente sollievo nella medicina omeopatica, si scoprono dipendenti da erbe come la Belladonna, l’Aconitum, il Cyclamen.

Cure naturali, s’intende, che idealmente sollevano l’uomo dagli effetti collaterali di una scarsa cura per il mondo che lo circonda» (da luogo_e).

Da questo spunto viene l’idea che la poesia sia per certi versi paragonabile allo strano mondo animale fantasticato dallo scrittore argentino. Nella collana saranno ospitate monografie inedite e antologie di autori già largamente consolidati, ma anche rari repêchage che riproporranno testi di assoluto valore ormai fuori commercio da tempo.

Testi ibridi dall’alto spessore qualitativo di poeti del Novecento italiano e non solo. La collana ha due uscite annue: una a febbraio, una a settembre (salvo eccezioni). I libri sono stampati su carta avoriata, con copertina in cartoncino avorio e alette e brossura rilegata a filo refe.

La collana è diretta da Antonio Bux. Il logo della collana è disegnato da Emiliano Billai.

I primi due titoli della collana sono:

LUCIANA FREZZA, Parabola sub, prefazione di Walter Pedullà – settembre 2022

GIORGIO MANGANELLI, Un uomo pieno di morte – novembre 2022 (per il centenario della nascita di Manganelli)

 

La parabola sub è la vicenda esemplare di chi sta sotto, di chi sta sott’acqua, di chi non è interessato alla superficie delle cose.

Luciana Frezza è stata una poetessa che ha lasciato nel nostro Novecento il suo segno profondo, solcato con lieve ironia. È stata anche fine traduttrice per i maggiori editori italiani dei poeti simbolisti francesi: Laforgue, Mallarmé, Verlaine, Baudelaire, Apollinaire, Proust e altri. A distanza di trent’anni dalla morte, viene qui proposta l’ultima opera pubblicata in vita dall’autrice, Parabola sub, dove si addensa tutta la maturità espressiva di una penna tanto elegante quanto complessa.

Luciana Frezza (Roma, 1926-1992) è stata poetessa e traduttrice. Si laurea in Lettere con una tesi su Eugenio Montale, discussa con Giuseppe Ungaretti. Alla Sapienza conosce il suo futuro marito, Agostino Lombardo, anglista e traduttore dell’opera shakespeariana. La sua linfa poetica si esprime fin da ragazza, durante la guerra e nella Roma liberata nel ’44; poco dopo inizia a tradurre i poeti francesi.

Stefano Guglielmin, da “Dispositivi”

Proteggersi dall’osceno

Quando parliamo dei morti, dei nostri cari
morti, ricordiamo un vestito elegante
una posa composta, la liscia superficie della
quiete, ma se parlassimo dei corpi
se parlassimo davvero dei corpi
in putrefazione, come fa Houellebecq
nelle Particelle elementari, quando nomina
mosche, larve, batteri – con i loro nomi
da “attricette italiane”, Calliphora, Lucilia
Phiophila – durante il loro pasto funereo,
capiremo allora l’ingegno taciuto della cura
(i tubi gastrici, la formalina, l’ago e il filo
cucito sulle labbra) per ridarci l’amore nostro
intatto, senza odori, prima di chiudere la cassa
e di nuovo, scucire per noi, ignari, dell’angelo
l’osceno. Continua a leggere

Presentazione del libro postumo di Alberto Toni

Nota al testo

di Roberto Dedier

Al momento della sua scomparsa, nell’aprile del 2019, Alberto Toni stava lavorando a un nuovo libro di poesie, che aveva provveduto a riportare in un file in formato Word, denominato «Nuove poesie 2018-2019».

A dispetto della genericità del titolo, il file non conteneva dei semplici testi in ordine cronologico di stesura o di trascrizione, ma una vera e propria raccolta per la quale erano stati ipotizzati il titolo Tempo d’opera e una scansione testuale, che a una più attenta lettura si fonda su alcune evidenze contenutistiche.

Sono presenti, infatti, citazioni, eserghi, allusioni che nel loro insieme costituiscono una fitta rete non solo intertestuale, più o meno esplicita, ma anche interculturale, specie nei confronti dei linguaggi dell’arte.

L’autore, inoltre, aveva abbozzato una possibile ripartizione in sezioni, restaurando così una pratica che era rimasta estranea a Vivo così (2015), ma che era stata ampiamente ripresa ne Il dolore (2016) e in Non c’è corpo perfetto (2018) e che ha quasi sempre caratterizzato il suo modus operandi.

Ad apertura del libro, infatti, era presente, dopo il titolo, l’occhiello «Tempo 1». La compattezza e la coerenza del testo, nel suo insieme, non hanno consentito di individuare i possibili termini di chiusura o apertura di nuove sezioni, con ogni probabilità da intitolarsi «Tempo 2» etc., né di stabilire quante potessero essere nelle idee del poeta. Il quale, non avendo potuto portare a termine la revisione del testo con la cura estrema che gli era consueta e che aveva dimostrato in altre occasioni, non ha lasciato segnalazioni in merito.

È certo che Tempo d’opera, per quanto concluso, fosse rimasto nel computer ancora in una fase progettuale; non embrionale, ma ancora non del tutto stabilita e soprattutto senza alcuna proiezione editoriale.

Si può ipotizzare che la non prossimità di una pubblicazione (del resto era appena apparso Non c’è corpo perfetto, che reca il finito di stampare del dicembre 2018) non comportava alcuna premura di definizione; al resto ha pensato la malattia, per cui il file ha necessariamente comportato alcuni interventi correttivi, invero minimi.

Sono stati emendati evidenti refusi rispondenti ad altrettanti errori di battitura, nonché la punteggiatura, perlopiù per le stesse ragioni; sono stati uniformati gli spazi tipografici tra i versi che vanno a costituire strofe diverse; sono stati sciolti dubbi interpretativi (e di conseguenza di grafia) su alcuni omografi.

L’interruzione di pagina ha risolto le rare incoerenze circa gli incipit e gli explicit di alcuni testi di più ampio respiro strutturale.

Quello che consegniamo ai lettori è dunque un testo che riproduce l’ordine del file, con la sola responsabilità, in assenza di altri testimoni e di altre indicazioni interne, di aver escluso l’occhiello «Tempo 1», rinunciando così a stabilire sezioni sicuramente aleatorie.

Vorrei infine ringraziare quanti hanno consentito che l’ultimo libro di Alberto vedesse la luce. Patrizia La Via, anzitutto, che non solo mi ha affiancato nella revisione del testo e nella correzione delle bozze, ma che ha atteso che superassi remore e perplessità dovute a un eccesso di vicinanza; Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, che non hanno invece esitato ad accoglierlo nelle loro edizioni e a seguirlo con amorevole attenzione. Continua a leggere

“Ci siamo proprio divertiti”

Mattia Tarantino a due anni dalla morte di Gabriele Galloni si rivolge a lui per la prima volta con una lettera scritta dalla Grecia: “Abbiamo riso da morire”.

Mattia e Gabriele a Napoli da “Michele” in uno scatto fotografico di Simona Russo, 21 marzo 2019

 

Nota di Luigia Sorrentino

Oggi ricorrono due anni dalla morte del poeta Gabriele Galloni (1995-2020).
In questa speciale ricorrenza abbiamo scelto di ricordare Gabriele con una lettera scritta da Mattia Tarantino all’amico fraterno, Gabriele che ha diretto con Mattia la rivista Inverso fino al 2020.

E’ una lettera speciale per diverse ragioni: la prima e forse la più importante è che la lettera ci è arrivata dalla Grecia, dal Patras World Poetry Festival, un’importante manifestazione poetica internazionale con un ricco programma di eventi che si sono svolti in diverse sedi culturali dal primo al quattro settembre 2022. Un Festival al quale Gabriele avreva desiderato dì partecipare per vivere questa esperienza con Mattia  e i loro amici poeti.

Per una strana coincidenza, Mattia proprio da Patras ricomincia a “parlare” con Gabriele, prima non era riuscito a farlo, e lo fa rivolgendosi direttamente a lui nella forma della epistola.

“Sono due anni che Gabriele mi parla con i suoi versi –  ha detto Mattia Tarantino – sono due anni che mi invia segni, presagi, li semina sul mio percorso, segni che solo adesso sono riuscito a decifrare”.

Nella lettera indirizzata all’amico, Mattia ricorda che Gabriele facendo riferimento alla loro amicizia, aveva più volte invitato Mattia a leggere un libro I detective Selvaggi, di Roberto Bolaño, edito da Adelphi. Gabriele cioè aveva invitato Mattia a cogliere il legame che li univa:   un “viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”. I due protagonisti del romanzo di Bolaño sono Arturo (con il quale si identifica Mattia) e Ulises (con il quale si identifica Gabriele).

Fra i segni di questa particolarissima lettera sono poi richiamati molti altri protagonisti reali della vita di Gabriele Galloni e Mattia Tarantino: amici poeti, simpatici e allegri, ma già segnati dalla sconfitta e dalla follia di una generazione esaltante e allucinata. Fra essi  ricorrono i nomi dei poeti Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Giorgio Ghiotti e poi Julia Gianferri, Ludovica Bernazza, Nicola Barbato e Giovanni Ibello.

Decifrare i segni, dirottare il presagio

Atene, settembre 2022

 

A Villa Kolla, Sotirios e Vanguelis si sono abbracciati. Uno poggiato all’altro hanno camminato insieme fino alle sedie, per prendere posto. Ridevano. “Da quanto tempo vi conoscete?” – “Ah, Mattia, non lo ricordo neanche…”.

Tornato in albergo, mi sono seduto al piccolo scrittoio davanti allo specchio. Dalla finestra, Patra era un crocevia tra i mondi.

Qualcuno cantava in cretese – lingua perduta, lingua irrimediabile – qualcuno in macedone. Qualcuno parlava della guerra, dei nonni, dei bombardamenti.

Due ragazzi, all’angolo della strada, suonavano la chitarra e bevevano un’ultima birra.

La sera prima di partire non ho preso sonno. Pensavo a Bolaño, a I Detectives Selvaggi. “Bello mio, devi proprio leggerlo; sì, si, parla di noi questo libro!”. Per tutta l’estate avevi detto che mi sarebbe piaciuto: capitava, in piena notte, me ne inviassi qualche pagina, oppure me la leggessi. Anche Julia lo stava leggendo, pochi mesi prima.

Ricordo che avevamo litigato, che per settimane non ci eravamo parlati, che c’era voluto tanto tempo per chiederci scusa. Alla fine, però, avevamo scelto di non lasciarci, di continuare insieme, “come Arturo e Ulises”: “Davvero, è pazzesco – c’è qualcosa della tua lirica, e di William Blake; i medesimi angeli vedete voi”.

Alla fine il libro l’ho letto nei giorni del tuo funerale.

Lo ricordo in cucina, a casa di Ilaria, accanto a un pacchetto di Winston. Blue 100’s, rigorosamente.

Ne parlai anche con Giorgio, e con mio padre. Eravamo strani, è vero. Mi chiedevi spesso cosa gli altri ne pensassero di te e io mi chiedo, adesso, cosa pensassero di noi.

L’anno prima diverse riviste e quotidiani parlarono di noi, di noi due insieme, e ci divertivamo, la mattina, a leggerli e immaginare cosa sarebbe successo se uno dei due fosse morto.

Su Carteggi Letterari, Giulio ci aveva chiamati Lucifero e Trismegisto, “compagni di merendine avvelenate. Quel giorno eravamo felici, proprio felici.

Insomma, dicevo, non ho preso sonno.

“Secondo me se andiamo in Grecia se divertimo, oh, ce tocca, là ci vogliono tutti bene”.

Mi sono alzato, ho preso le mie pillole, poi ho vomitato.

Ho acceso una sigaretta sul balcone, sulla Torre. Tu lo sapevi: la Torre nei miei libri non era un Arcano, non lo è mai stata; piuttosto il mio balconcino, il balconcino che conoscevi, con l’ulivo e le piante grasse, lo stesso di cui parlavo tanto spesso a Letizia, lo stesso in cui lessi a Ilaria Bonnefoy.

Movimento e immobilità di Douve” è ancora il mio libro preferito.

Sulla Torre ci ho passato tutta l’estate – e che estate. Ho avuto paura, per la prima volta e a lungo, per mesi. Ho dovuto imparare a dormire con la porta aperta. Per qualche ragione ero convinto che così non mi sarei gettato, che mia madre avrebbe capito tutto un minuto prima che accadesse, che mi avrebbe fermato. In qualche modo, ho avuto ragione.

Devi sapere che, da alcuni mesi, la mia lingua è una geografia sotterranea – una “Mesopotamia dell’invisibile”, direbbe Giovanni – di cunicoli, scorci, trapezi. La prima parola, appena prima dell’estate, è stata “Passaggio”. Poi, “Porta”.

Ora c’è qualcosa che ha a che fare con il mondo di un dio-gufo, con un traghetto per Buenos Aires, con San Lazzaro e gli armeni.

Ho baciato la croce di Sant’Andrea, pochi giorni fa. Il bacio dell’Icona… Dimitris mi ha detto che ho fatto bene, che la croce è una sola e che qualcosa, nella liturgia, è stato tradito per sempre.

Abbiamo a che fare con la calce del sacro, con la sua crosta. Al posto dei capelli abbiamo delle candele accese con bastoncini d’incenso e al posto delle mani qualche rotolo di preghiere indifese, sconsolate, nervose. Qualcosa come una macchina-divina, come un’Asina che scalcia e prende il posto dell’Orsa:

 

Notte irrimediabile. La stella crepita, scortica, rischiara.

Fuori, qualcosa chiede un nome: è un dio dalla testa d’asino. Mascella robusta, pupilla trasparente e spiraloide. Dio Carnevale. Ascoltami: siamo di passaggio. Quel pane, la strada per la porta, cosa significa il cerchio che portiamo. Non chiediamo altro. 

[…]

Vieni a me. Signore del ferro battuto, della sabbia arsa. Signore del latte alle ginocchia, dei merli di cenere. Qui la notte è bianca e io ti chiamo. Noi chiamiamo.

Quando sei morto era un anno che non scrivevo versi.

Solo tu, all’improvviso, avevi fatto in modo che rompessi il silenzio. Come un congedo, un dono d’addio.

Ora i quaderni non bastano, invece, ma i versi sono sciatti, quotidiani, giallognoli – proprio come quelli dei poeti che non ci sono mai piaciuti. I poeti che piacciono ai critici ma che non hanno un lettore, quelli a cui si chiedono dei versi inediti per l’autunno ma non riceveranno mai una lettera da qualcuno all’orlo, all’Orlo.

L’Orlo: se un’aldilà esiste, ed esiste, questo è il nome della stanza che ti è stata assegnata. Ne sono certo. A vent’anni ho capito questo, della vita, e che sono innamorato di tutte le cameriere del mondo e un cioccolatino lo accetterò sempre.

Penso anche che mentre scrivo l’Orlo si sia manifestato e abbia preso posto, ora, alla fine del Passaggio, appena dopo la Porta.

Occorre decifrare i segni, Gabriele, dirottare il presagio. L’ho detto anche a Ludovica, qualche giorno fa. L’ho detto anche Nicola. “Attendo il tempo in cui il miracolo riscriverà / la storia, la spalancherà, lascerà traballanti / le colonne del mondo”, scrive lei, e lui risponde che “Siamo il raggio di un mondo / che cigola. Una lettera al posto / di un’altra che le somigli ma parli / un’altra lingua”.

Entrambi sono nella mia stanza, lei suona il tamburo, lui fuma una sigaretta, guardano la fotografia che Simona ci ha scattato a Napoli.

Avrei voluto scattarla, una fotografia, a Sotirios e Vanguelis. Avremmo potuto essere noi, lo sai. Avremmo potuto camminare insieme fino alle sedie, poi sederci, ridere. Avremmo potuto dire che no, non riusciamo a ricordarlo da quanto tempo ci conosciamo. Magari a un giovane poeta greco, in qualche paesino accanto Roma. Magari a San Lorenzo.

Ti piaceva tanto, San Lorenzo. È un santo ed è un quartiere, è una notte ed è una piazza.

Poco prima che morissi ti avevo fatto il verso. Lo avevo fatto alle quartine sui morti. Continua a leggere

Antonio Lillo, “Mal di maggio”

Antonio Lillo

La domanda che mi fa ogni poeta

Un poeta mi chiede: Cosa farai
delle mie poesie? Io guardo
le poesie e mi chiedo: Cosa farò
di voi? Ma le poesie guardano fuori
e sognano di fuggire illese da noi.

 

Nuovi piani per il giorno

Non è più ora di credere all’angelo
in quella parola intera che svuoti
di cemento questo appello. Seminiamo
per raccogliere un frutto, la sua polpa
e non il seme. Andiamo avanti a morsi
piccoli morsi giornalieri per dirsi
sani sazi vivi, creature come ogni altra. Grati del sole
ed allarmati come bestie da suono.

 

Il rosso

Voglio parlare del colore di un’insegna.
Ma non mi sento più il cuore di spiegare.
E non mi basta il mestiere di poeta
a scaturire una scintilla. Tutto è spento.
O fulminato. Le vedi lì posate le parole
e preghi che si esprimano da sole.
La parola rosso. La parola insegna.
Che ricomincino a gridare sotto il cielo.

 

Rumore

Tu che sei informato, che succede in paese? Ma davvero non lo so, non lo so più, perché non vado mai in paese. Al massimo posso dirvi che succede in giardino. Oggi ad esempio è caduta una foglia e ha fatto un rumore assordante.

*

Il poeta che vive in un piccolo paese
è quello che poi scrive l’epitaffio di tutti
il necrologio sul giornale del paese
per chi resta. E quando pensa al giorno in cui
morirà anche lui che ha scritto la fine degli altri
quella sola volta la pagina resterà bianca.
Riposta nel bianco la sua idea di paese.“

Mal di maggio” di Antonio Lillo, con prefazione di Francesco Tomada, Samuele Editore 2022. Continua a leggere

Antonio Porta, da “Poemetto con la madre”

Antonio Porta a Orvieto nel 1976, per il Convegno “Scrittura Lettura”

I.

Quanto si è consumata mia madre
come l’ombra cancella ogni
giorno
e più l’ombra la invade e vela
più mi sembra che pensi
la giovinezza
l’estate
di una carnale bruna bellezza
quando nel sogno
il figlio le ha baciato il ventre
aprendo
l’assetata adolescenza infinita.

 

2.

Ora mi chiedo se è l’ombra che ti cancella
e il tuo profilo più sottile disegna la traccia
della scomparsa imminente
ora mi chiedo se l’ombra cancella.

 

3.

Lo so da sempre che devi scomparire
ma nel tuo buco d’ombra io non ti seguo
opposto
penetro in un ventre che non è il tuo
eppure ti ricorda e celebra e nutre
il ventre
mio sogno d’iniziazione del mattino,
nel grande letto
della prima comunione.

 

4.

Isterica, in uno sguardo improvviso folle
sei tu che mi cancelli e sputi
come un rospo
il tramonto
qui sulla pagina fatico a mantenere la distanza
dalla tua forma oscura quando soffi serpenti
dalle narici dilatate.
Lo sai o non lo sai che miri sempre in basso,
mi costringi alla fuga, al precipizio
disperato di mettermi in salvo
mi Strozzi con un dubbio e la paura
senza fine dei ritardi,
tempo inabissato
perché tu non mi hai goduto
io arrivato alla fine
della bella adolescenza vuota
tuo amante insuperabile nell’atto
della nascita e subito
perduto.

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Maria Borio, “Dal deserto rosso”

L’autrice riprende il titolo di un film del 1964 di Michelangelo Antonioni per rivolgersi a un interlocutore che l’accompagna in un viaggio di conoscenza 

Maria Borio, Credits ph. Dino Ignani

Nota di Alberto Russo Previtali

 

L’ultima raccolta di versi di Maria Borio è costruita su un titolo potente, carico di una fortissima valenza intertestuale. Dal deserto rosso: un titolo che rimanda subito e senza incertezze il lettore a uno dei film più densi e riusciti di Michelangelo Antonioni.

Fin dai primi versi si capisce però che la scrittura poetica che il titolo è chiamato a nominare non ha il suo centro in una perseguita ekphrasis o in un dialogo intertestuale tra la poesia e le immagini o la storia del film.

I movimenti dominanti di questi testi sono piuttosto l’esplorazione e l’attraversamento di due istanze profonde che animano il capolavoro di Antonioni.

La prima riguarda la dimensione referenziale instabile che viene aperta dalla metafora del “deserto rosso”: il rapporto prometeico dell’uomo contemporaneo con il suo ambiente, il presentimento oscuro di un punto opaco nella sua cosmologia che lo pone come attore aggressivo e senza limiti di fronte a una natura considerata passiva e staccata dalla dimensione sociale. Il titolo offre un indizio importante: la poesia non si scrive “su” questo complesso di fenomeni problematici, ma “da” esso, nel senso della provenienza come traiettoria dell’esperienza e dell’enunciazione.

È una voce sola, che si trova a esistere in un solo punto, come annunciato nell’incipit: “Sono un punto solo nel deserto rosso: / oggi è questa la mia dimensione” (p. 7); questo punto è rinchiuso in un orizzonte definitivo e fissato, in una verità obbligata e negativa che la voce è costretta ad affermare con la più disarmata semplicità: “Ti scrivo da una zona rossa ed è questa la verità / i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio, / vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono con me, / punti soli, senza illusione nella primavera / del millennio che al tempo sta cambiando la faccia” (p. 7).

È una verità definitiva quanto la sua impotenza e la sua inutilità di fronte all’impossibilità dell’illusione, ovvero del pensiero di un cambiamento. Il compito che assume la voce è allora fare di questa verità ultimativa l’inizio di un movimento poetico verso un altro modo di pensare: “Pensarsi è unirsi […] e un bene, come mai, nuovo?” (p. 7). “Come mai”: constatazione e interrogazione di fronte a un tempo nuovo, uscito dall’alveo rassicurante della storia umana.

È proprio nell’interrogazione che trova parola il tentativo di fare esistere l’alterità, ed è in essa che si rende visibile il confronto con la seconda istanza profonda del film: seguire e attualizzare la voce femminile, intesa come soggettività che resiste alla chiusura utilitaristica del mondo.

Nell’interrogazione ripetuta, che è una delle linee stilistiche più rilevanti del libro e una delle novità più tangibili rispetto a Trasparenza, la voce femminile segue e oltrepassa la prospettiva aperta dal personaggio di Giuliana nel film.

La domanda è la cifra di un posizionamento estremo, in cui degli opposti decisivi si trovano a coincidere: fragilità e coraggio, stupore ignaro e ansia di sapere: “Era il cielo che si scioglieva? Ma il senso?” (p. 8); “Come capire la mappa?”; (p. 17); “Ma qual era la parola?” (p. 17); “ma come chiamare / davvero una sensazione?” (p. 19). L’insistenza della domanda rivela un vuoto di sapere, l’irriducibilità del femminile all’accentramento discorsivo del senso.

Anche la proliferazione pronominale, ovvero una delle dinamiche formali più caratterizzanti di Trasparenza, viene posta al servizio di questo attraversamento del femminile. L’“io” che si rivolge al “tu” si trasforma spesso in un “lei” in posizione enfatica, che fa eco alla scena più intensa del film, quella in cui Giuliana racconta, in terza persona, la propria storia di smarrimento mentale a Corrado, riversando su di lui l’intrico angosciante dei dubbi sul proprio desiderio.

Questa alta testimonianza del femminile fatta esistere da Antonioni e da Monica Vitti viene raccolta ed espansa dalla voce della poesia, che ne rivela la vocazione etica e conoscitiva: aprire una mancanza nel discorso votato al dominio totale della natura.

È questa verità che persegue Maria Borio, avanzando in una dimensione pericolosa del femminile, nella quale, come insegna il destino di Antigone, ricerca della verità e rivolta vengono a coincidere: “Poi una donna, in controluce, arriva / alta dall’altra parte del sole, ripete / ‘verità’ e ‘verità’, ‘eroismo spoglio…’ / E lei è solo una persona, e contempla, adesso” (p. 26).

La finalità di questo eroismo è ancora quella percettiva di Trasparenza, ma approfondita da un’urgenza etica, legata alla consapevolezza di una coincidenza tra irruzione del tempo geologico e apertura del millennio: “La nostra specie, la tentazione – Ciò che è, è / – se non è, non sono stato, non sono, non sarò?” (p. 26).

Questa domanda che s’impone alla fine del libro è una conquista. Essa rivela un pathos fecondo, sempre percepibile sotto lo schermo di un’intelligenza poetica che si confonde spesso con il suo oggetto. È un pathos che forse in futuro incontreremo nella sostanza stessa dei versi di Maria Borio, emerso dal flusso delle domande smarrite, delle penetranti interrogazioni percettive, delle traiettorie metamorfiche degli elementi.

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo? Continua a leggere

Romana Petri, “mostruosa maternità”

Madri che uccidono i figli. La scrittrice indaga e scandaglia il sentimento che separa la madre dal figlio fino al punto di portarla a sopprimerlo

Romana Petri

È molto significativo che l’attenzione della scrittrice Romana Petri abbia messo in luce un argomento molto forte, scottante oggi come ieri: quello delle madri che uccidono i propri figli.  Un argomento che in taluni casi divide l’opinione pubblica, e divide soprattutto le donne, quelle che hanno messo al mondo dei figli e che hanno conosciuto l’esperienza della maternità come un potenziamento della propria individualità e quelle che invece non hanno fatto figli e che hanno vissuto questa condizione come una privazione, un indebolimento della propria femminilità.

E’ quanto si evince dalla lettura dei dodici racconti pubblicati da Romana Petri con il titolo di “mostruosa maternità” (Giulio Perrone Editore, 2022).

Intervista a Romana Petri
di Luigia Sorrentino
Roma, 2 settembre 2022

 

Lei, Romana, madre a sua volta, non giudica le donne delle quali ci racconta. Non si pone con loro né contro di loro. Perché non le giudica? Che cosa vuole suscitare nel lettore?

 

“Una lezione che ho imparato bene è quella di Flaubert. Chi scrive deve riportare le cose come stanno, anche quando inventa. Vuol dire, raccontare mettendosi da parte, non solo senza emettere giudizi, ma nemmeno interpretare al posto del lettore. Il lettore deve essere libero di fare suo il libro, di continuarlo, di rimasticarlo dentro di sé, di stare da una parte o dall’altra. Se lo fa chi scrive lo condiziona.
Io credo in un rapporto di collaborazione tra chi scrive e chi legge. E spesso può capitare che un lettore abbia una visione di quel che scrivo io molto diversa dalla mia. Sono situazioni che mi piacciono molto, perché chi scrive è l’ultimo che può spiegare quel che fa. Nelle presentazioni ci proviamo, ma è una visione parziale. Per questo sono interessantissimi i circoli di lettura, perché si parla del proprio libro con persone che lo hanno già letto. Sono situazioni nelle quali imparo molto sul mio lavoro”.

 

Nel primo e nell’ultimo racconto riprende il caso di Annamaria Franzoni condannata in primo grado con rito abbreviato a 30 anni di carcere per l’omicidio del figlio Samuele, omicidio mai confessato dalla donna. La Franzoni è tornata libera nel 2019 per buona condotta, e il suo è stato, in assoluto, il caso di cronaca maggiormente seguito dai media. Nel suo primo racconto la Franzoni parla, a volte sembra pensare a alta voce. Nell’ultimo, sono due donne a confrontarsi sul caso “Franzoni” dal parrucchiere. Una è colpevolista l’altra è innocentista. Dal primo racconto sulla Franzoni emerge una generale condizione di insoddisfazione e di sofferenza della donna non percepita come grave dal marito. Cosa questa che ritorna anche nell’ultimo racconto, nel confronto fra le due donne. E’ come se dalla loro “chiacchiera” nascesse un dubbio sulla maternità, sul come debba essere o non essere una madre.
Romana, crede che non esista la madre perfetta? Pensa che dietro la “mostruosa maternità” si possa nascondere una buona dose di responsabilità nei mariti delle donne che uccidono i propri figli?

 

“Allora, io sono e sarò sempre convinta che l’unico omicidio ammissibile sia quello per legittima difesa. Non ce ne sono altri. Credo molto anche nella responsabilità personale, quindi una madre che uccide il proprio figlio, al dunque lo ha fatto lei. Può essere un raptus o una decisione fredda e calcolata, come il terribile, ultimo caso di Diana, lasciata sola a casa per sei giorni a sedici mesi.
Quando si parla di femminicidio, per fortuna non pensiamo mai che la donna abbia potuto influenzare con il suo comportamento l’uomo ad ucciderla. L’uomo la uccide perché è un assassino, perché non sa gestire l’abbandono e perché spesso il femminicidio è un omicidio di Stato perché le donne, anche quando vanno alla polizia non sono ascoltate.
Dunque, premettendo che nessuno può arrivare al punto da far commettere un omicidio a un’altra persona se questa non è già predisposta di suo, io direi che la responsabilità principale è della madre che uccide, poi c’è tutto il resto, soprattutto un’assenza dello Stato, anche perché purtroppo, della vita che i bambini molto piccoli fanno in casa non sa nulla nessuno. La casa può essere davvero una prigione. Vediamo gli ultimi casi. Una madre uccide il figlio perché il bambino si è accorto che lei a una relazione con il suocero; una madre uccide con undici coltellate la figlia perché quest’ultima si sta affezionando alla nuova compagna del padre; l’ultima la lascia sei giorni da sola per stare con il suo nuovo compagno, al quale, ovviamente, dice di aver sistemato la bambina presso sua sorella al mare.
In questi casi, chi può aver spinto la madre a uccidere i figli se non la fragilità della madre stessa? Le donne hanno un profondo senso di autodistruzione. Il mondo ha insegnato alla donna a non stimarsi, a non amarsi, a pensare sempre di valere poco.
Il peggio avviene sempre quando l’ego viene ferito. Pensiamo al suicidio.
Quali sono le maggiori cause di suicidio?
Delusioni amorose e fallimenti sul lavoro. Tutto quel che ha a che vedere con l’ego.
Si è mai sentito di chi si è suicidato per la morte di una persona amata, magari proprio di un figlio? Viviamo da sempre (vedi Medea) nel culto di noi stessi. Guai a chi tocca quella parte così fragile, così esposta, che ci pulsa addosso come un cuore scoperto. Appeso al petto”.

La sua narrazione esprime un forte disagio sociale che vivono alcune donne oggi all’interno della famiglia. Anche se le madri che uccidono i propri figli ci sono sempre state e infatti i suoi racconti sono ambientati in epoche differenti. Essere madre oggi come ieri è una responsabilità che incombe principalmente sulla donna nella relazione con il figlio, ma anche con il marito, o con il proprio compagno. Ci sono donne che hanno una storia difficile alle loro spalle, non sufficientemente elaborata dalla donna stessa, altre donne, invece, quelle che hanno avuto la possibilità di elaborare il proprio vissuto riescono nella maternità perché non riflettono sui figli i propri fallimenti, la propria autodistruzione. Insomma il figlicidio può celare il dubbio che la responsabilità non sia soltanto delle madri che lo commettono ma anche della società che ha inculcato loro di dover essere madri a tutti i costi?

 

“Anche qui dipende molto dalla personalità della donna. E non ci sono dubbi, non tutte sono nate per essere madri, la maternità deve essere una scelta. Purtroppo la donna, a differenza dell’uomo, ha un ciclo riproduttivo oltre il quale non può andare. Ecco perché a volta può capitare che sentendo la corsa affrettata del tempo possa decidere di avere un figlio prima che sia troppo tardi. Come se un possibile rimpianto possa essere più grave di una scelta sbagliata. La donna ha la possibilità di procreare, non l’obbligo.
Vedremo cosa accadrà dopo le elezioni… Già si parla di bonus per chi ha figli, di pensioni anticipate per le madri. Insomma un incentivo a “figliare” comunque. E poi c’è un fondamentale pregiudizio che ormai ho rinunciato a veder scomparire: una donna non madre non è una donna completa. Lo abbiamo mai sentito dire di un uomo? No.”


La letteratura può raccontare e far riflettere molto più della chiacchiera, del dito giudicante puntato sulla madre assassina tipico del giornalista di nera dal quale lei si discosta nettamente. La sua narrazione è potente perché mette in luce l’anima nera che è presente in ognuno di noi.

“Siamo tutti figli di Caino e non di Abele. Il lato oscuro ce lo portiamo dentro. È un seme con il quale nasciamo, veniamo al mondo e ce lo danno in dotazione. Poi dipende dal tipo di vita che affronteremo se questo seme resterà tale o diventerà una pianta; dalle persone che incontreremo e dalla nostra forza di volontà. Accade lo stesso anche per il bene, per il talento. Siamo i protagonisti della nostra vita, proprio come fosse un film, ma anche il più piccolo comprimario può avere la sua importanza. Mi viene da dire che sia per il bene che per il male, ogni tanto abbiamo bisogno di un annaffiatoio che gli dia di che crescere. Ma poi dipende da noi. La violenza non mi stupisce, fa proprio parte dell’essere umano. Però continua a indignarmi. Tutte le persone in pericolo dovrebbero essere aiutate. Simone Weil parlava di fratellanza, di uguaglianza, di giustizia. Un’ illusione così grande che alla fine anche una come lei ha rinunciato ai suoi ideali”.


Forse si potrebbe pensare che nella sua narrazione alcune donne commettano questo crimine per ragioni profonde, radicate nella loro esistenza, in altre il crimine è assolutamente superficiale. Accade a quella madre che nel suo racconto si suicida sulla Prenestina a Roma con il figlio perché è ingrassata e il marito la tradisce.

“Le donne non dovrebbero subire così tanto il giudizio dei loro compagni, perché ce ne sono proprio di indecenti che dopo il parto considerano la loro compagna nient’altro che la madre del loro figlio, solo perché dopo il parto non è più tornata immediatamente come prima. In questo la donna dovrebbe emanciparsi.
Se un compagno vive in casa con te, ma come compagno e come padre non esiste, allora non bisogna avere paura della solitudine. Meglio chiedere aiuto altrove che rischiare di farsi fare il lavaggio del cervello.
Ci vuole una forte personalità per non dare importanza a uno sguardo che ci oltrepassa come fossimo trasparenti. Restare accanto a uno sguardo così ci farà malissimo, possiamo caderci dentro e finire nell’abisso. Ma alcune donne preferiscono l’uomo al figlio, danno un’importanza determinante al desiderio che suscitano. Se di questi uomini si liberassero sarebbero profondamente più felici, più belle. Certe volte, rimanere sole è la miglior cura possibile. La solitudine come creatrice di nuove possibilità”.

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Donne, poesie e storie di emigrazione

Da Poesie di Vera Lùcia de Oliveira

Ho messo dentro la terra un lettino
era autunno lasciavo le foglie
ammucchiarsi soffici sul suolo
facevo come un lenzuolo dorato
che si stendeva avvolgeva le orecchie
dentro la culla non so chi avevo
messo a dormire qualcuno c’era
piangeva a dirotto mai che avessi
potuto vedere il suo volto

*

Da Poesie di Adriana Langtry

Sette

Alcuni, a quei tempi
abitavano tutta la vita nella stessa casa.
Ville coloniali con madreselva sui balconi
E figli che crescevano all’ombra di grandi fichi e di messali
e adulti che invecchiavano nella memoria di razza e tradizioni
sotto il ritratto di un avo militare.
Molti, a quei tempi
abitavano tutta la vita nello stesso rione.
Suburbio di ringhiere, cortili a cannocchiale
e misture di accenti nella penombra degli androni
tra giochi censurati e il lamento di un tango
scosso dai primi accordi di Love mi do.
Alcuni, abitavano tutta la vita nella stessa casa.
Noi, a quei tempi,
nella scalata sociale verso il centro,
di case ne abbiamo cambiato giusto sette.
Una per ogni dittatura.

*


Da Poesie di Eliza Macadan

Qualcuno molto ironico
mi ha dato un’altra lingua invece della mia
poi mi ha lasciata cercare
vai da questa parte – potresti trovare un silenzio
che se ne frega della lingua
dall’altra vivresti senza nemmeno accorgerti
sto al bivio e prego per un altro po’ di tempo
per poter ascoltare tutti i silenzi
e parlare in lingue
prima o poi
non ho più patria
l’ho lasciata alle spalle
senza che se ne accorgesse
i fili sono impigliati
nel palco dell’infanzia
le parche tessono
di giorno una tela
che le notti districano

*


Da Poesie di Lidia Amalia Palazzolo

Madre
madrona
dei miei
rimpianti
Voce
che non riscalda
le ceneri
Matriarca
di un
regno
vuoto
Madrecita
dimentica
di carezze
Distratta
e perduta
nel perfido
tempo
della follia
Irriconoscibile
reproba
della morte
e l’esilio.

Da “Confine donna – Poesie e storie di emigrazione”, a cura di Silvia Rosa, con illustrazioni di Valeria Bianchi Mian, Vita Activa Nuova 2022. Continua a leggere

Il poeta Pier Luigi Bacchini

Pier Luigi Bacchini a Parma

“Poesie 1954-2013” di Pier Luigi Bacchini, a cura di Alberto Bertoni e con la bibliografia curata da Camillo Bacchini, Oscar Mondadori 2013.

 

Rimandi

Ecco un pangea di nubi,
nel convesso
che si svolge in continenti; aree
naviganti; siamo sinonimi,
fenotipi
sinopie abbarbicate a ciò che vaga.

*

Scoperta

Non è nascosto.
Ci lascia fare,
decifriamo le petraie, e gli strati sottomarini,
come giochi enigmistici, nei laboratori-
le confuse mareggiate, l’incalcolabile
dinamica delle nuvole.
E le coordinazioni e il fine,
e l’indole genetica
in un compatto io.

*

Acqualuce

Quando il muto fantasma della medusa
con lingue pendule
mòtili barbe
simile a una cometa
rendeva colorazioni traslucide, i tentacoli
delineavano soltanto un urticante
pulsante ideogramma.

*

Labirintite

Nelle notti
il sole precipita al di sotto,
sotto il polo,
e m’aggrappo al legno del mio letto
nel mondo che vola
e fa di se stesso una trottola
fra volatili coltri. Continua a leggere

Alfonso Guida, poesie

Alfonso Guida/credits photo Andrea Semplici

Pubblichiamo sei poesie inedite di Alfonso Guida tratte dalla sua raccolta inedita dal titolo “Carcere e ascesi”.

 

I muri. I muri tengono
tutto di me. E del battito.

Scompare a poco a poco
l’ indovinello, non importa, il mistero,
se può sbiadire. Il nero.

Poi mi sento cadere.
Ma resto, resto qui, su questa sedia,
questa storia. L’ infelicità, un colpo
d’ accetta. Ora la logica.

Frammenti, recinti, ettari.
Non oltre la misura.
S’inguscia il tempo. Arsura.

**

Volevo andare in alto.
Nel deserto, il colore,
metafora dei saggi.
Piangere e ridere, ora-

non riesco a prevedere.
Cose che sono ovunque,
disgiunte, inosservate.

Sensibilmente- scrivere,
parola per parola,
passo dopo passo, anche
questa morte. E finirla
con la madre. Qui, solo,
tentare, morire, essere.
Come uno può, inanellato, cortese.

 

LETTERA

Stamattina una mitraglia di piume.
Cieli abitati, piste
da corsa, andirivieni, fughe. Fretta
di cieli azzurri. Cornacchie a soggolo
grigio, taccole, in lutto completo. Qui
morire eterno, morire ordinario.
Finire. Punto e a capo. Ancora. Annuncio
di ogni slancio contrariato, un cantare
basso metà inno solenne metà
triviale. Nascondo al male il corpo,
la mente. Il vento snida il suo pretesto
di ocra dal grigio tortora, dal verde
petrolio. Immerge a compieta il crepaccio
tra le ombre e il fumo del fieno maggengo.

 

PASTORI DEL MATTINO ALL’ AMERICAN BAR

Parlano di mungitura meccanica,
del nutritore di metallo, nuovo
sostituto del vecchio poppatoio
di gomma. Valutando carne e latte,
parlano con labbra gonfie di sangue
come se il cuore gli pompasse in bocca.
Nero di mora e ginepro colora
le guance, il mento, la barba biondastra.
Corpi magri, scattanti, culi sodi,
stretti, un piglio dolce e violento, gli omeri
schiariti dal sole bronzeo dei campi.

Ogni maschio sfrigola nel profumo
primaverile della biada, assorbe
la forza lunare dell’ acqua e i palmi
colano scremature di latte, orde
bianche e fresche di pasture e ontanete
dal fogliame opalino nei capelli
che ingrassano, ricci, i colletti, macchie
di erbe aguzze, tarassaco, soffioni.

Vestono imbottiti, impataccati, k-way
spiumato, cinghia el charro, rubata
dal catalogo di moda di un vecchio
guardaroba appartenuto ai nipoti.
La voce buona, semplice, sottile.
Si toccano con lo sguardo incantato.
Con puntigliosa ostinazione, il polso
ruota a picco tra le gambe robuste,
le cosce muscolose, il membro enorme.
Sono coraggiosi. Affrontano il buio
mischiando il proprio sangue al sangue lucido
delle bestie nei muti sacrifici
dei templi, nei rituali antelucani.
Col manto irto di spine,
col peso del sogno di un gregge intero,
volano in groppa ai bucrani, cavalcano
le travi, lottano come profeti.


DIMENTICARE

Ma vedere si estingue, ogni vedere.

Ci sono poeti per cui il tempo è assente.
Lapidi, pietre incise, appena un nome.
Sofferenza commossa dal tacere.
Eco morta nella voce da cui esce.
Persone non riconosciute, astratte,
come astratte dal commercio terrestre.
Lampare tra le pergole, lampyridae
nell’ erba.
Il sole muore di se stesso.

 

LA FONTE SA DI DOVER MORIRE

Veglia, fare fatica.
L’uomo ha una sola terra.
E la terra ha un solo uomo.
Francesco, Marco, Stefano,
Domenico, se esisto
su una punta di penna.
Ma io cado, non ho peso
che per morirmi dentro,
nel peccato di perdere
lo sguardo. E nel dipendere
stramazzo, preda o lupo.
Nel tanfo di sudore
notturno c’è di tutto:
treni, orinatoi, portici,
c’ è la polvere e il dedalo
delle formiche di Aldo
Braibanti. E qui digrado
come le croci nere
dei pescatori ai muri
di Procida, tra le ancore
svelte a scarnirmi, a trarmi
fuori dal mare folle,
quando, inverno su inverno,
mi addormento a strapiombo.

Sto fermo, più che fermo,
fermato, più che vuoto,
svuotato, ma le vecchie
la chiamano “ vivenza”
la vita che si passa
dentro una casa, intera.
I libri mi allontanano.
L’ inchiostro dei quaderni
macchia i campi di grano Continua a leggere

La poesia di Elio Pagliarani

Elio Pagliarani Credits photo Dino Ignani

E sono grato del mondo e dell’amore
perché ne ho avuto tanto, in primis
dai miei genitori: mia madre scatenata
andata avanti a urla fino alla fine, in ospedale
e io non c’ero, né ha c’ero quando se ne andò
mio padre fiacaresta con cavallo e carrozza
d’estate a mezzogiorno gli portavo io il mangiare
in piazza dove stava più spesso assestato
e chi altri lo poteva fare? Mia madre no
per via di mia sorella piccolina, che le dava
tanto da fare. Altro amore grande
da Rosalia o Liarosa che mo’ si sposa.

Ma se quando l’inverno ibernasse, scrivevo
indeclinabile resterà l’amore:
Cetta, aspetta che non ho finito.

*

Acrostico

Cara, cerco un acrostico
e m’adopro per questo,
tolgo dal canestro
tre genziane
assetate

aspetta che non ho finito
mi resta il più ora
ora è il più che mi resta da fare
restituita stagione propizia
estate di San Martino indeclinabile

ma se quando l’inverno ibernasse
indeclinabile resterà l’amore
o l’errore l’errore del vivere

(gennaio 1976)

*

Alcuni ancora alle volte sono ingannati
e credono di fare del bene comune: e fanno per la proprietà.
Li ladri sono stati insino a qui in noi:
sono stati gli amori che sono stati nei nostri cuori:
& chi ha avuto lo amo ore di colei & chi della roba:
& sono stati tutti ladri questi amori perché ti furano l’anima:

*

Altre notizie

Questa della scaturigine improvvisa
polla di sangue insorta nel mio tronco
gelida, dove possa confluire o frangersi
non so, né a che tossine
sul trapezio dell’intrico capillare
sia lustrale, ma conosco e aspetto
il suo riflesso condizionato d’ansia
successiva, il muscolo del cuore
trepidante.
Qui dentro
non è il primo movimento che è segnalo
e si capisce dalla faccia.

Ma un’altra, spero diversa traccia sia
l’espansa irrefragabile sussultoria ombelicale
simpaticissima e innaturale
risata mia.

Da: “Tutte le poesie – 1946-2011” di Elio Pagliarani, a cura di Andrea Cortellessa, Il Saggiatore 2019. Continua a leggere

Jaufre Rudèl, “un amore lontano”

Gisant d’Aliénor d’Aquitaine à l’abbaye de Fontevraud

Jaufre Rudèl
Lanquan li jorn son lonc en mai
Traduzione di Alberto Fraccacreta

Lanquan li jorn son lonc en mai
m’es belhs dous chans d’auzelhs de lonh,
e quan me sui partitz de lai,
remembra·m d’un’amor de lonh:
vau de talan embroncx e clis,
si que chans ni flors d’albespis
no·m platz plus que l’iverns gelatz.

Ja mais d’amor no·m jauzirai
si no·m jau d’est’amor de lonh:
que gensor ni mielher no·n sai
ves nulha part, ni pres ni lonh.
Tant es sos pretz verais e fis
que lai el reng dels sarrazis
fos ieu per lieis chaitius clamatz!

Iratz e jauzens m’en partrai,
s’ieu ja la vei l’amor de lonh;
mas no sai quoras la veirai,
car trop son nostras terras lonh:
assatz i a pas e camis,
e per aisso no·n sui devis…
Mas tot sia cum a Dieu platz!

Be·m parra jois quan li querrai,
per amor Dieu, l’alberc de lonh:
e, s’a lieis platz, alberguarai
pres de lieis, si be·m sui de lonh.
Adoncs parra·l parlamens fis
quan drutz lonhdas et tan vezis
qu’ab cortes ginh jauzis solatz.

Be tenc lo Senhor per verai
per qu’ieu veirai l’amor de lonh;
mas per un ben que m’en eschai
n’ai dos mals, quar tant m’es de lonh.
Ai, car me fos lai pelegris,
si que mos fustz e mos tapis
fos pels sieus belhs huelhs remiratz!

Dieus, que fetz tot quant ve ni vai
e formet sest’amor de lonh,
mi don poder, que cor ieu n’ai,
qu’ieu veia sest’amor de lonh,
veraiamen, en tals aizis,
si que la cambra e·l jardis
mi resembles totz temps palatz!

Ver ditz qui m’apella lechai
ni deziron d’amor de lonh,
car nulhs autres jois tan no·m plai
cum jauzimens d’amor de lonh.
Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis,
qu’enaissi·m fadet mos pairis
qu’ieu ames e nos fos amatz.

*

Quando i giorni sono lunghi a maggio
trovo solenni i miti canti di uccelli lontani,
e quando di là me ne sono partito,
torna il ricordo di un amore lontano:
proseguo per il desiderio abbattuto e a capo chino
sì che canti o fiori di biancospino
non mi giovano più dell’inverno gelido.

Io non gioirò mai d’amore
se non gioisco di questo amore lontano:
perché nobile e migliore non ne conosco
in nessun luogo, vicino o lontano.
Così vero e puro è il suo pregio
che laggiù nel regno saraceno
potessi io per lei essere schiavo!

Cupo e gioioso me ne partirò,
se l’avrò visto l’amore di lontano;
ma non so quando la vedrò,
perché le nostre terre sono troppo lontane:
vi sono valichi e sentieri
e io non posso indovinare…
Ma tutto sia secondo la volontà di Dio!

Davvero mi parrà gioia quando le chiederò,
per amore di Dio, l’albergo lontano:
e, se a lei piace, abiterò
presso di lei, anche se di lontano.
Allora sarà perfetto il parlare
quando l’amante lontano sarà tanto vicino
che con cortese astuzia gioirà dell’amicizia.

So bene che il Signore è veritiero
per il quale io vedrò l’amore di lontano;
ma per un bene che ricevo
ho due mali, poiché tanto mi è lontano.
Ah, perché non andai là da pellegrino
sì che il mio bordone e la mia cappa
fossero dai suoi begli occhi rimirati!

Dio, che fece tutto quanto viene e va
e plasmò questo amore di lontano,
mi dia possibilità, perché volontà ne ho,
che io veda questo amore di lontano,
veramente, in tale ricchezza
che la camera e il giardino
mi ricordino per sempre un palazzo!

Dice il vero chi mi chiama avido
e desideroso dell’amore lontano,
ché nessun’altra gioia tanto mi piace
quanto dell’amore lontano gioire.
Ma ciò che voglio mi è negato,
così mi diede in sorte il mio padrino,
che io amassi e non fossi amato.

Il testo originale segue l’edizione critica di Giorgio Chiarini in Jaufre Rudèl, L’amore di lontano, Carocci, Roma 2003. Continua a leggere

Antonio Fiori, da “Nel verso ancora da scrivere”

Antonio Fiori / Credits Photo Dino Ignani

(Poesie 1999 – 2017)

Neanche

Neanche il millisecondo attraversi indenne
neanche il sonno provvidenziale,
seppur ridisegnato uguale, così a vederti solenne
come atteso sempre ad una festa
quasi lo stesso ogni momento eppure
meno vivo ogni volta, in questa luminosa
fossa, più labile, più invisibilmente
spento.

*

Vorrei

Vorrei potervi dare un verso
che come un proverbio
non consumi il tempo,
che ripetuto non vi stanchi
che mi condensi
che subito vi manchi.

*

Mi trafiggono

Mi trafiggono invisibili
dai quattro angoli del foglio
tutte le infinite rette
delle soluzioni possibili.

*

Nuovi paesaggi

Quando m’affaccio il cielo è nero
non c’è più linea dell’orizzonte
né forma alcuna nel buio vedo

Così è ogni volta che arrivo tardi
in nuovi alberghi, nuove città
– serbo l’ebrezza dei naviganti

*

Ritorni

Ritorni, attesa nei giorni più lunghi
dell’ultimo giugno.
Ricordi, era via Emilio Lussu
una corta salita, e poi l’ombra del viale
dal sole scandita per noi
così allegri e diversi, Beatrice
com’era diversa l’Italia e la vita
– com’era letizia.

*

E’ silenzio dirompente sulle grida
è voce che scardina il silenzio.
Portamento regale nell’assedio
luce notturna, buio che c’illumina.
Come aquila incombe
invece è agnello
vita inerme che dura. Continua a leggere

Vittorino Curci, Poesie

Vittorino Curci

si può attraversare la stanza mettendo i piedi nelle bacinelle smaltate piene di acqua. le cassette di legno lungo le pareti sono vuote solo per chi non dà valore alla parola intuizione. gli altri possono girare la testa dall’altra parte dove, in un fascio di luce meridiana, c’è un bambino che fa il bagno in una tinozza di zinco. intorno a lui, disseminati sul pavimento, fogli di giornali appallottolati, bulloni, sassi, torce elettriche e mollette da bucato.
«non è stato un carnevale e non è finito» dice l’artista. «mi duole un braccio… sentite anche voi un ronzio?»
la gallerista è una statua di sale. ha il viso pieno di lipomi.
fa caldo. caldissimo. l’uomo basso e corpulento che è accanto a lei tira fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto sgualcito

*

il commiato che sfugge alla pagina
come di ogni cosa il senso che frana
nel nulla di questa notte di pioggia.
dalle finestre ancora accese
l’eloquenza di uno sguardo fa gelare
il sangue ogni volta che una goccia
di luce si squaglia sull’asfalto

«di me mi duole il dolore che non provo
per tutto quello che non sono stato»

1.

cumuli di spazzatura per le strade, gente sconosciuta e altri fatti inspiegabili hanno eccitato gli animi nelle ultime settimane.
prima di cominciare a bere ha messo al sicuro l’esplosivo

l’enormità della scelta in un paese dove è sempre maggio
«ehi, freccia scoccata, che ne sai tu del fango… domani vedremo se continuerai a parlare…»

in un moto di stizza porta al massimo il fragore dei macchinari.
una casa in disordine rende meglio l’idea

2.

il sospetto è fondato – il non pensare, dopo aver pensato.
non si può negare: il ragazzo rivive le stesse scene. ora corre con una girandola in mano. invece di guidarci oltre il confine svolta all’angolo del primo isolato

per quanto sia, facciamo anche noi delle sciocchezze.
ora siamo soli nella strada, è notte e non sappiamo dove andare

3.

dopo il secondo smottamento non ha più pretesti, non vuole accampare pretese. cerca solo di guadagnare tempo approfittando degli operai che portano le ultime carabattole per completare la scena

restano tre domande: perché restare, a cosa pensano i giocatori di birra davanti a queste porte chiuse con catene e lucchetti, che senso ha parlare di questo in una poesia

il crepitio del fuoco è un’alzata di spalle o un salto del pensiero. verità e menzogna insieme

in queste albe imperturbabili arriva il momento in cui restiamo soli con i nostri genitori, ma loro non ci sono

*

erano spezzature e falsi contrappunti
che gli tempravano le forze
lasciando i battimenti al suo utile idiota.
i balordi in quegli anni
facevano il diavolo a quattro
ma non riuscivano
a mandare in subisso la sua ricchezza.
il presagio chiedeva silenzi di approvazione.
i resistenti avevano il volto paonazzo
degli ubriachi e suonavano a orecchio
davanti a un pannello di lamiera ondulata.
in quell’imbroglio di immagini
i bambini tracciavano con le braccia
ampi cerchi nell’aria. era l’estasi
della loro momentanea immortalità Continua a leggere

Dal “Laudario di Cortona”, rivisitazione di Alberto Fraccareta

Nota
di Luigia Sorrentino

Dalla chiesa di S. Francesco proviene il celebre Laudario di Cortona, un codice membranaceo, in cui sono trascritte 66 laudi, di cui 46 corredate da notazione musicale, che trattano temi di argomento mariano e liturgico come, ad esempio, la Natività o la Pasqua, o per la devozione di santi. Esso rappresenta il primo e il più antico testimone di un nuovo genere librario, musicale e letterario, che entrò ben presto in uso presso le confraternite di buona parte dell’Italia e dell’Europa medievale, costituendone al tempo stesso il principale modello di riferimento.

Secondo la tradizione il manoscritto fu rinvenuto nel 1876 in pessimo stato di conservazione da Girolamo Mancini, figura poliedrica dell’erudizione locale, che, riconosciutone il valore, lo depositò nel fondo manoscritti della Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca (Cod. 91).

Troppo perde il tempo chi ben non t’ama
dal “Laudario di Cortona”

  1. Troppo perde il tempo chi ben non t’ama,
    dolc’amor Jesù sovr’ogni amore.

Amor, chi t’ama non sta ozïoso,
tanto li par dolze de Te gustare;
ma tutto sor vive desideroso
come te possa stretto più amare;
chè tanto sta per te lo cor gioioso:
chi non sentisse nol saprie parlare
quant’è dolc’a gustare lo tuo savore.

 

  1. Savor cui non si trova simillianza;
    o lasso! Lo mio cor poco t’asaggia.
    Null’altra cosa non m’è consolanza
    Se tutto ‘l mondo avesse, e te non agio.
    O dulz’amor, Jesù, in cui ò speranza,
    tu regi ‘l mio cor, ke da te non caggia
    ma sempre più ristringa ‘l tuo dolzore.

 

  1. Dolzor ke tolli forza ad ogni amaro
    et ogni cosa muti in tua dolceza,
    questo sanno lisancti ke ‘l provaro,
    ke féciaro dolze morte in amarizza;
    ma confortolli el dolze latovare
    di te, Jesù, ké vénsar’ogn’asprezza,
    tanto fosti süave in li lor cori.

 

  1. Cor che te non sente, ben po’ star tristo,
    Iesù, letitia et gaudio de la gente:
    solazo non pot’essar senza Cristo!
    Taupino ch’eu non t’amo ben fervente!
    Ki far potesse totto ogni altro aquisto,
    et te non agia, di tutt’è perdente,
    et senza te sirebbe in amarore.

 

  1. Amaro in nullo core puote stare,
    cui tua dolceza dona condimento:
    ma tuo savor, Jesù, non po’ gustare
    ki lassa te per altro intendemento.
    Non sa né può lo cor terreno amare
    sì gran celestial delectamento:
    non vede lume, Cristo, in tuo splendore.

 

  1. Splendor ke doni a tutto ‘l mondo luce,
    Amor Jesù, de li angeli belleza,
    cielo et terra per te se conduce
    et splende in tutte cose tuo forteza:
    ognunque creatura a te s’aduce,
    ma solo ‘l peccatore ‘l tuo amor spreza
    et partise da te, suo creatore.

 

  1. Creatura humana, scognoscente
    sovr’ogn’altra terrena creatura,
    comme ti puoi partir sì per niente
    dal to factor, cui tu se’ creatura?
    Ei ke ti chiama cusì amorosamente
    che torni a lui, ma tu pur listai dura
    et non ài cura del tuo salvatore!

 

  1. Salvatore ke de la vergene nascesti,
    del tuo amor darne non ti sia desdegno,
    ké gran segno d’amor alor ci desti,
    quando per noi pendesti en sullo legno.
    Nelle tue sancte magne ci descrivisti,
    per noi salvare et darci lo tuo regno:
    lege la tua scriptura, buon scriptore.

 

  1. Scripti sul sancto libro de la vita
    Per tua pietà, Jesù, ne representa:
    la tua scriptura ià non sia fallita
    e ‘l nome ke portamde te non menta.
    La nostra mente fa di te condita,
    dulcissimo Jesù, sì ke te senta
    et strictamente t’ami con ardore.

 

  1. Ardore ke consumi ogni freddura
    e purghi et illumini la mente,
    ogn’altra cosa fai parer obscura
    la qual non vede te presentemente:
    et già mai altro teco amar non cura,
    per non cessar l’amor da te niente
    et non ratemparal dal tuo calore.

 

  1. Calore ke fai l’anima languire
    et struggere lo cor de te inflammato,
    ke non è lingua ke ‘l potesse dire
    né cor pensare, se noll’à provato!
    Oimè lasso, fammete sentire;
    riscalda lo mio cor di te, gelato,
    ke non consumi in tanto freddore.

 

  1. Freddi peccatori, el grande fuoco
    nello inferno v’è aparechiato,
    se questo breve tempo, k’è sì poco,
    d’amor lo vostro cor non è scaldato:
    però ciascun si studi in onni luogo
    d’amor di Cristo essar abraciato
    e confortato del suave odore.

 

  1. Odor ke trapassi ogn’aulimento,
    Iesù, ki ben non t’ama fa gran torto!
    Chi non sente el tu’ odoramento
    od illi è puzulente od illi è morto!
    E’ fiume vivo del delectamento,
    ke lavi ogni fetore et dai conforto,
    et fai tornare lo morto in suo vigore!

 

  1. Vigorosamente li amorosi
    àno quella via en tanta dolceza,
    gustando quelli morselli savorosi
    ke dona Cristo a quelli k’àno sua conteza,
    ke tanto sono suave e delectosi;
    ki bene l’asagia tutto lo mondo despreza
    e quasi en terra perde suo sentore.

 

  1. Sentiàmoni, o pigri, o negligenti,
    bastane el tempo c’agiamo perduto!
    Oimè lasso, quanto siamo stati sconoscente,
    c’al più cortese non aviamo servito:
    cului ke ce enpromette celestiale presente
    a cui l’inpromette già no’l’à falluto
    e ki li ama listane buono servidore.

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I poeti, i re che amano troppo

[Nota a Margine ]

Alessandra Leone che scrive questo articolo, riprende  il  brano musicale “Il re di chi ama troppo” della cantante italiana Fiorella Mannoia, inciso in duetto con Tiziano Ferro e scritto da quest’ultimo.

La ballata racconta il punto di vista di chi si spende totalmente in amore, rischiando così di rimanere spesso bruciato. Per Alessandra Leone questa figura è quella del poeta.

Commento

di Alessandra Leone

C’è differenza tra i poeti e gli intellettuali del passato e quelli di oggi? Esistono ancora veri intellettuali, e se sì, perché si preferisce dar voce ai vari opinionisti, giornalisti e pseudo studiosi che si ergono a esperti di tutto? Cosa è cambiato, se effettivamente è cambiato qualcosa? Sono domande che possono apparire provocatorie, ma in realtà intendono stimolare una riflessione.

La poesia con i suoi messaggi e i suoi valori, quali libertà e uguaglianza, con quelle domande esistenziali e le sue riflessioni, non cambia né cambierà mai, essendo senza spazio né tempo. I tanti Ulisse del passato, del presente e del futuro non cercano forse quelle risposte già avute secoli fa? La voglia di capire qual è il proprio posto nel mondo e di realizzarsi, quel continuo anelito di esprimersi senza pregiudizi e paure riuscendo ad essere davvero se stessi, quella sete di serenità, pace e felicità sembrano essere sempre i medesimi.

I frammenti in dialetto eolico di Saffo, vissuta oltre 2.500 anni fa, le sue parole su sensazioni, sentimenti e tormenti amorosi verso gli uomini e verso le donne sono ancora attuali. Anche i protagonisti delle tragedie greche hanno la stessa modernità, se pensiamo che nella nostra vita capita di incontrare tanti Edipo accecati da tracotanza e superbia, dal proprio ego e dalle proprie convinzioni. Rimanendo nella famiglia del re di Tebe, l’eterno conflitto tra autorità e potere di Antigone, anticonformista contro i totalitarismi e le convenzioni sociali che consideravano la donna in secondo piano, sembrano scritte da un contemporaneo e non da Sofocle, vissuto nel V secolo a.C., se è vero che ne hanno tratto ispirazione autori come Vittorio Alfieri e Adolfo Lauro De Bosis.

Esiste ancora oggi quell’impegno civile di cui Antigone si è fatta portavoce, così come hanno fatto intellettuali, scrittori, poeti, artisti e giornalisti che hanno rischiato e rischiano anche la vita per difendere gli ideali in cui credono? Penso a personalità capaci di scuotere le coscienze attraverso la propria voce e le proprie idee, come Ungaretti e Pasolini, Yves Bonnefoy e Derek Walcott, Seamus Haeaney e Anna Politkovskaja, solo per citarne alcune. Continua a leggere

Robert Sullivan, “Cantico Pāua”

XXXIII

Through the waters spilled
By that spring, I was remade. Forth I fared,
A new plant with new leaves in a new time.
The stars were there, and I was set to climb.
I muscled through tides
between rocks and air, sand turning
like a child’s water wheel before me,
star and moon glitter in the turns
waves make storming
the Ōamaru beach.
I haven’t gathered mahika kai
here yet. I don’t like
swarms of kina, but
the ocean plants
feed me and my rainbow
and dried kelp carries the tītī too.
I’m fond of colours and kai.
They have things celestial
and oceanic in them. Who would
know my black foot
could create a star turn?
I sit within my colours,
my scraper inching along
biting rocks and seaweed.
If I had hands and a ukulele
I’d play ‘Rainbow Connection’
for lovers and dreamers. La di da.
I look up past the salt ceiling
and ask how am I here?
A starfish plugs my breathing holes.
I push off a rock wishing for
fresh water. I have to feel
with my foot the sun.

by Robert Sullivan

XXXIII

Attraverso le acque rovesciate
da quella primavera, rinacqui. Me la sono cavata,
una nuova pianta con nuove foglie in un nuovo tempo.
Le stelle erano lì, e io ero pronto alla risalita.
Mi sono fatto largo attraverso le maree
tra rocce e aria, sabbia rotante
come la ruota idraulica di un bambino dinanzi a me,
stella e luna brillano a turno
le onde fanno tempesta
sulla spiaggia di Ōamaru.
Non ho ancora raccolto il mahika kai
qui. Non mi piacciono
i nugoli di kina, ma
le piante oceaniche
mi nutrono e il mio arcobaleno
e l’alga essiccata attira persino il tītī.
Adoro i colori e il kai.
Hanno sfumature celestiali
e oceaniche in loro. Chi può
sapere che il mio piede nero
farà il numero principale?
Mi siedo tra i miei colori,
il mio raschietto avanzando
irrita rocce e alghe.
Se avessi le mani libere e un ukulele
suonerei Rainbow Connection
per amanti e sognatori. La di da.
Alzo lo sguardo oltre il soffitto di sale
e mi chiedo: come sono qui?
Una stella marina mi tappa le vie respiratorie.
Spingo via una roccia desiderando
acqua dolce. Devo sentire
col mio piede il sole.

Traduzione di Alberto Fraccacreta

da Miglior acque. 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante, a cura di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi, Samuele Editore 2022 Continua a leggere

Gerardo Masuccio “La poesia mi ha salvato la vita”

Gerardo Masuccio

Gerardo Masuccio ha vinto il premio Struga Poetry Evenings 2022

Struga Poetry Evenings (SPE) (Macedonian: Струшки вечери на поезијата, СВП; tr. Struški večeri na poezijata, SVP) is an international poetry festival held annually in Struga, Republic of Macedonia.


La poesia e il disertore

Gerardo Masuccio

Discorso di accettazione del premio
Bridges of Struga
Agosto 2022

La letteratura mi ha salvato la vita. Tra una lettura e l’altra, tra una poesia e l’altra, tra un lavoro editoriale e l’altro, io fingo di vivere. Grandi autori del passato – più abili, più illustri di me – hanno affermato di essere nati per scrivere. Piacerebbe anche a me sostenere questa posizione, ma mentirei. Non sono nato per la letteratura. Io leggo, scrivo e curo i libri degli altri perché la vita, senza, mi si rivela in tutta la sua mediocrità. Eppure, per citare Leopardi, «non ho fin qui cagion di pianto».

Dal momento che il non-essere mi inquieta e, se mai si può prediligere ciò che non si conosce né si ricorda, non posso sceglierlo, e la vita – per così come la avverto in me e la percepisco negli altri – mi appare assurda e insignificante, fin da bambino ho scorto nella letteratura una via di fuga. Quell’istante della giornata in cui il sole non è ancora sorto, ma la notte è già un ricordo. Un’intersezione in cui nulla è ancora quel che è. Un limbo, un istante di tregua.

In altre parole, la letteratura è per me una scialuppa nel naufragio. Eppure, se quella via di fuga è salvezza per il naufrago cui sprofonda la nave sotto i piedi, se anche è sopravvivenza e quel naufrago le deve una riconoscenza infinita, non si può affatto pensare che un uomo parta per mare con l’obiettivo di imbarcarsi su una scialuppa. No, non posso dire di essere nato per la letteratura, ma posso affermare con certezza che la letteratura ha reso la mia vita possibile.

Pronunciate in questo tempio della poesia mondiale, qui a Struga, forse le mie parole fanno di me un disertore. I poeti che più stimo vivono per la propria poesia, la nutrono come fosse il nucleo pulsante di tutto ciò che sono. Quanto a me, devo confessare che non scriverei più e mi disfarei di tutto ciò che ho scritto se solo potessi abbandonarmi alla felicità senza più pormi le domande che il pensiero poetico alimenta in me, e che sento necessarie. Credo, insomma, che la mia poesia non nasca per descrive il viaggio esistenziale, ma per denunciarne l’inconsistenza. Un viaggio felice non contempla alcun ricorso alla letteratura.

C’è però una domanda cardinale che può forse riabilitarmi dalla diserzione. Mi è possibile coniugare consapevolezza esistenziale e felicità? Mi è possibile disfarmi della letteratura e, nel contempo, proseguire un’indagine sulla vita che non si fermi all’ovvio, alla pura superficie?

Per rispondere a questa domanda ho bisogno di osservarmi con gli occhi di un altro.

Mia nonna, nata nel corso della guerra, a pochi mesi dal tracollo del fascismo, mi avrebbe voluto religioso e devoto. Ha provato a crescermi così, in buona fede e con amore. Oggi, però, non sono affatto un uomo religioso. Coltivo la mia spiritualità e non rinvio ad altre dimensioni e ad altri tempi quelle domande esistenziali a cui non trovo risposta. Una fede solida mi avrebbe reso un uomo felice, ma i dogmi avrebbero stemperato una ricerca esistenziale tenace.

Mio padre, nato negli anni ruggenti del boom economico italiano, avrebbe desiderato che mi impegnassi attivamente nella società, che investissi la mia intelligenza qui e ora. Oggi, però, non sono affatto un animale politico. Mi tengo informato, seguo il dibattito pubblico, rifletto sui temi sociali ed economici all’ordine del giorno.

Credo, tuttavia, nell’impotenza umana, nei corsi e nei ricorsi storici. Solidarizzo con la vittima, ma scorgo nei suoi occhi il mancato carnefice; condanno il carnefice di oggi, ma non mi sfugge la vittima che è stato o che sarà, chissà dove, chissà quando.

Mi sento responsabile di ogni efferatezza umana, in ogni piccolo gesto, anche quando pranzo o accendo la luce: il mio pasto è la fame di un altro; la mia vista è il buio di un altro. Non posso perseguire la giustizia se avverto che la mia prima colpa è esser nato e che ai torti che il nascere innesca non c’è equa soluzione.

La lotta politica avrebbe assorbito tutte le mie energie, mi avrebbe reso un uomo più sereno, ma i filtri sulla realtà che ogni credo impone avrebbero appannato una ricerca esistenziale nitida.

Mia madre, nata nei primi anni settanta, in un’epoca in cui tutto ha assunto il valore del proprio corrispettivo economico, avrebbe voluto che io diventassi un avvocato.

Per un periodo si è illusa che l’avessi assecondata, ma io ho studiato giurisprudenza senza ambizioni di quel tipo. Con dedizione, sì, ma spinto da valori alti che non sono precipui per la giustizia umana.

Non mi animavano i codici e le procedure, ma le parole di Euripide e di Dante, di Dostoevskij e di Deledda: il delitto e il castigo, la causa e l’effetto, il peccato e la grazia. Non i processi, non i contratti. Una brillante carriera forense mi avrebbe assicurato prestigio sociale e immediata solidità economica. Ma, calato nel mondo come ogni burocrate deve e sazio della pienezza di chi non vede oltre il secolo umano, avrei trascurato ogni spinta esistenziale più profonda.

In quel che mia madre, mio padre e mia nonna hanno considerato il tutto, fin da subito ho avvertito la carezza del nulla. Dio, la patria, i valori civili, la ricchezza e il prestigio sociale. Ho scoperto il vuoto in ciò che riempie la vita di altri. Continua a leggere

Silvia Bre, “Le campane”

Silvia Bre Photo Dino Ignani

La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano il buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non lo sbaglia e muore.

*

C’è una forza che tiene e ha una forza
che tira avanti come un animale
non chiede niente e si prolunga buia
nel suo buio venire in mezzo al mondo
travolge tutto dalle sue radici
via dalla memoria di qualcuno
puntando oltre, verso più nessuno
averla dentro leva da se stessi
come va via da te quello che dici.

*

In questo sonno raccolgo la mia polvere
se la mano distesa ancora manca
di franare nell’unica quiete
e la parola innata non significa
ma scendo sempre ancora
nel quieto darsi a lei del mio pensare,
mentre dormo la vita ancora sogno
la quiete che mi accerchia e sta sospesa.

*

Questo diventi, mia acuta differenza
spartita dalle correnti d’aria, squilibrio
rincorsa, tuoni di nostalgia in un suono perso
che si fa dilaniare a ogni rimbombo.
Ma io resisto, ti sto murando col gesto del vento
ti tengo ferma via da me
ti impongo all’universo.

(Silvia Bre, “Le campane”, Einaudi 2022)

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Il segno del tragico nella poesia di Luigia Sorrentino

Luigia Sorrentino Photo di Gianni Rollin

Luigia Sorrentino, da Olimpia (Interlinea, Novara 2013-2019) a Piazzale senza nome (Pordenonelegge-Samuele Editore, Fanna, PN, 2021), le tracce di una scrittura sovrana.

Note in margine

di Marco Marangoni

La scelta stilistica della Sorrentino, giunta a piena maturità già con Olimpia, ha la forza e la rarità di restituirci un tempo arcaico, circolare, di distruzione e rigenerazione del tempo, del ritorno.

E’ significativo che a proposito di Olimpia sia De Angelis (in Prefazione) che Benedetti (in Postfazione), al fine di sottolineare tale cifra poetica, abbiano citato lo stesso passo lirico del libro, che sembra davvero esplicitare una poetica del ritorno: “Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo stati”.

La poesia, a cui quel verso appartiene, si intitola “Deformazione”: titolo, utile a sua volta, per comprendere uno stile che, pur accedendo alla forma, de-forma (diversamente dunque dal gesto avanguardista), la comunicazione: non in quanto la nega, ma in quanto piuttosto la de-situa, realizzando quel particolare “spasimo dell’intelletto che non fa parte di un individuo ancorato a se stesso e alla società in cui vive” (Benedetti, op. cit.).

Di qui la difficoltà specifica di questa poesia, inesplicabile senza una concezione arcaica o mitica del linguaggio.

Non è insomma quello della poetessa uno sguardo usuale, mimetico-critico, radicandosi invece in livelli cosmici che presuppongono per la loro intuizione che il tempo cronologico sia abolito o messo tra parentesi.

Ecco che in Olimpia si potevano leggere le seguenti sequenze liriche: “Fluttuando nella sostanza emotiva che pre-/ serva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella/ morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese,/ avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici […].”.

Abolito il tempo, vita e morte possono scambiarsi in una coincidenza di opposti: “tutta la nostra attesa era/ in una madre che ritorna/ nel regno dei vivi e dei morti”.

Avviene allora che il dramma della realtà-poema nel suo intero (“tutto si era placato”) ha il suo acme nel pathos della distanza-prossimità, nella misura attimica tra quiete perfetta e totale vicissitudine: “non chiamate la rosa […] quasi da vicino,/ lasciate ciò che è immobile attorno/ a lei […] chiaro brivido che all’indietro guarda/ e sorregge il lontano in quell’istante/ la rosa”.

Portarsi qui, in questa misura, è la vocazione della Sorrentino. Ma non è possibile alcun adunare senza volgere/ rivolgere, senza dissidio: “inaudito era il volto della fonte// e quando il dio le entrò dentro/ più forte adunò tutti i fiumi/ nel suo volgersi e rivolgersi”.

In questi versi che ricordano il Werden (Divenire dell’Uno-tutto) di Hölderlin, la poetessa ci avverte che per accedere al tragico si deve sacrificare l’orientamento pratico, l’atteggiamento reattivo, la metafisica della presenza.

Qui cade il confronto/incontro di questa poesia con il male in letteratura, con quel male che non si può non incontrare una volta che sia stata aperta la porta a quel “grumo di forze” che abbiamo già citato. G. Bataille, molto istruttivamente ha scritto: “L’umanità persegue due fini, di cui uno, negativo, è di conservare la vita (evitare la morte), l’altro, positivo, di accrescere l’intensità della vita. […] Ma l’intensità non si accresce mai senza pericolo […] può esserlo in modo disperato, al di là del desiderio di durare.” (La letteratura e il male, trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano, 1997, p.67).

L’intensità che si accresce in corrispondenza del “pericolo“ è una formula che richiama il tragico e il famoso verso di Hölderlin: “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.

Questo a dire che non c’è sviluppo possibile, per una poesia come quella della Sorrentino, che non sia quello che consiste nel penetrare, per atti concentrici e rituali, nel doppio di vita/morte: “nella ferita – leggiamo in Piazzale senza nome, op. cit.- che voi non avete mai visto”.

Di certo però è in questo nuovo lavoro (Piazzale senza nome) che Luigia Sorrentino, oltre a tessere fedelmente, (in un senso prossimo, se non identico, a quello di Bataille) della poesia dove il terreno dell’esperienza diventa più trasgressivo, maledetto: “luminosa potenza/ abbandonata e sola/ trascina giù, riempie/ tutta la forza“; “La fine era lì, dove qualcos’altro cominciava./ Un patto muto ci consacrò per sempre al cuore di quella terra scura/ e insanguinata.”

L’ispirazione è qui continuativamente rivolta a un senso radicale di rapimento, vorticità, discesa.

Placamento o catarsi sono al termine del rivolgimento catastrofico (katá stréphein: voltare in basso): “aveva oltrepassato/ il confine/ restituita la voce all’universo”; “perduta nell’oceano/ la frequenza cardiaca/ la voce dell’universo”; “ora la tua voce ha la struttura del suono.// La stanza è un’urna fiorita. Avvolge un ritorno senza confini./ Adunata sul petto risuona fra le braccia la corrispondenza armonica/ del cuore in esilio.”

E la morte diventa un luogo sacro, un luogo impossibile (Goethe) con cui la poesia è chiamata a confrontarsi abissalmente: ”il grembo della voce si spegne/ reclama il buio/ la cupa processione della negazione/ nomina un paese morto”.

Photo di Luigia Sorrentino 22 gennaio 2017

La direzione “a scendere” inverte, nel modo più crudo e violento, l’orientamento costruttivo, l’edificante, l’apollineo. Un Dionysus redivivus agisce qui – ancor più che in Olimpia– dove si svolta dalle distinzioni razionali del bene e del male, verso uno spazio inaudito eppure ancora ancorabile a un linguaggio: alla parola simbolica cioè, ambivalente, fluttuante, frammentaria, e poematica al tempo stesso: alla parola-che-canta come una salvezza-che-cade: “ abita la sordità della morte […] la sua luce è potente e tragica// ha la forza della musica/ il canto cardiaco/ l’impronta della tenerezza/ caduta dalla mano del padre”. Continua a leggere

Amanda Gorman e il “Libro di Michea”

Amanda Gorman è la ragazza afroamericana che a soli 22 anni è salita sul palco per leggere una sua poesia nel giorno dell’insediamento del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Photo © Kelia Anne


Nota di Alberto Fraccacreta

È il Libro di Michea il possibile intertesto di The Hill We Climb, l’opera che Amanda Gorman ha recitato durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden (traduzione di Francesca Spinelli, Garzanti, 2021).

Be’, innanzitutto c’è una citazione esplicita: «Le Scritture questo ci dicono di immaginare: / “Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico / E più nessuno li spaventerà”». Siamo a metà del poemetto – che consta di centodieci versi – e la Gorman menziona Michea 4,4 (ma suggeriscono qualcosa di simile anche Zaccaria 3,10 e 1Re 5,5).

Sembra che la ventiquattrenne poetessa di Los Angeles abbia ricavato l’idea dal musical Hamilton di Lin-Manuel Miranda, vincitore del Premio Pulitzer e di un Grammy Award nel 2016.

All’interno della pièce l’espressione risuona nel discorso di addio di George Washington, il quale amava l’immagine della vite e del fico al punto da utilizzarla una cinquantina di volte nella corrispondenza privata.

Il riferimento scritturale indica pace e prosperità: il significato è concreto e allegorico, letterale ed escatologico. È lo stesso Michea che ci invita a questo duplice livello di lettura.

Il profeta, al pari di Amanda, intende combattere l’ingiustizia sociale entro una prospettiva messianica. La «collina che scaliamo», rimando mascherato a Michea 4,2 («Venite, saliamo sul monte del Signore»), è quella dei diritti e, allo stesso tempo, quella della vittoria decisiva del popolo di Dio: la «radura promessa», il monte di Sion, la Gerusalemme celeste.

Finiscono qui i legami tra The Hill We Climb e la Bibbia? Certo che no. Se strizziamo i versi, notiamo che gocciolano di sintagmi, parole-tenda, elementi morfologici i cui detergenti e additivi sono Vecchio e Nuovo Testamento. Ecco una rapida carrellata: «Nasce il giorno» (nell’originale «When day comes») corrisponde a Giovanni 14,20 «When that day comes», secondo la Bibbia di Re Giacomo fruibile in USA; nella formula idiomatica «il ventre della bestia» allignano Giona 2,1 «Giona restò nel ventre del pesce» e Apocalisse 13,1 «vidi salire dal mare una bestia»; l’«unione perfetta» richiama 1Corinzi 1,10 «siate in perfetta unione di pensiero e di intenti»; «alziamo i nostri sguardi non / su ciò che si frappone tra noi» è parallelo a 2Corinzi 4,18 «perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili»; in «un’ora di così grande terrore» riecheggia Luca 22,53 «ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre». Si va avanti a lungo smerigliando la Genesi, Geremia, la Lettera ai Romani. Ma facciamo soltanto due esempi che riguardano la chiusa. Continua a leggere

Alberto Bertoni e Enrico Trebbi

Poesia Festival 2017 Sabato a Vignola l’Alzheimer : la malattia, la cura, ……. photo© Serena Campanini

Da “Canzonette politiche e morali” di Alberto Bertoni.

Senza famiglia

Il mondo, oggi, è fuori posto
la cantina spostata di un metro
buono, la bicicletta
che quando la riprendo
è simile ma non uguale
giallina senza la sua
sfumatura avorio
e io mi sento il signore del Piuttosto
guardando negli occhi della belva
in cui si è trasformata la mia gatta
fuggitiva di solito e distratta
ma adesso cacciatrice d’astri
o di più commestibili formiche
sui pavimenti di tutta la casa
con agguati da tigre
a fauci spalancate,
ignara dell’impenetrabilità dei corpi solidi
proprio adesso che è notte
imprendibili gli sciami di zanzare
e di lei molto più mordaci
nell’infinito immobile di un letto
che alla fine, mi accorgo,
non è il mio

Comunione

Racconta una sera Matteo Zuppi,
cardinale legato di Bologna,
che quando era prete a Sant’Egidio
l’ex pugile e attore Tiberio Mitri
prima di prendere l’ostia
consacrata fra le labbra
accennava la mossa
del pugile in guardia
senza dire se poi scattava
di Tiberio anche il gancio sinistro
col quale stendeva ogni giorno se stesso
alla fine risucchiato da un treno
fra Civitavecchia e Roma
un’alba d’inverno al principio
del nuovo secolo

I ricordi nel racconto un puro impiccio
al suo esistere nudo
senza direzione verso casa
di Alzheimer la comunione
e la strada

Enrico Trebbi

Da “Storie delle case” di Enrico Trebbi


Terza casa

In una vita non è molto cambiata
la vecchia casa allungata
che ancora dimora i miei sogni.
Un microcosmo sentimentale
che nell’infanzia era il mio
unico mondo, il mondo
spaurito dei prematuri neri invernali
appeso a un vetro di finestra
gli occhi che scrutano il buio
come scandagli nel fondo
cercano segni di esistenza
a bordo dei relitti abitati
dalle fievoli luci sottomarine
nel crescere in fretta e furia,
come se mancasse il tempo
e la strada la si dovesse sempre
correre a perdifiato. Chissà
quali mostri affamati potrebbe
partorire la sera che non ha
i lampioni di Magritte a illuminare
quasi raggiungibili portoni.
Il davanzale basso, forse
mio padre si sporgeva troppo,
la minuscola finestra nell’antro
in cui mia madre cucinava
da cui solo vedere sole o luna
e quel minimo circolo d’aria
che consentisse di disperdere
profumi, odori, fumi e molecole
di cibo, la cena uno sparuto miracolo
eucaristico, le rare volte in cui
tutti eravamo a tavola, padre compreso
mai però abbastanza, che spesso disertava
per altre tavole e tavoli commensali.
Io rannicchiato nell’angolo buio
vicino alla seconda poltrona, la prima era
eccessivamente illuminata, speravo
non mi si vedesse e fosse quello
il varco per trovare l’ingresso al mondo
di miracolosa sfinitezza che solo
talune giornate grigie e sommessamente
piovose recano in dono, quando
il limite tra veglia e sonno si fa
progressivamente più incerto e sottile. (…) Continua a leggere

Paura e sgomento per Salman Rushdie

Il successo negli anni Settanta con “I figli della mezzanotte” e poi le minacce dagli integralisti islamici per “I versi satanici”

In this file photo taken on October 13, 2019, British author Salman Rushdie poses with his book ‘Quichotte’ during the photo call for the authors shortlisted for the 2019 Booker Prize for Fiction at Southbank Centre in London on October 13, 2019. – It has been reported that Rushdie was attacked on stage during an event in New York. (Photo by Tolga AKMEN / AFP)

Sono gravi le condizioni di Salman Rushdie vissuto per più di 30 anni sotto la minaccia di morte dell’estremismo islamico.

Lo scrittore aggredito e accoltellato ieri 12 agosto 2022 alla Conferenza alla Chautauqua Institution di New York alla quale stava partecipando, rischia di perdere un occhio e forse la vita stessa.

Rushdie, che presenta gravi danni al viso, al braccio e al fegato, è stato sottoposto a un lungo intervento chirurgico e adesso è attaccato a un respiratore artificiale.

La Fatwa emessa nel 1988 dall’ayatollah Khomeini è piombata su di lui a causa del suo romanzo “I versi satanici” pubblicato in Italia da Mondadori.

Per questo libro considerato da una parte dell’islam ‘blasfemo’, Khomeini offrì una taglia di 3 milioni di dollari come ricompensa a chi avesse ucciso Salman Rushdie in qualunque momento e in qualunque posto del mondo lo scrittore si trovasse.

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